Al Qaeda proclama

Al di là dei proclami di Al Zawahiri, che proclama come imminente la vittoria in Afghanistan, è chiaro che dal pantano dove si sono infilate le forze NATO sarà sempre più difficile uscire. La fase militare attuale è caratterizzata dalla situazione di stallo dovuta ai combattimenti che hanno come scenario il “cul de sac” delle valli più interne, dove il nemico è costituito dalle tribù più vicine agli integralisti di Al Qaeda, sono gli stessi avversari che hanno messo alle corde l’armata rossa; psicologicamente sono forti della padronanza del territorio e godono dell’appoggio della popolazione guadagnato in parte con il rispetto, in parte con la minaccia. Anche il Generale Petraeus, capo delle forze NATO, è scettico sull’ipotesi di un ritiro entro il 2011, come già programmato, il suo atteggiamento è più pragmatico ed è volto a ridurre le perdite civili, ben comprendendo che l’eventuale vittoria non può passare solo dall’azione militare ma anche dalla conquista della popolazione civile. Proprio su questo campo si apre la nuova offensiva di Al Qaeda che rivendica come determinante l’azione di aiuto portata ai fratelli islamici pakistani durante le recenti alluvioni, incolpando il governo centrale di furto relativamente agli aiuti internazionali. Diventa sempre più chiaro che l’investimento sempre maggiore dovrà riguardare non solo lo sforzo militare ma il corollario civile che permetta di guadagnare il sostegno della popolazione, e la sua costante difesa, oltre ai cannoni la parte essenziale deve riguardare sempre più le scuole, gli ospedali,  le infrastrutture in generale e la loro pubblicizzazione nel tessuto sociale afgano.

Diplomazia dilettante?

Uno spettro di diplomazia si aggira per l’Unione Europea, il trattamento della questione dei rimpatri dei rom, per il quale in questa sede non si vuole dare un giudizio di merito, con le discussioni aspre ed il dibattito non certo diplomatico che ne è seguito sparge sale sulle ferite aperte del gestione dei rapporti tra gli stati membri e tra gli stessi stati e le istituzioni internazionali. Per prima cosa lo spettacolo è stato indecoroso, non è ammissibile un metodo tale della gestione della controversia, non è possibile che manchi una forma istituzionale che permetta di dirimere la questione nel rispetto dei modi e delle forme che dovrebbero caratterizzare i rapporti internazionali, non solo, tali forme dovrebbere essere un dato di fatto certo tra paesi di una stessa organizzazione internazionale e tra di essi e le proprie figure istituzionali. Viene il dubbio di essere davanti ad una mancanza di conoscenza conclamata, non solo delle forme ma anche del protocollo che deve essere seguito in tali occasioni.  Ne consegue un sospetto atroce: a chi è in mano la diplomazia comuntaria per i rapporti al proprio interno? Siamo davanti ad una accozzaglia di dilettanti incapaci di mantenere su di una via consueta i rapporti diplomatici? Il sospetto è legittimo, ma esiste anche un’altra possibilità si vuole seguire una tattica di rottura che implichi scenari futuri? Una tattica politica che voglia delegittimare le istituzioni europee per carpirne le competenze e favorire determinate spinte contrarie al centralismo? La questione è di fondamentale importanza per la funzione politica dell’Unione, è chiaro che i paesi membri sono 27 e le risultanze elettorali dei singoli paesi sono diverse e non è stata ancora metabolizzata nelle nazioni la spinta europeista che dovrebbe accelerare il processo di unione, ma è ora di fare chiarezza sul dove si vuole andare, cioè su quale ruolo e funzione deve assumere l’Europa di fronte agli scenari mondiali ed alla velocità di cambiamento che contraddistingue la fase storica attuale; rapportarsi in questi modi, seppure di fronte ad una questione come quella dei rom che implica diritti fondamentali del cittadino europeo e che dunque,  giustifica battaglie di principio (vale per entrambe le parti), non è un segnale incoraggiante.

