Aldilà degli inqualificabili comportamenti del nuovo Presidente degli USA e del suo vice, la sorpresa dell’Europa, per la nuova situazione, non può essere affatto giustificata. La sensazione si spaesamento e di urgenza, per essere esclusa dalle trattative tra Casa Bianca e Cremlino, proprio per il volere di Trump, per la questione ucraina è un colpo notevole all’autorevolezza di Bruxelles ed a poco sembrano valere le ragioni e le richieste di sedere al tavolo delle trattative, nonostante possa esistere la possibilità di alzare le spese per la difesa ed in misura minore l’invio di un contingente di pace formato da militari europei. L’Unione Europea aveva l’esperienza della prima presidenza di Trump, dove era già stata enunciata l’inutilità dell’Alleanza Atlantica e con essa la fine del sistema occidentale, come era da sempre conosciuto, ed del periodo successivo: i quattro anni della presidenza Biden, dove si poteva arrivare ad un punto avanzato, se non definitivo, di una forza militare comune europea, in grado di garantire la difesa autonome dell’Europa; al contrario si è preferito rinviare il problema, sperando nell’elezione di un esponente democratico, che potesse portare avanti la politica occidentale, come è stata fin dopo la seconda guerra mondiale. Una difesa dell’Europa fondamentalmente delegata alla presenza statunitense, capace di supplire alle mancanze europee. Ora non è più così e la politica di difesa militare è soltanto il problema più immediato, che è legato intimamente alla mancanza di una politica estera comune ed a intenti unitari anche in tema di economia, che rende l’Unione debole di fronte alle minacce dei dazi americani. Una serie di problemi capaci di accomunare l’intera Unione Europea alla Gran Bretagna, che si è risvegliata più lontana della tradizionale alleanza con Washington e ben più vicina ai timori di Bruxelles. L’Europa tenta di ripartire con la proposta della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di non conteggiare nelle restrizioni di bilancio la quota di denaro destinata alle spese militari. Pur trattandosi di materia molto delicata, per le varie sensibilità delle nazioni componenti l’Unione, questa soluzione appare un punto di partenza, ancorché tardiva, per una politica di difesa potenziata, alla quale dovranno seguire politiche di integrazione efficaci delle singole forze armate verso un esercito comune, capace di difendere il territorio dell’Unione anche senza l’appoggio degli USA. Si tratta di un obiettivo ambizioso ma quanto mai necessario: Washington, fin dai tempi di Obama, ha diretto il proprio sguardo verso le sue esigenze di presidio dell’Oceano Pacifico, nell’ottica della competizione con la Cina ed ora Trump ha deciso di accelerare in questa direzione e ciò spiega il suo impegno nell’immediato coinvolgimento della Russia per la definizione della questione ucraina; tuttavia una trattativa dove una parte in guerra è esclusa è una trattativa che parte male e bene ha fatto l’Europa a rivendicare la presenza di Kiev al tavolo di qualunque negoziato ed anche della propria presenza, proprio come garanzia dell’Ucraina e di se stessa. Una Ucraina sconfitta precederebbe soltanto una possibile avanzata russa sicuramente verso i paesi baltici, la Polonia e la Romania, che è poi il vero progetto di Putin per ridare lo status di grande potenza alla Russia. Trump ha una visione contraria alle democrazie occidentali, ritenendo i loro valori superati, ma si tratta di una visione di brevissimo periodo nei confronti di quello che è ancora il mercato più ricco. Bruxelles deve sapersi muovere con questa consapevolezza, arrivando anche a ristabilire legami, che potrebbero andare oltre quelli commerciali, con altri soggetti molto importanti sullo scenario internazionale, certo la Cina, ma anche l’India ed il Brasile fino alle repubbliche centro asiatiche, spesso desiderose di allontanarsi proprio dalla Russia. Il primo passo, però, deve essere un coinvolgimento totale dei membri dell’Unione, senza effettuare riunioni ristrette che lascino fuori paesi direttamente coinvolti nelle situazioni contingenti, come i paesi baltici nella riunione convocata da Macron. Per fare ciò, oltre a quello già detto in precedenza, l’Unione si deve dotare di regolamenti più veloci capaci di superare l’assurdo criterio della totalità dei voti per l’approvazione di leggi e decisioni comunitarie e della capacità di espulsione dei paesi contrari alla direzione unitaria della politica europea, come l’Ungheria. L’adesione dell’Ucraina all’Unione è un fatto dovuto ed una assicurazione contro le politiche di Putin, ma deve essere sostenuta da una forza armata capace di sganciarsi dagli USA, una Alleanza Atlantica meno dipendente da Washington, anche nella capacità di produrre gli armamenti che potrebbe usare.
