Perchè Xi Jinping non andrà al G20

Il prossimo vertice del G20, che si terrà a Nuova Delhi, in India, registra, ancora prima di cominciare, una assenza molto importante, quella del presidente cinese Xi Jinping. Si tratta della prima volta che ciò accade perché, per Pechino, le riunioni del G20 sono sempre state considerate come occasioni importanti per presentare una immagine moderna e capace di rappresentare l’unica alternativa all’egemonia statunitense e, proprio per questo, la presenza della massima autorità cinese era ritenuta imprescindibile dalla partecipazione della Repubblica Popolare. Su questa assenza si sono già fatte molte speculazioni ed ipotesi, che, tuttavia, non spiegano pienamente le ragioni di un’assenza così rilevante. Alcuni esperti hanno fornito la spiegazione che il presidente cinese, con la sua assenza, volesse svalutare l’istituzione del G20, vista come una emanazione occidentale, per avvicinarsi, anche dal punto di vista diplomatico, alle economie emergenti del meridione del mondo e per stringere ancora di più i rapporti con la Russia. Questa spiegazione, però, appare in contrasto con le esigenze cinesi di mantenere i rapporti commerciali con le zone più ricche del pianeta: Europa e Stati Uniti, malgrado notevoli differenze di vedute. Se è vero che l’espansione cinese si sta sviluppando in Africa, Pechino non può rinunciare allo sbocco delle sue merci verso i mercati più redditizi, specialmente in una fase, come quella attuale, dove la contrazione dell’economia interna genera bisogni di compensazione, che si possono trovare solo nei mercati più ricchi. Anche la questione dei rapporti con la Russia, che indubbiamente esiste, deve essere inquadrata in un contesto diplomatico, che serve a bilanciare i rapporti geopolitici a livello globale con l’Occidente, in un quadro però non simmetrico con Mosca, che appare il socio debole dell’alleanza. La risposta più corretta all’assenza di Xi Jinping deve essere invece ricercata, nei rapporti tra Cina ed India, in un momento storico dove Pechino sente avvicinare il suo storico nemico dove il sorpasso sul numero della popolazione e la spedizione sulla Luna rappresentano soltanto i casi più recenti del confronto. L’assenza della più alta carica cinese vuole sminuire la rilevanza del G20 indiano e privarlo di ogni possibile visibilità che ne possa dare risalto, come l’incontro con il presidente Biden, che doveva mettere a confronto le rispettive posizioni su relazioni commerciali e geopolitiche e che sarà, verosimilmente, rimandato novembre a San Francisco, durante il Forum di cooperazione economica Asia-Pacifico. Occorre anche ricordare che le massime cariche di Cina ed India si sono incontrate recentemente in Sudafrica al vertice dei BRICS e che allora l’incontro con Narendra Modi non era stato boicottato, proprio perché in territorio neutro.  D’altra parte proprio il presidente indiano sperava di ricavare un grande tornaconto a livello di immagine internazionale, proprio per il fatto di organizzare il G20 e l’assenza di Xi Jinping, potenzialmente, può inficiare una buona parte di questi consensi attesi. Si deve anche aggiungere, che, proprio nell’incontro sudafricano, le tensioni tra le due personalità si sono acuite a causa dell’annosa questione dei confini nella zona himalayana. Nonostante queste ragioni strategiche, la Cina non può snobbare del tutto il vertice del G20, anche per presidiare in maniera accurata alla riunione, che verterà su temi di primaria importanza: a rappresentare Pechino toccherà così a Li Qiang, numero due del regime; questa scelta vuole essere un segnale inequivocabile, sia per l’Occidente, che per la stessa India, con la quale Pechino intende dimostrare di volere essere comunque al centro delle discussioni che saranno il centro del vertice.