Il solco tra le due sponde del Mediterraneo

Nel Mediterraneo il solco religioso, e quindi politico si fa più profondo. La sponda sud si sta caratterizzando per una crescente islamizzazione a scapito della laicità degli stati, anche in paesi tradizionalmente meno propensi ad un coinvolgimento religioso nelle sfere sociali e politiche si stanno affermando spinte integraliste tese ad influenzare la vita istituzionale. I casi sono diversi, tralasciando l’Algeria dove da tempo si si combatte con un’integralismo sempre più radicato, l’avanzata islamica prende campo in Egitto, paese tradizionalmente laicista, Libia, dove il fenomeno pare incanalato ad uso e consumo del dittatore Gheddafi, ma è comunque una spia del processo in atto e sopratutto Turchia dove in una elezione democratica ha vinto un partito che seppur democratico è dichiaratamente filo islamico. La progressiva avanzata nel campo istituzionale della visione islamica non fa che radicalizzare i rapporti tra gli stati del mediterraneo del nord e di conseguenza dell’Europa, tale ottica infatti non può non contrastare con gli standard sociali consolidati nei paesi dell’Unione. In realtà il problema è duplice, se da un lato complica le relazione tra gli stati, dall’altro la crescente immigrazione nei paesi europei da parte di popolazione di fede islamica pone, nel migliore dei casi il legislatore di fronte alla regolamentazione di situazioni nuove, passando attraverso alle questioni pratiche di ordine pubblico legate ad esempio alla mancanza di luoghi di culto, fino al controllo di elementi terroristici infiltrati in associazioni religiose. La visione più laicista e comunque di differente religione e cultura, anche se con gli opportuni e necessari distinguo che caratterizza i paesi occidentali non può non portare a tensioni sempre crescenti per tali motivi ed anzi la situazione è già su di una china piuttosto scivolosa; urge quindi una politica efficace e coordinata che prevenga una ulteriore degenerazione in un’ottica di accordo sia interno che esterno anche in relazione ai numerosi contratti commerciali che intercorrono tra le due sponde del Mediterraneo. Quello che pare necessario è un intervento diretto dell’Unione Europea che governi direttamente questi processi, ma ciò passa per forza da una politica estera dell’Unione sempre più centralizzata con la ovvia rinuncia allo spezzatino delle ventisette politiche estere ora in azione.

La direzione della Turchia

La vittoria dei SI nel referendum turco pone la questione all’ordine del giorno per l’Europa e per la scena internazionale. Le modifiche che verranno introdotte sono in gran parte in linea con i principi del diritto occidentale ed è buona cosa l’affrancarsi da una sempre incombente “tutela” di tipo militare, tuttavia esiste l’introduzione di una norma che porta sotto il controllo dell’esecutivo il potere giudiziario, tale norma, denuncia l’opposizione, potrebbe indirizzare le sentenze verso direzioni obbligate e con un partito islamico al potere la laicità del paese sarebbe in pericolo. A questo punto è lecito domandarsi se la Turchia è veramente più vicina all’Europa o se, se ne sia allontanata ulteriormente. E’ chiaro che il paese sarà ancora di più sotto la lente della UE ed i prossimi atti saranno determinanti per l’ingresso nell’unione. Ma intanto la Turchia, in campo economico si muove in modo vivace verso oriente, si è  infatti creata una sorta di economia ottomana, come è stata chiamata, che vede larghe intese commerciali di Ankara con Iran, Iraq e Siria, gli scambi coinvolgono ogni sorta di merce ed hanno dato alla Turchia un forte impulso alla propria crescita. Per l’europa potrebbe trattarsi di una porta su territori non ancora troppo battuti ma caratterizzati da una buona fase di sviluppo; ma tutto è in mano alla politica ed alla società turca, se manterranno una forte connotazione laica potranno ambire ad essere membri di quell’europa  che tanto desiderano.