Categoria: USA e Nord America
I dazi di Trump come minaccia politica ed economica
La politica protezionista di Trump, cardine del suo programma elettorale, sta prendendo forma, per ora soltanto con annunci e proclami. Dopo i dazi contro la Cina della scorsa settimana, la nuova minaccia, peraltro annunciata, è quella di imporre tariffe di 25% alle merci in entrata costituite da acciaio ed alluminio, senza alcuna eccezione o esenzione. Per l’Europa si tratta di vedere se i dazi già presenti, proprio del 25%, saranno soltanto confermati o arriveranno, addirittura, al 50%. Lo scopo dichiarato è quello di aumentare la ricchezza americana. Oltre all’Europa, gli obiettivi principali sono Canada e Messico: i dazi verso questi due paesi sono in palese violazione dell’accordo di libero scambio tra i tre stati. Questa violazione rappresenta un pessimo segnale della direzione della politica della nuova amministrazione statunitense, in relazione all’approccio con i trattati internazionali esistenti. Per il Canada i dazi peseranno molto su di un comparto che ricava dalla fornitura dell’acciaio verso gli USA ben 11,2 miliardi di dollari; tuttavia la previsione è che questa misura si ritorcerà contro i produttori USA, dall’industria automobilistica fino ai produttori di contenitori per bevande gassate. Al contrario la Casa Bianca, prevede un saldo favorevole alla bilancia commerciale, grazie ai maggiori benefici che i dazi porteranno alle industrie locali di acciaio ed alluminio, rispetto alle perdite di altri settori industriali. Nella visione di Washington l’industria pesante è ritenuta strategica per stimolare anche altri settori, fungendo da volano per l’economia statunitense. Trump ha dichiarato che i dazi riguarderanno una gamma piuttosto vasta di prodotti, un fattore tale da scatenare una guerra commerciale, con conseguenza imprevedibili a livello planetario. Nei confronti del Messico, però la misura tariffaria è stata sospesa di un mese, in cambio di maggiori controlli alla frontiera per impedire l’accesso ai migranti verso gli USA. Questa sospensione potrebbe significare che le misure dei dazi, potrebbero essere una minaccia per ottenere altro, per esempio per l’Europa una maggiore spesa militare ed un maggiore impegno e coinvolgimento in operazioni, tale da permettere una diversa dislocazione delle truppe USA sullo scacchiere mondiale. Anche per il Canada la minaccia è stata sospesa con l’impegno di trattenere il traffico dei migranti e l’esportazione della droga a base di fentanyl verso gli USA. L’impegno richiesta al Canada appare blando, forse perché Ottawa aveva elaborato una lista di prodotti da colpire con dazi doganali, provenienti soprattutto dagli stati repubblicani, che più hanno sostenuto Trump. In ogni caso colpire in maniera pesante il Messico, che ha sostituito la Cina, come principale fornite degli USA, con merci per 505,851 miliardi di dollari e con uno squilibrio commerciale, in favore di Città del Messico, di 171,189 miliardi di dollari, rappresenterà un problema intrinseco per l’industria manifatturiera americana, verosimilmente alle prese con gli aumenti dei costi delle forniture. Con Pechino la guerra commerciale è già partita ed entrambi i paesi si sono già applicati dazi rispettivamente. Ancora più interessante sarà l’evoluzione dei rapporti con l’Europa, pubblicamente richiamata del vicepresidente per i troppi vincoli commerciali presenti sul suo territorio, che non facilitano rapporti reciproci facili. Effettuare una politica commerciale troppo rigida sull’area più ricca del mondo può avere effetti pesantemente deleteri per l’industria statunitense, tanto più che a Bruxelles si stanno cercando concreti sbocchi alternativi per i propri prodotti, pensando a nuovi accordi commerciali con la Cina; se si andasse in questa direzione, dopo che la politica di Biden era riuscita ad invertire la tendenza, gli effetti dei dazi avrebbero la doppia conseguenza negativa di perdere quote di mercato dei prodotti americani in Europa e che queste quote potrebbero essere rimpiazzate da prodotti cinesi; e le dichiarazioni estemporanee del nuovo presidente americano, circa la creazione di una riviera a Gaza, ma senza palestinesi, ed di una Ucraina in futuro di nuovo russa, non aiutano il dialogo con gli europei, allergici a certi atteggiamenti, nonostante la crescente presenza di fiancheggiatori di Trump, anche al governo di alcuni paesi. Se la questione militare può essere una leva che Trump non esiterà ad usare, la Casa Bianca deve tenere conto che queste provocazioni potrebbero spingere Bruxelles a staccarsi in maniera lenta ma progressiva dall’alleato americano.
Il Partito Democratico USA blinda la candidatura della Harris
La necessità di recuperare il tempo, già irrimediabilmente, perduto durante la campagna elettorale, impone al Partito Democratico di accelerare i tempi per la candidatura di Kamala Harris e, nello stesso tempo, di rendere inefficace qualsiasi tentativo interno, che possa scalzarla dal ruolo di candidato alla presidenza degli Stati Uniti. In pratica, si tratta di elaborare e stabilire procedure che possano garantire il ruolo della Harris come candidata alla Casa Bianca, in maniera di garantirne l’efficacia in modo sicuro e, soprattutto il prima possibile; questo perché il fattore tempo è ormai diventato determinante. Il comitato che sovrintende alle regole all’interno del Partito Democratico ha stabilito una tempistica per arrivare alla nomina della Harris a candidato alle presidenziali. Insieme alla calendarizzazione sono state stabilite tre regole, che dovranno favorire il processo della candidatura ufficiale. La prima regola rende praticamente impossibile contestare la posizione della Harris, la seconda determina l’anticipazione della nomina, in modo che la Convention diventi una investitura ufficiale, celebrata insieme ad una cerimonia in cui Biden sarà omaggiato da tutto il partito per il lavoro fatto, la terza dovrà consegnare libertà assoluta alla Harris circa la nomina del proprio candidato alla vicepresidenza. Per blindare la candidatura della Harris, sono stati anticipati i tempi per presentare la candidatura alla presidenza di tre giorni, cioè dal 30 al 27 luglio, in modo che alle 18, orario della capitale statunitense, ogni sfidante dovrà avere la propria candidatura formalizzata, a questo deve aggiungersi l’anticipo al 30 luglio per avere la firma di 300 delegati, con adesioni massime per ogni singolo stato di 50 