Orban non deve più stare nell’Unione Europea

Viktor Orban ha fatto un discorso ideologico, che lo pone più come potenziale alleato di Putin, che effettivo aderente all’Unione Europea, del resto il suo programma elettorale, che gli ha permesso la vittoria, è stato incentrato sulla contrarietà dell’Unione Europea, di cui, però, l’Ungheria gode dei robusti contributi. La mancanza di coerenza del politico magiaro, sembra coincidere con la maggioranza dei suoi concittadini, che sfruttano l’assurdo regolamento dell’Unione dell’approvazione dei provvedimenti sulla base dell’unanimità e non della maggioranza. Orban ha profetizzato prevedendo la dissoluzione dell’Unione Europea e la caduta degli USA; se il secondo sembra un augurio, per il primo la soluzione sarebbe facile: fare come la Gran Bretagna ed uscire da Bruxelles. Questa eventualità non rientra, però, nei piani di Orban, che, forse, si è dato il compito politico di facilitare la dissoluzione dall’interno, con i suoi assurdi comportamenti totalmente contrari ai valori fondativi dell’Unione Europea. Per Orban l’occidente è un insieme di stati ricchi ma deboli, che non hanno intenzione di affrontare la competizione con le potenze mondiali. Se, da un certo punto di vista, questa affermazione ha delle parti di verità, appare altrettanto vero che personaggi come il politico ungherese contribuiscono non poco ad una visione comune, che possa alzare il livello qualitativo di Bruxelles nei confronti delle maggiori potenze mondiali, infatti la visione di Orban definisce l’Europa come una sorta di ghetto economico, politico e culturale con un futuro di decadenza senza alcuna speranza, nonostante i consumi elevati, che la condurranno ad un destino di desolazione. L’accostamento con la previsione del Fondo Monetario Internazionale, che prevede l’uscita dalle prime dieci economie del mondo ed il passaggio della Germania da quarto a decimo entro il 2030, con il supposto degrado dell’Unione, riassunto nei valori: migrazione, LGBT e guerra, appare una infelice retorica, che va contro le tendenze mondiali ed una replica di basso livello di quanto viene detto nei luoghi di potere russi; anche l’atteggiamento persecutorio, messo in atto con la contrarietà all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia, portato avanti solo perché i due paesi hanno contestato la deriva populista del governo di Orban, inquadra bene il basso valore politico del personaggio. L’avversione per gli Stati Uniti, sembra replicare le ragioni di Putin, la presunta perdita della posizione di leader mondiale di Washington nei confronti della Cina, può rischiare di portare il mondo ad un conflitto, senza ricordare che il suo amico di Mosca sta mettendo ben più in pericolo la pace mondiale. La posizione ungherese è la sola in Europa ad essere corretta, perché rifiuta i valori edonistici e non intende procedere sulla sostituzione della popolazione con gli immigrati che rifiutano i valori cristiani; non solo, riserva critiche sempre più insistenti verso la Romania, perché in Transilvania risiedono oltre 600.000 persone di lingua magiara e fedeli alle tradizioni, minacciando velatamente un diritto su questo territorio di un altro paese. Ce n’è abbastanza perché i vertici dell’Unione intervengano, come avrebbero dovuto fare già da molto tempo, in maniera dura contro questo personaggio e la maggioranza del paese, che, malgrado tutto lo sostiene. Non è possibile permettere a politici che non condividono i principi sui quali si basa l’Unione, consentire un comportamento di simile arroganza, che consegue alla negazione delle regole democratiche nel proprio paese, con l’introduzione della censura e della negazione al potere giudiziario di esercitare in autonomia la propria funzione. Appare anche inutile ricordare come Budapest, peraltro insieme ad altri paesi dell’ex blocco sovietico, abbia rifiutato il principio di mutualità e solidarietà nella divisione dei migranti e sia stato in totale disaccordo sulle politiche europee approvate dalla maggioranza degli stati. Una presenza del genere costituisce un freno all’azione politica comune e devono essere previste delle soluzioni automatiche ed immediate, che possano sanzionare dalla penalizzazione pecuniaria dei finanziamenti, fino alla sospensione ed anche all’espulsione dal consesso europeo. Le sfide attuali vanno affrontate sulla base degli ideali fondativi dell’Unione, senza permettere che questi siano alterati da visioni contrarie e retrograde, se non si può tenere insieme tutti i membri è meglio che quelli che non condividono l’azione politica comune vengano allontanati.   