Il problema curdo

Prima o poi il problema Kurdo riprenderà l’importanza che gli compete sulla scena internazionale, lo stato Curdo per ora non esiste anche se è rivendicato da tempo da una popolazione, che è a tutti gli effetti una nazione senza stato, che lotta anche con metodi non pacifici. Turchia, Siria, Iran ed Iraq, le nazioni che si dividono il territorio che potrebbe diventare il Kurdistan e sul quale vivono almeno 25 milioni di curdi difficilmente cederanno ai tentativi di vedere nascere un nuovo stato alle loro frontiere cedendo parte delle loro sovranità. Tuttavia con la fine del regime di Saddam, la regione curda iraqena ha guadagnato sempre più autonomia forte di una ricchezza derivante dal petrolio, la visione di questi curdi non è massimalista, sono consci delle difficoltà di creare uno stato totalmente indipendente e quindi optano per un’azione a medio-lungo raggio, anche perchè le carenze interne relative alla gestione el potere sono chiaramente un’ostacolo. Si tratta di una società ancora legata ad una gestione del potere di tipo feudale, basata sui clan e sul clientelismo, inoltre praticamente non esiste un tessuto industriale ed anche le infrastrutture sono carenti. Dati questi punti di partenza quello che si cerca è di aumentare il benessere della popolazione provata da anni di persecuzioni e di eleborare un nuovo proccio al potere cercando di scalfire l’arretrato sistema vigente. Per fare ciò l’intendimento è di organizzare una conferenza internazionale ad Erbil, capitale della zona iraqena, dove con i rappresentanti dei curdi degli altri stati venga presentata un’istanza alla comunità internazionale per la crezione pacifica di uno stato curdo. Quello che potenzialmente potrebbe nascere sarebe uno stato crocevia di importanza mondiale sopratutto per lo snodo energetico, sia produttivo che per il trasporto del greggio, ed in ottica di stabilizzazione politica della regione uno stato su cui puntare da parte delle Nazioni Unite che con proprie basi avrebbero accesso a veloce a potenziali focolai pericolosi per la pace. Questo a parte le legittime aspirazioni del popolo curdo, che dopo deceni di sofferenza, ambiscono legittimamente all’indipendenza sopratutto nella visione dell’autodeterminazione dei popoli. Sarebbe opportuno un’impegno immediato della diplomazia mondiale e delle organizzazioni internazionali per una preventiva soluzione del problema per evitare innanzitutto un nuovo scenario difficile che senza una soluzione perlomeno intravista potrebbe generare un problema in più alla già difficile situazione della regione.

Il problema interno degli USA

Gli Stati Uniti, che da sempre ambiscono ad essere il gendarme del mondo, sono la più grande superpotenza ad esporsi nello scenario mondiale, con quali risultati è sotto gli ochi di tutti, ma quello che ora preme rilevare  è la loro situazione interna ed ancora di più il proprio background democratico. Il caso del pastore di una chiesa praticamente inesistente che mette sotto scacco oltre che l’intera nazione, ma anche i suoi concittadini impegnati in missioni pericolose nel mondo è emblematico ma anche la punta di un iceberg che non deve fare restare tranquilli. E’ vero che ci sono strumenti all’interno dell’ordinamento USA che possono fare da anticorpi, ma talvolta ciò non basta. Negli USA è sancito il diritto a manifestare qualunque opinione e di fatti esiste un partito nazista regolarmente registrato ed accettato; la domanda quindi è può un paese di tale potenza ma che al suo interno contiene pulsioni di ogni genere essere affidabile per essere il poliziotto del pianeta? L’America profonda che non ha la sensibilità delle sue metropoli ma costituisce sacche molto grandi di arretratezza non rischia per troppa ed incompresa libertà di mettere a repentaglio tutto il lavorio diplomatico e militare che parte da Washington? Come si può volere esportare democrazia senza quella autoanalisi che apparentemente manca agli USA, senza cioè un lavoro di introspezione politica che analizzi e curi le cause dei pochi o tanti che ora vogliono bruciare il corano e domani inventeranno qualcosa d’altro che con pochi mezzi riesca a danneggiare un lavoro enorme e complesso? Obama pare bravo sul piano internazionale, le sue dichiarazioni sono sempre precise ed appropriate, ma sul piano interno trova difficoltà a rinnovare la sua supremazia politica e le elezioni di medio termine paiono non volgere a suo vantaggio.  Ma Obama pur importante è pur sempre un attore passeggero, quello che resta ma non sempre appare, è la vera condizione Statunitense: una superpotenza che mantiene al suo interno tanta parte di popolazione arretrata, di un arretratezza non lontana dall’arretratezza dei popoli dove gli USA vogliono esportare democrazia.