delegati, necessari per la ratifica per proporre la propria candidatura. Dopo queste fasi sarà necessario il voto dei delegati sulla candidatura, che con la sola Harris come candidata sarà previsto per il primo agosto, viceversa in presenza di più candidati, il voto avverrà il 7 Agosto. Un tempo veramente ristretto che rende praticamente impossibile effettuare una campagna elettorale a qualsiasi candidato alternativo alla Harris. Queste modalità di candidatura dimostrano come il Partito Democratico intenda mostrarsi al corpo elettorale come unito e determinato a sostenere la Vicepresidente, ormai individuata come simbolo concreto della forza politica democratica ed alternativa a Trump. Anche la famiglia Obama, che non sembrava convinta di questa ipotesi, ha dimostrato il proprio sostegno alla Harris, arrivando così a suggellare la nomination per la candidatura. Questo risultato sembra più una necessità di cui fare virtù, dettata dai tempi stringenti, che una scelta ponderata e maturata in maniera consapevole dentro tempi giusti ed adeguati. Una impressione è che la Harris, nel caso di vittoria, potrebbe diventare presidente in maniera casuale, grazie ad una serie di circostanze particolarmente favorevoli e fortunate. Esistono dubbi consistenti, che un processo della candidatura fatto nei tempi adeguati e, soprattutto, con un dibattito interno al partito capace di rappresentare i diversi punti di vista, potesse determinare la candidatura della Harris, che non godeva di una popolarità adeguata a questo compito, anche per la scarsa rilevanza di come ha interpretato il ruolo di vicepresidente. In ogni caso per il Partito Democratico, proprio la posizione di vicepresidente in carica ha determinato la successione a Biden, almeno come candidata alla presidenza; questa scelta, che appare forzata, ora deve essere sostenuta in ogni caso, soprattutto come valore simbolico di alternativa alla minacciata autocrazia di Trump. Anche la Harris è meglio del candidato repubblicano, speriamo se ne convincano anche gli elettori.
Biden si dimette ma ne esce come un gigante politico
Il discorso di Biden, circa la decisione di non candidarsi è stato contrassegnato dalla rinuncia come atto di generosità e di salvaguardia della democrazia statunitense, in sostanza un sacrificio personale per non lasciare il paese nelle mani di Trump. Biden ha rivendicato, giustamente, i risultati, soprattutto economici della sua presidenza, promettendo di non lasciare anticipatamente la carica più importante degli USA, come più volte hanno richiesto i suoi rivali politici. In realtà le giustificazioni per il suo ritiro, pur comprendendo la giusta difesa della democrazia americana, devono, per forza di cose, vertere sullo scarso apprezzamento da parte della dirigenza dei democratici, sul basso valore dei sondaggi, su di uno stato di salute, che non sembra permettere l’adeguata conduzione di un eventuale nuovo mandato e sulla fuga degli investitori. La verità è che Biden, senza impedimenti fisici, è che avrebbe meritato una ricandidatura proprio per i risultati del suo mandato, soprattutto ottenuti nel campo interno, sempre più difficile da gestire rispetto alla politica estera; il presidente uscente, invece, è apparso più debole in politica estera, con la contestata decisione di abbandonare l’Afghanistan, non avere ottenuto sostanziali progressi sul fianco del Pacifico, non avere contrastato in maniera sufficiente la Cina dal punto di vista commerciale e non avere ottenuto una soluzione della questione ucraina ed avere mantenuto un atteggiamento insicuro nei confronti di Israele. Questi temi, sfavorevoli a Biden, hanno ottenuto per Trump, ragioni per colpire il suo ex avversario, oscurandone i meriti dei risultati ottenuti con la crescita economica e la riduzione della disoccupazione. I repubblicani si sono concentrati contro l’età anagrafica di Biden a cui si sono aggiunte le evidenti difficoltà dopo il confronto elettorale, ma occorre specificare, che, se umanamente era legittimo per Biden avere la ricandidatura, nel partito è mancato un serio esame della situazione del candidato e sulla reale capacità di sostenere lo sforzo della campagna elettorale. I segnali, abbastanza evidenti, erano presenti già da tempo ed è mancata una azione, anche coraggiosa, di mettere in discussione l’opportunità di ripresentare agli elettori il presidente uscente. Ciò anche considerando il fatto di come Trump avrebbe condotto la campagna elettorale, con toni particolarmente violenti e mistificatori. Certo non è facile non rinnovare la candidatura ad un presidente uscente, tuttavia, la pessima gestione della situazione del partito ha generato profonda incertezza in un elettorato comunque incalzato da una azione repubblicana che è stata un crescendo di consensi. Il partito democratico è risultato diviso in clan ed è stato caratterizzato da una immobilità, che se protratta, avrebbe garantito a Trump un vero e proprio plebiscito. Soltanto il timore di una deriva autoritaria, causata dallo strapotere del candidato repubblicano ha smosso i dirigenti del partito, verso una soluzione alternativa. Pur non essendo stata una decisione tempestiva e, soprattutto, irrituale, la scelta della sostituzione del candidato appare l’unica via per contrastare Trump in maniera efficace, tuttavia, non si doveva giungere a questo punto ed agire molto prima per evitare a Biden l’umiliazione del ritiro; insomma se il partito repubblicano ha perso ogni sua caratteristica originale, diventando ostaggio di Trump, anche il partito democratico non sta tanto meglio. Si comprende come la situazione politica americana sia ad una sorta di punto morto, perché in ostaggio di persone incompetenti e vogliose soltanto di assicurarsi più potere possibile per se stessi, ingannando un elettorato sempre più individualista e disinteressato. In questo quadro il passo indietro di Biden deve essere molto apprezzato, il presidente uscente ne esce come una sorta di gigante politico, capace di sacrificare le proprie ambizioni per potere evitare la consegna del paese ad una nuova presidenza Trump. Ora il partito democratico deve sapere darsi una organizzazione capace di portare alla vittoria che sarà il suo candidato o candidata. L’atto di Biden deve fornire l’abbrivio per una ricostruzione della macchina elettorale capace di superare le divisioni interne per provare a vincere e ad evitare agli USA ed al mondo la ripetizione della sciagura di una nuova presidenza Trump.