Il sistema del commercio mondiale è in crisi

La funzione dell’Organizzazione mondiale del commercio non sembra più godere di quella condivisione tra gli stati, dettata dalla necessità di favorire il processo, che risale agli anni novanta dello scorso secolo, mondiale della globalizzazione, intesa come volere delle maggiori economie per favorire un complesso di regole capaci di garantire il libero commercio. Si è trattato di una azione diretta contro le protezioni stataliste e la conseguente volontà di interrompere gli aiuti dei governi alle imprese ed alla parziale cancellazione delle politiche doganali, basate su dazi ed imposte sui beni e servizi provenienti dall’estero. La ripresa dei nazionalismi, sia politici, che militari e, soprattutto, economici, sembra avere accantonato il processo di liberalizzazione dei mercati, lasciando soltanto le parti peggiori degli effetti della globalizzazione: come la compressione dei salari ed il conseguente aumento della diseguaglianza, sia sul piano interno, tra i ceti sociali, che su quello internazionale, basato sulla profonda differenza della ricchezza delle nazioni. C’è chi incolpa la politica degli Stati Uniti, a causa della presidenza Trump, prima, e di quella di Biden, ora; tuttavia l’azione degli USA è scaturita dal comportamento della Cina, che, per raggiungere gli obiettivi di crescita che si era data, ha basato la propria azione economica su di una forte politica statalista, connotata da un grande autoritarismo, che non poteva conciliarsi con la struttura commerciale costruita sui sistemi democratici. Resta pur vero che Biden, internazionalista di nome, ha bloccato il funzionamento dell’Organizzazione mondiale del commercio, impedendone la nomina dei funzionari dell’organo di appello del WTO, che ha proprio la funzione di giudicare sulle controversie. Il punto centrale è che l’Organizzazione mondiale del commercio può autorizzare l’introduzione di dazi commerciali, soltanto nel caso di questioni di sicurezza nazionale, ma Washington contesta questa impostazione, sostenendo che questa attribuzione spetta soltanto alla Casa Bianca, nel caso della sovranità americana. Una delle condizioni del funzionamento del sistema commerciale mondiale, che dovrebbe essere garantito dal WTO, è proprio il tacito accordo tra gli stati a non ricorrere all’argomento della sicurezza nazionale, se ciò viene meno l’intero sistema sarà da rielaborare. D’altro canto, l’assetto istituzionale della Cina non permette un controllo come quello che il WTO può esercitare sugli stati democratici, dove il processo dei rapporti tra stato ed aziende è completamente visibile, mentre nello stato cinese la commistione tra pubblico e privato è meno distinguibile ed il sistema dei sussidi e le pratiche protezionistiche sono più difficili da accertare. Il comportamento americano, peraltro anche condannato dall’Europa, è, sostanzialmente, una reazione alla tendenza protezionistica di Pechino, che, di fatto, ha come conseguenza la paralisi dell’Organizzazione mondiale del commercio, impossibilitata al suo ruolo di arbitro; ciò provoca un ritorno al passato con il commercio internazionale sempre più bloccato da dazi nazionali e protezione dei prodotti internazionali. All’atto pratico l’evoluzione del commercio internazionale andrà incontro ad una serie di accordi regionali, basati su convenienze economiche e politiche, con le controversie regolate, non più da un attore sovranazionale, ma da negoziati politici e commerciali, che avverranno sulle relative parti coinvolte, senza incidere sullo scenario globale. Probabilmente quelli che si andranno ad innescare saranno rapporti di forza sbilanciati a favore degli attori con maggiori capacità a discapito dei piccoli paesi: uno scenario che indica come siano necessari sempre più organismi sovranazionali, basati su criteri geografici o anche di reciproci comuni interessi, capaci di bilanciare la potenza di grandi soggetti come gli USA o la Cina o, anche, l’Unione Europea. Ciò implicherà uno sforzo politico per i paesi che non rientrano in questi attori, teso a favorire azioni comuni sotto l’egida di organizzazioni già esistenti, come, ad esempio l’Unione degli stati africani, rafforzandone la valenza internazionale. Il rischio concreto è che questi temi possano provocare nuove tensioni internazionali, andando ad aumentare i fattori di crisi mondiale, in una fase storica già fortemente pregiudicata.