L'Africa alla ricerca dell'indipendenza alimentare

Il recente vertice presieduto da Kofi Annan nella sua nuova veste di presidente del consiglio dell’Alleanza per la rivoluzione verde in Africa svoltosi ad Accra in Ghana lo scorso 4 settembre ha delineato il progetto, nelle sue linee guida, che ambisce a garantire l’autosufficienza alimentare del continente nero. Il problema è annoso e quello che è mancato fino ad ora, oltre sostanziosi investimenti  stata una linea guida comune che gestisca questo sforzo immane; immane perchè coinvolge secolari divisioni da superare, implica affrancarsi da presenze non africane con interessi diversi dal progetto o convertire posizione di leader continentali spesso asserviti alle posizioni di cui sopra; e questi sono solo gli ostacoli politici poi ci sono gli ostacoli tecnici: la mancanza di infrastrutture per attuare i piani, uno dei quali prevede anche il cosidetto consumo a chilometri zero, la maualità degli operatori e la progettazione di più reti idriche che consentano di guadagnare territorio alla desertificazione per incrementare le aree coltivabili. Poi c’è la questione non secondaria in un’ottica di economia mondiale sulla decisione di usare o meno gli OGM, sulla quale si prevede un dibattito combattuto.  E’ chiaro che il raggiungimento dell’obiettivo dell’autosufficienza economica passa dgli aiuti internazionali e dalla propensione o meno ad elargirli e sopratutto in cambio di cosa, il pericolo di nuove forme di colonialismo pare già dietro l’angolo: la ricchezza di materie prime del continente africano è cosa fin troppo ovvia da ricordare, ma in cosa potrebbe trasformarsi un continente così ricco senza più il flagello della fame e delle carestie? Quale investimento e  punto di partenza migliore per creare ricchezza per la popolazione africana finalmente da autogestire? Sono queste le domande che i paesi ricchi devono farsi se nel futuro intendono avere partner del continente nero al proprio livello, non più da sfruttare ma da intendere come opportunità economica perchè trasformati in consumatori, attori protagonisti di un nuovo sterminato mercato.

Da che parte pende il cammino verso la pace?

Qual’è lo scopo di bruciare corani nella ricorrenza dell’undici settembre? E’ un fatto localistico dove una piccola chiesa ultraconservatrice e di estrema destra cerca, tra l’altro, di dissuadere la costruzione della moschea a Ground Zero e continuare a gettare cattiva luce sugli islamici americani, anche quelli integrati e che contribuiscono al sogno americano, oppure fa parte di un piano più ampio volto a rendere ancora più difficile il lavoro di Obama ordito neanche troppo velatamente da quegli ambienti e gruppi di pressione antagonisti che non hanno digerito la nuova politic estera statunitense ed il ritiro dall’Iran? In ogni caso la portata provocatoria del gesto, oltre che  inutile rischia di fare degenerare le cose prima di tutto in quegli scenari di guerra dove i contingenti americani sono presenti e che combattono con maggiori difficoltà le loro battaglie. La facile previsione dei comandi americani su cosa seguirà al falò del corano prevede attentati e kamikaze verso non solo le truppe a stelle e strisce ma anche verso gli alleati presenti sui teatri di guerra, forse sarebbe opportuno un’intervento interno forte e chiaro che metta fine a questa storia, ma di questi tempi muoversi all’interno del perimetro USA sembra altrettanto difficile, seppure in maniera diversa, che sulle montagne del’Afghanistan. Da chi soffia sul fuoco a chi tenta di smorzare i toni: sono significativi gli interventi a breve distanza di Fidel Castro e Chavez verso una riconsiderazione del problema israeliano, il primo ha parlato di considerare in maniera diversa, e più benevola, la storia del popolo israelitico ammonendo l’Iran contro la celta di un’opzione nucleare, il secondo, di fronte agli attentati contro la comunità israelitica venezuelana ha condannato pubblicamente i fatti e con un discorso più ampio ha indicato la via dei negoziati per risolvere la questione palestinese, entrambi cioè hanno capito l’urgenza della risoluzione del problema ergendosi a protagonisti internazionali nell’area latino americana. Quello che appare è che si stanno creando tendenze nuove ma anche inaspettate sulla scena mondiale che risulta in completa evoluzione, sta ora alle organizzazioni internazionali il coordinamento (ma anche lavorare per stroncare le opzioni negative con una maggiore e più incisiva azione diplomatica volta anche alle questioni nazionali dei singoli paesi, siano la piccola come la grande potenza) di queste tendenze per massimizzare il risultato.

Dove va l'Unione Europea?