I guai giudiziari di Trump durante le primarie
Il giudizio della Corte d’appello di Washington non considera valida l’immunità per Trump, per avere cercato di cambiare il risultato elettorale, dopo l’esito che ha portato Biden ad essere il nuovo presidente USA. La sentenza della corte, composta da tre giudici, è arrivata all’unanimità, confutando la difesa di Trump, che puntava alla totale immunità dalla legge, anche per gli atti compiuti nei casi il suo potere sia estinto. Questa difesa, ha confutato la corte, presuppone che la carica di presidente statunitense sia equiparato ad un sovrano assoluto, non soggetto, cioè, ad alcuna legge terrena; inoltre la tesi difensiva mette in dubbio il naturale riconoscimento del responso elettorale e della stessa separazione dei poteri, perché porrebbe la carica presidenziale al di sopra delle normative. Un aspetto da sottolineare è che uno dei tre giudici ha una provenienza conservatrice ed è stato nominato dello stesso Trump. Un aspetto fondamentale della sentenza è che il presidente USA può essere accusato per crimini commessi durante il suo periodo in carica: si tratta di una risoluzione molto rilevante al punto di vista giuridico, perché è la prima volta che viene adottata nell’ordinamento statunitense e che stabilisce che l’immunità appartiene alla carica presidenziale e non alla persona, per cui, una volta decaduti, non si gode più di immunità. Esistono due opzioni, per la difesa di Trump per ricorrere contro la sentenza della Corte di appello di Washington: la prima consisterebbe nella presentazione del ricorso presso tutti i giudici del Circuito di Washington, tecnicamente definito “appeal en banc”, tuttavia questa soluzione appare improbabile, perché secondo i giuristi sarebbe poco probabile un cambiamento della sentenza, oppure, ed è la seconda opzione, il ricorso può avvenire presso la Corte suprema, composta da sei membri repubblicani e tre democratici. Questa scelta avrebbe anche una valenza politica tattica, dato che la Corte suprema, per questa sessione, che finirà a luglio, non dovrebbe più accettare casi, lasciando in sospeso la questione, soluzione preferita proprio da Trump; tuttavia potrebbe essere anche probabile, che, data la gravità della questione, il presidente della Corte inserisca il probabile ricorso nell’attuale sessione. In ogni caso, sia la sentenza, che il ricorso, generano dubbi sul futuro legale di Trump, che resta il candidato più probabile per il Partito repubblicano alle elezioni del cinque novembre prossimo, anche perché presso la Corte suprema esistono già due ricorsi dell’ex presidente relativi alle decisioni degli stati del Maine e del Colorado, che hanno vietato la candidatura di Trump, sempre per i fatti seguiti alla sua sconfitta elettorale del 2020. Una possibilità ravvisata da alcuni giuristi è il possibile respingimento delle decisioni di Maine e Colorado, da parte della Corte suprema, ma la conferma della sentenza della Corte d’appello di Washington, che contiene argomenti giuridicamente rilevanti contro Trump e che potrebbe portarlo a giudizio, proprio perché il suo atteggiamento ha interferito nel processo di conteggio e verifica dei voti, una materia completamente al di fuori delle competenza presidenziali: ciò rappresenterebbe un attacco alla struttura dello stato; un capo di imputazione difficilmente confutabile. Nel mentre, però, la campagna presidenziale di Trump procede in maniera trionfale e l’unica candidata ancora presente, Nikky Halley, Ha pochissime possibilità di riportare il partito repubblicano nel suo tradizionale percorso politico e quindi di contendere in maniera seria la candidatura presidenziale a Trump. La questione giuridica si pone in un contesto di profonda divisione e radicalizzazione tra i due elettorati, dove i partiti contendenti si sono ulteriormente distanziati su tutte le materie, sia di politica interna, che economica, che internazionale. In più il precedente dell’insurrezione del Campidoglio identifica i sostenitori di Trump, certo non tutti, come capaci di gesti violenti in aperto contrasto con le leggi federali. D’altro canto rinviare la decisione sulle decisioni degli stati del Maine e del Colorado e sulla sentenza della Corte d’appello di Washington, potrebbe porre seri dubbi sulla reale imparzialità della Corte suprema, generando un corto circuito istituzionale capace di paralizzare il paese, in un momento dove la situazione internazionale impone decisioni veloci. Se il risultato con Trump come candidato è in bilico, forse con un altro candidato repubblicano potrebbe nascere una situazione che imporrebbe un rinnovamento anche tra i democratici, ma il tempo sta scadendo, mettendo a rischio tutto l’equilibrio occidentale.
Iraq terreno di scontro tra USA ed Iran
L’Iraq, nonostante la sottovalutazione della stampa, è destinato a diventare un fronte molto importante del conflitto mediorientale e, specificatamente, del confronto tra USA ed Iran. La situazione, che le autorità irakene hanno definito di violazione della propria sovranità, ha visto reciproci attacchi tra Washington e Teheran, condotti proprio sul suolo dell’Iraq. L’Iran non sopporta la presenza militare americana ai suoi confini, sul suolo irakeno il regime degli Ajatollah è presente con milizie filo-iraniane, finanziate da Teheran, la cui presenza è ritenuta strategicamente importante, nel quadro delle azioni contro l’occidente ed Israele. Tra i compiti di queste milizie ci sono atti di disturbo contro le forze americane e quelle della coalizione contro i jihadisti, presenti sul suolo irakeno. Recentemente queste operazioni militari, in realtà già in corso da ottobre, hanno colpito basi americane con droni e razzi, provocando feriti nel personale statunitense e danneggiamenti delle infrastrutture delle basi. Pur senza la firma iraniana gli attacchi sono stati facilmente ricondotti a Teheran e ciò ha aggravato una situazione di contrasto capace di degenerare in maniera pericolosa. Gli USA hanno risposto, colpendo le Brigate Hezbollah, presenti sul territorio irakeno in una regione al confine con la Siria, provocando due vittime tra i miliziani; tuttavia altre vittime si sarebbero registrate in milizie scite, che sono entrate a fare parte dell’esercito regolare irakeno. Queste ritorsioni americane hanno suscitato le proteste del governo di Bagdad, che è stato eletto grazie ai voti degli sciiti irakeni e che teme la reazione dei propri sostenitori. L’accusa di violazione della sovranità nazionale, se appare giustificata contro le azioni di Washington, dovrebbe valere anche contro Teheran, in quanto mandante degli attentati contro le installazioni americane e, allargando il discorso, anche contro i turchi, che hanno condotto più volte azioni contro i curdi, cosa, peraltro imitata dagli iraniani. La realtà è che la situazione attuale in Iraq, ma anche in Siria ed in Libano, da parte degli israeliani, vede una continua violazione delle norme del diritto internazionale in una di serie di guerre non dichiarate ufficialmente, che sfuggono alla prassi prevista dalla legislazione internazionale. Questa situazione presente il rischio maggiore di una estensione del conflitto mediorientale, capace di provocare la deflagrazione di una guerra dichiarata, come fattore successivo a questi episodi, purtroppo sempre più frequenti, di conflitti a bassa intensità. Lasciare l’Iraq fuori da un conflitto appare determinante per evitare un conflitto mondiale, la posizione geografica del paese, tra le due maggiorie contrapposte potenze islamiche, porterebbe ad un confronto diretto, che avrebbe come prima conseguenza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la possibilità, per Teheran, di avvicinare le sue basi missilistiche ad Israele. Uno dei maggiori protagonisti, per evitare questa pericolosa deriva è il primo ministro iracheno Mohamed Chia al-Soudani, che pur godendo dell’appoggio dell’elettorato sciita, ha bisogno di preservare i legami tra Bagdad e Washington. In realtà questi legami, nelle intenzioni del premier irakeno dovrebbero essere soltanto di natura diplomatica, giacché circa la presenza della coalizione militare internazionale, il capo dell’esecutivo ne ha più volte sottolineato il ritiro per favorire le condizioni di stabilità e sicurezza dell’Iraq. La questione è però di difficile soluzione: con la presenza di milizie finanziate ed addestrate nel paese, l’Iraq rischia di perdere la propria indipendenza, garantita proprio dalla presenza delle forze occidentali; se il paese irakeno cadesse nelle mani di Teheran sarebbe un grosso problema di natura geopolitica per Washington, che deve per forza mantenere il proprio presidio sul suolo irakeno, fatto rafforzato dalla questione di Gaza, che ha provocato le azioni degli Houti e l’autoproclamazione da parte di Teheran di difensore dei palestinesi, nonostante la differenza religiosa. Bagdad è diventata così una vittima indiretta della situazione che si è creata a Gaza, dopo avere attraversato tutta la fase della presenza dello Stato islamico, peraltro ancora presente in determinate zone. Per disinnescare questo rischio occorrerebbe uno sforzo diplomatico della parte più responsabile di quelle in causa: gli USA; tale sforzo diplomatico dovrebbe essere diretto, non tanto verso l’Iran, ma verso Israele per fermare la carneficina di Gaza, favorire gli aiuti alla popolazione, anche con l’utilizzo di caschi blu dell’ONU ed accelerare, anche in maniera unilaterale la soluzione dei due stati, l’unica capace di fermare l’escalation internazionale ed eliminare ogni scusa per creare i presupposti dell’instabilità regionale.