La recente relazione di Barroso sullo stato della UE pone diverse considerazioni sugli sviluppi del ruolo e delle potenzialità che il fututo potrà riservare all’unione nel suo complesso e quindi anche alla sorte dei paesi membri. E’ stato rilevato, sostanzialmente, che, sul piano internazionale l’Unione è di fatto incompiuta mancando una politica diplomatica comune al posto della quale ci sono 27, tante quanti sono i paesi membri, politiche internazionali diverse che nella migliore delle ipotesi trovano solo alcuni punti di contatto e nella peggiori sono ddirittura antitetiche; è chiaro che così la UE fa la figura del nano politico imbrigliato in esteuanti trattative delle trattative, ne consegue che il prestigio è solo di facciata ma non ha alcun peso effettivo sulle questioni inernazionali. Questa lacuna deriva prima di tutto da un buco normativo che non si è saputo colmare creando all’interno della UE apparati autonomi e liberi di manovra, cioè figure anche collegiali capaci di imporre una visione ed una capacità di azione comunitaria in barba alle istanze periferiche, sia pure provenienti dai paesi più importanti. Tale lacuna è stata chiaramente voluta grazie ale ragioni più disparate: la gelosia della propria libertà di azione di paesi di grande tradizione diplomatica, le tendenze elettorali provenienti a quei paesi che usciti dai blocchi sovietici vedevano o vedono l’esistenza di una struttura sovranazionale anzichè come una opportunità come un pericolo alla riacquistata autonomia e non ultime le tendenze localistiche che percepiscono come mancanza di autonomia l’azione comunitaria dotata di visione dall’alto che trascurerebbe le esigenze particolaristiche. Questa debolezza internazionale, che potrebbe avere dei benefici indotti, ha invece delle ricadute (costi per mancati benefici) negative direttamente sulle economie continentali. Occorre qui considerare che l’azione della politica internazionale non è solo un mero esercizio diplomatico fine a se stesso, che cioè non conferisce soltanto prestigio da spendere in congressi e relazioni, ma può costituire un vlano economico fin troppo rilevante, il corollario di contratti e convenzioni economiche che stanno dietro ad accordi internazionali è il motore che muove la moderna diplomazia e quindi non è ammissibile che un soggetto importante come la UE resti al palo, l’urgenza di dotarsi di una politica internazionale univoca è un’esigenza improcrastinabile sopratutto se giunta alla determinazione più volte sottolineata da Barroso della necessità di passare dalla fase di unione monetaria, ormai metabolizzata, alla fase di unione economica e finanziaria per aumentare in modo sostanziale il benessere sociale ed economico dei cittadini del’unione e pesare finalmente con il livello che gli compete sullo scenario internazionale.

Cosa farà l'Iran della bomba nucleare?

L’impennata della produzione di uranio in Iran accertata e dichiarata con dati ufficiali dall’agenzia internazionale per lo sviluppo atomico, organizzazione ONU, evidenzia la preoccupazione del mondo internazi0nale di fronte all’unica strada che pare possibile: la creazione di ordigno nucleare nella mani della teocrazia di Teheran. Se ciò è vero e se si arrivasse alla costruzione materiale della bomba atomica islamica, quali saranno gli scenari che si presenteranno una volta che Ahmadinejad avrà materialmente in mano la valigetta con i codici di lancio? Intenderà usare veramente il missile nuclare contro Israele trascinando il pianeta in una catastrofe? Oppure userà la minaccia pe rintraprendere un gioco di ricatti ugualmente pericoloso? Per prima cosa occorre chiedersi quale è il bisogno e la convenienza di diventare una potenza nucleare in questa fase storica. Quello che pare evidente è che l’Iran così come è messo in questo momento debba in qualche modo uscire dall’isolamento in cui si è gettato, non potendo cercare modi convenzionali per i paletti che la teocrazia si è autoimposta prova, mostrando i muscoli, a catalizzare tutti quei paesi, sopratutto arabi, ma non solo, che non rientrano, per i più svariati motivi sotto alcuna zona di aggregazione internazionale. E’ la risposta contro quello che una volta si chiamava imperialismo americano che con Israele resta il primo nemico, ma non unico, infatti anche l’Europa è sovente presa di mira. Quello che si prova a catalizzare è un blocco di paesi, tra l’altro produttore e fornitore di materie prime che possa fare pesare sulla bilancia oltre il potere economico anche quello militare, ma sono alleanze pericolose perchè eterogenee ed proprio su questo punto che la diplomazia internazionle deve dispiegare il proprio lavoro per isolare il regime iraniano affinchè resti sempre più nel proprio isolamento, ma la cosa più ardua sarà  sconfiggere il regime dal’interno dato che, nonostante le sommosse di piazza dovute solo ad elites più istruite, il grosso del popolo iraniano o almeno una parte considerevole sta con il dittatore.