Trump sempre più favorito, anche senza il consenso dei repubblicani moderati
Quello, che era l’antagonista più accreditato di Trump, il repubblicano Ron DeSantis, governatore dello stato della Florida, si è ufficialmente ritirato dalla corsa alla nomination per partecipare all’elezione presidenziale USA. Dopo la consultazione repubblicana nello Iowa, dove ha riscosso scarsi consensi, i sondaggi per il voto in New Hampshire gli accreditavano soltanto una percentuale del 5,2 e ciò ha determinato il suo ritiro; DeSantis ha comunicato che il suo sostegno andrà, quindi, a Trump. DeSantis, che alcuni vedevano in grado di contrastare Trump nella corsa alla nomina a sfidante di Biden, proviene da posizioni politiche simili a Trump e si identifica con il nuovo corso che sta dominando nel Partito Repubblicano, influenzato dalle idee del Tea party e, per questo, assicura il suo appoggio all’ex presidente, in aperto contrasto con la candidatura di Nikky Halley, da lui ritenuta troppo moderata e rappresentante della vecchia impostazione dei Repubblicani. DeSantis si era guadagnato un certo credito, grazie alla sua elezione come governatore della Florida, proprio contro i candidati indicati da Trump, tuttavia la sconfitta, distanziato di circa 30 punti percentuali nello Iowa, ha dimostrato che gli elettori repubblicani lo hanno percepito come una copia di Trump, proprio per posizioni molto simili su temi come immigrazione ed aborto. La perdita di consensi, dopo che i sondaggi lo distanziavano di soli 10 punti da Trump, è iniziata proprio con la difesa dell’ex presidente dalle accuse penali, facendo, quindi, perdere i consensi degli elettori più moderati. Sebbene formalmente DeSantis avesse già rinunciato alle primarie del New Hampshire, per concentrarsi su quelle della Carolina del Sud, la distanza di circa 55 punti percentuali registrata nei sondaggi ha provocato la decisione del ritiro, anche per occuparsi a tempo pieno della sua carica di governatore della Florida. DeSantis è il terzo candidato a ritirarsi dalla contesa repubblicana, determinando così un confronto a due tra Trump, sempre più favorito e Nikky Halley, già governatrice della Carolina del Sud ed ambasciatrice USA alle Nazioni Unite. La strategia elettorale di Nikky Halley è quella di riscuotere i voti dei repubblicani più moderati, che non si riconoscono nella maniera istrionica di governare di Trump e sono contrari alle sue posizioni oltranziste contrassegnate dallo scarso rispetto per le leggi federali. Il caos creato dalle vicende giudiziarie di Trump non incontra il favore degli elettori repubblicani più tradizionalisti, che preferirebbero un personaggio più misurato e più affidabile, tuttavia la platea conquistata da Trump appare più ampia perché trasversale all’elettorato repubblicano classico, capace di riscuotere consensi nei ceti più diversi ed anche dagli elettori più poveri. Nonostante queste analisi Nikky Halley prova a presentarsi come una sorta di cambio generazionale, forte della sua età, 51 anni e di una sostanziosa esperienza politica. Una affermazione netta di Trump nel New Hampshire potrebbe togliere, però, ogni velleità alla sfidante, riducendone notevolmente le possibilità di raggiungere la nomination. Questa vicenda dimostra come quello che era, una volta, il ceto politico dominante del partito repubblicano non abbia ancora recuperato le proprie posizioni ed, anzi, assista quasi in maniera passiva alla trasformazione del partito, iniziata con il Tea party, fino ad arrivare ad una formazione politica personalistica dello stesso Trump e, sostanzialmente, in suo ostaggio. Se questa analisi sociopolitica è valida Nikky Halley ha poche possibilità di vincere, proprio perché troppo vicino alle istanze di una parte del partito che appare come minoritaria. Per gli USA e per il mondo, questa non è una buona notizia perché rileva il proseguimento della tendenza di radicalizzazione del partito repubblicano, nonostante la sconfitta di Trump alle ultime elezioni ed i suoi guai giudiziari. Dopo quattro anni, la mancanza di un ricambio politico e generazionale, esclusa la figura della Halley, dimostra come il partito sia in ostaggio di Trump e ciò provochi preoccupazione a livello internazionale. Dal punto di vista del Partito Democratico, forse una candidatura di Trump può convenire, perché porterà alla mobilitazione l’elettorato non abituato ad andare alle urne, che voterebbe qualsiasi candidato per evitare il bis di Trump alla Casa Bianca; in questa ottica un successo, anche se difficile, della Halley potrebbe favorirla alla corsa per la carica di presidente, proprio perché elemento più moderato. Entrambi soluzioni, Biden o Halley, sarebbero certamente gradite alla maggior parte del panorama internazionale, che teme con Trump, un sovvertimento degli equilibri occidentali.
Putin minaccia la Polonia
Il dispiegamento militare della Polonia al confine della Bielorussia, ha innervosito Putin, che ha minacciato Varsavia ricorrendo anche a citare Stalin; per il capo del Cremlino la minaccia alla Polonia è dovuta in quanto il paese bielorusso compone con Mosca l’alleanza sovranazionale tra Russia e Bielorussia. Lo schieramento militare polacco è visto come una minaccia tangibile alla esistenza stessa della Bielorussia, perché operato da un paese dell’Alleanza Atlantica. La ragione del timore di Varsavia, risiede nella presenza del territorio di Minsk dei militari della milizia privata Wagner, che dopo il fallito colpo di stato, si sono rifugiati nel paese di Lukashenko con la sua autorizzazione. Una infelice battuta del dittatore bielorusso, sulla possibilità di attraversare il confine con la Polonia, ha innescato uno stato di tensione molto elevato, che avvicina sempre di più la possibilità di uno scontro tra l’Alleanza Atlantica, di cui la Polonia fa parte, e la Russia, di cui, di fatto, la Bielorussia, più che un alleato è uno stato vassallo. Naturalmente Putin ha specificato che un attacco contro Minsk equivarrebbe ad un attacco a Mosca. Il presidente russo ipotizza anche un invio congiunto di militari polacchi e lituani all’interno del territorio ucraino, nella zona di Leopoli, per Putin l’intenzione dei due paesi ex sovietici e divenuti avversari, non sarebbe quella di prestare aiuto agli ucraini, ma di sottrargli del territorio: si tratta, evidentemente, di un tentativo di portare disordine nella coalizione che sostiene Kiev con informazioni atte a destabilizzare i rapporti tra i tre governi. In realtà queste affermazioni non hanno alcun credito internazionale e sono rivolte, piuttosto, all’opinione pubblica russa, nell’estremo tentativo di rivitalizzare il gradimento della popolazione verso l’operazione militare speciale, che sembra riscuotere sempre meno consenso. Individuare sempre nuovi nemici e darne particolare risalto, anche distorcendo la storia, con narrazioni costruite a proprio uso e consumo, rivela che l’isolamento di Mosca è sempre più tangibile anche dentro le mura del Cremlino. L’enfasi che viene data alla prossima visita di Lukashenko, non certo un primo attore internazionale, ma un personaggio succube di Putin, costituisce una informazione in più di come la Russia accusi la propria solitudine internazionale e cerchi di aggirarla, sfruttando ogni minima occasione. Dal punto di vista militare, però, è un fatto che la decisione di Varsavia, peraltro legittima, perché operata entro i propri confini, costituisca un aggravamento della situazione, per la possibilità concreta di un allargamento del conflitto, sia come quantità ed entità degli attori coinvolti, che, anche per l’allargamento del territorio coinvolto. Uno sviluppo della guerra nella parte settentrionale del paese ucraino, quello al confine con la Bielorussia, potrebbe alleggerire la pressione di Kiev sull’esercito russo, che sta faticando a contenere lo sfondamento dell’esercito di Zelensky nelle zone occupate dall’Armata rossa. Ora un allargamento del conflitto in quelle zone potrebbe coinvolgere anche la frontiera con la Polonia, mentre più remote sono le possibilità di un allargamento verso le frontiere di Lituania ed Estonia. Il timore occidentale è che questa sia una strategia che Putin intenda adottare, usando l’alleato bielorusso e la milizia Wagner, per ora impegnata soltanto nell’addestramento dei soldati di Minsk, ma che potrebbe riabilitarsi agli occhi del Cremlino, rendendosi protagonista di azioni contro l’Ucraina condotte dalla Bielorussia. Uno scenario possibile, dal quale difficilmente l’Ucraina potrebbe uscire vincente; tuttavia in questo possibile schema il punto debole è proprio la vicinanza della Polonia, che non potrebbe tollerare nei pressi dei suoi confini la presenza di invasori all’interno delle regione dell’Ucraina vicine ai territori polacchi. Qui sta il dilemma, quale sarà la volontà di Putin di portare avanti un piano così rischioso da obbligare l’Alleanza Atlantica ad essere coinvolta direttamente nel conflitto. Si tratta di un’ipotesi che rischia di essere sempre più vicina e di portare allo scoppio della terza guerra mondiale, con tutte le conseguenze ben immaginabili. Per ora gli USA tacciono, ma per impedire un avanzamento verso ovest del conflitto occorrerà mantenere il maggiore equilibrio possibile in uno scenario non certo facile, dove la guida dovrà essere che una guerra mondiale non può convenire ad alcun attore in gioco.
La difficile situazione mondiale e regionale provoca il riavvicinamento tra Corea del Sud e Giappone
Storicamente i rapporti tra Giappone e Corea del Sud sono stati difficili a causa delle questioni che si sono verificate con l’occupazione nipponica della penisola coreana dal 1910 al 1945 e per avere reso in schiavitù più di ottocentomila coreani, come lavoratori forzati nelle aziende di Tokyo ed avere obbligato almeno duecentomila donne a diventare oggetto di abusi sessuali a favore dei soldati di occupazione giapponese; inoltre vi sono state dispute su alcuni isolotti, controllati da Seul dopo la sconfitta dell’impero del Sol levante. La corte suprema coreana ha riportato alla ribalta queste questioni quando nel 2018 ha sancito che le aziende giapponesi coinvolte avrebbero dovuto risarcire le persone coreane vittime della schiavitù, ciò ha provocato delle restrizioni da parte di Tokyo sulle importazioni di prodotti coreani, che hanno pregiudicato i rapporti tra i due stati fino a bloccarne il dialogo. Uno dei punti del programma di Shinzo Abe è stato quello di cambiare la costituzione pacifista, come primo passo verso un approccio che potesse permettere un contenimento della Cina, in questa ottica anche il rapporto con la Corea del Sud doveva diventare collaborativo, sia dal punto di vista diplomatico, che da quello economico, proprio per combattere Pechino anche sul piano della produzione. Quello di Abe è stato un lavoro soltanto avviato, ma che, per i rapporti tra i due paesi è stato fondamentale e che, nello scenario attuale, ha permesso l’avvio di una riconciliazione tra le due nazioni. In questo quadro si svolge la prima visita ufficiale di un capo di governo giapponese, dal 2011, in terra sudcoreana. Certo la minaccia di Pyongyang è la prima urgenza delle discussioni, perché la minaccia atomica non stata disinnescata, ma altri temi saranno sul tavolo della riunione. Per favorire ulteriormente la ripresa dei contatti il governo di Tokyo ha pianificato un progetto per risarcire i lavoratori schiavizzati, come chiesto dalla Corte suprema coreana e ciò ha determinato il nuovo giudizio di Seul, che ha definito lo stato nipponico da aggressore militarista a partner che condivide i valori universali dal paese sudcoreano. Questo clima sempre più disteso aveva già favorito la visita del presidente di Seul in Giappone, avvenuta lo scorso marzo e dopo ben dodici anni di assenza. La normalizzazione dei rapporti diplomatici ha permesso di affrontare temi di sviluppo comune quali la difesa, l’economia e la finanza. In questo momento quello che preoccupa di più i due esecutivi è la reciproca sicurezza, data la minaccia della crescente capacità balistica e nucleare della Corea del Nord, ma anche l’atteggiamento di Mosca e l’espansionismo della Cina, che ha compiuto grandi investimenti nel settore militare per rinforzare il suo apparato bellico. Dietro questo riavvicinamento, oltre che le ragioni già enunciate, vi è l’azione diplomatica di Washington, che ha da tempo messo al centro del suo interesse internazionale il contrasto alla Cina per la supremazia dei mari orientali, sia per Giappone, che per Corea del Sud, gli USA rappresentano il maggiore alleato, ma la distanza tra Seul e Tokyo non ha finora consentito una sinergia per sviluppare un rapporto trilaterale più stretto, soprattutto nei confronti della minaccia più immediata rappresentata da Pyongyang; ma anche gli sviluppi della guerra ucraina, con la Russia dichiaratamente contro il blocco occidentale costituisce un serio motivo di preoccupazione, considerando il progressivo avvicinamento di Mosca a Pechino. Se la Corea del Nord è la minaccia più prossima, il vero spauracchio sono le ambizioni cinesi, che con una potenziale azione contro Taiwan metterebbero a rischio i già fragili equilibri regionali, rischiando di trascinare in un conflitto i due paesi; aldilà di queste minacce concrete l’atteggiamento generale di Pechino, sempre più deciso a stabilire una zona di influenza sotto il proprio controllo, deve essere l’argomento decisivo per mettere da parte le distanze tra i due paesi e convincerli ad allacciare rapporti sempre più stretti per unificare gli sforzi per salvaguardare la loro sicurezza reciproca. Dal punto di vista della Cina la ripresa del dialogo tra i due paesi non sarà vista in maniera positiva, perché favoriva la sua politica nell’area, anche se in maniera indiretta, al contrario ora, Pechino dovrà affrontare anche la sinergia con gli Stati Uniti e non sarà certamente cosa gradita: ciò potrebbe provocare esibizioni di forza nei mari orientali, alzando il livello di guardia in una regione più volte in bilico a causa di possibili incidenti tra forze armate di paesi con interessi contrapposti.
Ucraina sempre più vicina all’Alleanza Atlantica
La visita del Segretario dell’Alleanza Atlantica a Kiev ha assunto subito una notevole rilevanza, sia per il fatto in sé, che per le rassicurazioni, anche se non immediate, che il posto del paese ucraino sarà di diventare membro della coalizione occidentale. Il presidente ucraino è sembrato più concentrato sui problemi del presente, chiedendo all’Alleanza Atlantica un sempre maggiore supporto militare per permettere al suo paese di contenere la Russia e di mantenere la sua unità nazionale. La visita a Kiev del Segretario generale ha provocato dure reazioni a Mosca, che ha ricordato come proprio uno dei motivi del conflitto, anzi dell’operazione militare speciale, sia proprio impedire l’integrazione tra l’Ucraina e la NATO. Lo scopo della visita di Stoltenberg è stato quello di ribadire il sostegno all’Ucraina, di fronte all’opinione pubblica mondiale, sia in passato, che nel presente ed anche nel futuro quando ci sarà da affrontare i problemi della ricostruzione, tuttavia dietro lo scopo ufficiale, vi era la necessità di concordare con l’Ucraina la completa operabilità con l’Alleanza in termini di standard militari e dottrine strategiche, per sostituire le tecnologie sovietiche, che costituivano ancora la base delle attrezzature militari di Kiev; il tutto per garantire una risposta più efficace agli attacchi russi. Per sopperire alle carenze dei propri armamenti l’Ucraina ha ricevuto materiali ex sovietici dai paesi della Cortina di ferro, che meglio si adattavano con la tecnologia degli armamenti di Kiev, ma con l’avanzare della guerra si è proceduto ad una progressiva sostituzione con armamenti NATO, per i quali è necessario un addestramento apposito. Se la contiguità tra Ucraina e NATO è sempre più intensa sul terreno militare, il presidente ucraino ha rivendicato anche un maggiore coinvolgimento politico ed ha chiesto di essere invitato al prossimo vertice di Vilnius a luglio: cosa che è stata sancita proprio nella visita di Stoltenberg. Mosca vive con apprensione questa integrazione, ma ne è stata quasi completamente responsabile; ora c’è da capire se questa adesione potrà provocare un rallentamento o un aggravamento del conflitto: perché un conto è minacciare Kiev di non entrare nell’area di influenza occidentale ed un altro conto è combattere contro un paese sempre più dentro alla sfera occidentale. Questo passo allontana un fattore possibile di interruzione delle ostilità, che era individuato proprio in una sorta di imparzialità di Kiev, configurando il paese ucraino come una sorta di nazione cuscinetto tra occidente e Russia. Con la visita di Stoltenberg questo scenario sembra essere, ormai, senza più alcuna possibilità, anche se l’ingresso a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica non potrà essere che rimandato, per scongiurare un ingresso diretto nel conflitto delle truppe occidentali sul terreno ucraino. Il dato fondamentale, però, è che il futuro non potrà che essere quello a meno che Mosca non riesca a vincere in maniera completa la guerra conquistando tutta l’Ucraina, senza alcuna parte esclusa: cosa che non pare possibile per come si è sviluppato il conflitto. Il futuro dovrebbe, quindi, vedere le truppe NATO proprio sul confine tra Ucraina e Russia e non soltanto più sui confini con Mosca ed i paesi baltici e con la Finlandia. Si comprende come Putin abbia già fallito ogni intento di allontanare l’Alleanza Atlantica e quindi gli USA e l’Europa dalla propria linea di confine e come si stia concretizzando proprio il suo incubo più grande, quello da scongiurare avviando l’operazione militare, che sta rovinando il paese economicamente e provocando un gran numero di vittime tra i soldati russi. Da questo progressivo avvicinamento tra Bruxelles e Kiev, Mosca esce indebolita sia sul piano interno, che su quello esterno, perché i progetti del suo leader stanno tutti fallendo ed anche una cristallizzazione che si fermi ai territori conquistati, implica l’Ucraina ormai entrata definitivamente e stabilmente dell’orbita occidentale, con tutto quello che ne conseguirà per il prestigio del presidente russso.