L’Alleanza Atlantica offre garanzie a Finlandia e Svezia, anche per rafforzare l’Unione Europea

La questione dell’adesione all’Alleanza Atlantica, da parte di Finlandia e Svezia, continua ad essere un problema per l’avversione della Turchia, che richiede contropartite da parte di Helsinki e Stoccolma, che non possono essere garantite dai vertici dell’Alleanza; nonostante questa consapevolezza il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Stoltenberg, si è detto ottimista e fiducioso al riguardo della conclusione positiva del processo di adesione. Le dichiarazioni di ottimismo sono avvenute durante il vertice con la Presidente della Commissione e del Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, nell’ambito della firma della terza dichiarazione di aiuto a favore del sostegno militare all’Ucraina; tuttavia, nonostante la fiducia nell’inclusione nell’Alleanza di Finlandia e Svezia, la situazione di stallo non è stata sbloccata. La conclusione positiva del processo di adesione all’Alleanza Atlantica viene vista in un’ottica di importanza storica e politica molto rilevante, per la tradizione di neutralità dei due paesi e per la loro posizione strategica, all’interno della contrapposizione alle velleità russe contro l’Europa: proprio per queste valutazioni la ratifica dell’adesione è stata firmata da 28 membri e rifiutata soltanto da Turchia ed Ungheria. Le ragioni dei due stati contrari sono differenti: Ankara non gradisce il rifugio fornito dai paesi nordici ad esponenti curdi, andando, quindi, a sindacare ragioni di politica interna degli stati candidati, mentre su Budapest il sospetto è l’atteggiamento favorevole al presidente russo, più volte manifestato ed origine di profondi dissidi anche in ambito dell’Unione Europea. La Svezia e la Finlandia hanno cercato di compiere atti che potessero soddisfare la Turchia: come la limitazione delle attività dei curdi sui loro territori, inoltre Stoccolma ha revocato il divieto della vendita di armi ad Ankara ed ha preso la distanza dalle milizie curdo-siriane, come richiesto dalla Turchia, nonostante il ruolo riconosciuto dai paesi occidentali per la lotta contro lo Stato islamico; tuttavia queste aperture non bastano al presidente Erdogan, che, probabilmente, non può fare concessioni invise al proprio elettorato fino a dopo le elezioni del prossino Giugno. In ogni caso, come ribadito dai vertici della NATO, il rischio di attacco militare russo contro Finlandia e Svezia non è ritenuto possibile proprio per le garanzie fornite fintanto che i due paesi non saranno membri dell’Alleanza; di fatto, quindi, le due nazioni godono già della protezione dell’Alleanza Atlantica a tutti gli effetti come se ne facessero parte in maniera formale ed un eventuale attacco militare implica già una automatica risposta della NATO. L’ultima dichiarazione congiunta tra Unione Europea ed Alleanza Atlantica, ribadisce gli intenti di quelle firmate nel 2016 e nel 2018, ma avviene nel contesto della guerra di aggressione perpetrata dalla Russia e rafforza la posizione di Finlandia e Svezia nel settore euro-atlantico, portando una sostanziale novità politica che, nell’immediato è in funzione anti russa, ma nel futuro promette di avere ulteriori sviluppi oltre quelli militari. La dichiarazione del 2023, quindi, conferma il concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che definisce l’Unione Europea come alleato unico ed essenziale e, su queste basi, ne richiede una integrazione ancora più potenziata, soprattutto nel quadro della strategia comune della difesa e della sicurezza internazionale. Molto importante è il giudizio favorevole verso uno sviluppo autonomo delle strutture di difesa militare dell’Unione Europea, pur sempre all’interno dell’Alleanza Atlantica, tema più volte messo in discussione dal precedente presidente degli Stati Uniti, Trump. Se queste considerazioni hanno un carattere funzionale maggiormente attinente alla situazione contingente, relativa al conflitto della Russia con l’Ucraina, sono stati espressi anche giudizi, in special modo dalla presidente della Commissione dell’Unione Europea, Ursula Von der Leyen, relativi a potenziali situazioni già presenti, ma, che, per il momento, si limitano a conflitti di tipo commerciale, come i rapporti con la Cina. L’evidente volontà di Pechino di rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio, deve mettere in allarme i paesi democratici, che potrebbero rischiare di vedere alterate le loro peculiarità del modo di governare. Solo una maggiore integrazione politica e la creazione di una forza militare autonoma dell’Europa può garantire una capacità di deterrenza da minacce armate o anche da ribaltamenti della politica americana, non più stabile come una volta, possa provocare un decremento del proprio preso all’interno dell’Alleanza Atlantica, dovuto a tendenza isolazioniste già viste nel recente passato statunitense.

La Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, denuncia pressioni da parte cinese per non pubblicare un rapporto sugli uiguri

Praticamente alla vigilia della fine del suo mandato come Commissario per i diritti umani, che scade il 31 agosto, Michelle Bachelet, già presidente del Cile, ha rivelato di avere ricevuto pressioni per non pubblicare un rapporto già pronto, che denuncerebbe gli abusi di Pechino contro la minoranza musulmana uigura, che conta una popolazione di circa dodici milioni di persone presenti nella regione settentrionale dello Xinjiang. La Cina avrebbe inviato una lettera, firmata anche da altri quaranta paesi di cui non sono stati rivelati i nomi, dove l’intento era di dissuadere il Commissario per i diritti umani a non pubblicare il rapporto. L’elaborazione del rapporto in questione è in corso da tre anni, ma comprende anche i risultati della visita del Commissario effettuata lo scorso maggio, che ha provocato pesanti critiche da parte di Amnesty International, Human Rights Watch ed anche del Dipartimento di Stato USA, per l’atteggiamento ritenuto troppo accomodante da parte dell’inviata delle Nazioni Unite verso le autorità cinesi, che sono state fatte oggetto di critiche con toni ritenuti troppo moderati. Malgrado il periodo di lavorazione piuttosto ampio per l’elaborazione del rapporto, la pubblicazione è stata rimandata più volte per ragioni ufficiali non conosciute, anche se si ipotizza che Pechino ed i suoi alleati, abbiano operato materialmente in questo senso. Una giustificazione fornita dalla stessa Commissaria è che il ritardo è dovuto alla necessità di integrare al rapporto i risultati della visita contestata di maggio, in ogni caso l’obiettivo della pubblicazione sarebbe entro la fine del mandato della Commissaria, cioè entro la fine del mese di agosto, anche se mancano conferme ufficiali in tal senso. Molti paesi occidentali hanno richiesto espressamente la pubblicazione del rapporto ma il governo cinese avrebbe espresso richieste per esaminare più attentamente i risultati della ricerca; a complicare la situazione è intervenuta una ricerca da parte di quattordici testate giornalistiche internazionali, che sono riusciti ad esaminare documenti ufficiali cinesi che avrebbero confermato la persecuzione degli uiguri, attraverso continue e sistematiche violazioni dei diritti umani subite da almeno più di due milioni di persone con la pratica dell’internamento, anche patita da minorenni, in centri di rieducazione, dove oltre la somministrazione di violenza fisica e psicologica, gli uiguri vengono utilizzati come forza lavoro senza retribuzione, in una condizione paragonabile alla schiavitù. Pechino nega queste ultime accuse definendo i centri di detenzione come istituti di formazione professionale. L’accusa a Bachelet da parte del Segretario di Stato degli USA è quella di non avere chiesto conto alla Cina notizie sugli uiguri scomparsi e su quelli deportati in altre regioni cinesi, sradicati dai loro luoghi di origine, anche alcune Organizzazioni per i diritti umani hanno definito la gestione della Commissaria come troppo arrendevole verso la Cina e chiedendone la sostituzione con persone più determinate. La volontà di dimettersi dal suo ruolo di Commissaria per i diritti umani si sarebbe materializzata proprio dopo il suo ritorno dalla missione in Cina e sarebbe stata giustificata con motivi personali. La coincidenza appare quanto meno sospetta, potrebbe essere proprio stato il caso di una pressione cinese troppo forte a determinare la vera ragione delle dimissioni e la consapevolezza di non sapere affrontare una prova del genere, cioè di non essere in grado di affrontare le conseguenze di un rapporto troppo poco severo da parte dei paesi occidentali o il contrario da parte dei cinesi. In ogni caso una fine ingloriosa per il suo mandato di Commissario dei diritti umani, che in un modo o nell’altro segnerà la figura politica della Bachelet.

L’Alleanza Atlantica avverte la Russia e la Cina circa la tutela dei propri interessi

L’incontro di Madrid dell’Alleanza Atlantica ha sancito il cambio di impostazione e finalità dell’organizzazione di Bruxelles, ma ha, soprattutto, permesso di registrare una nuova vitalità dettata dalle contingenze del momento, che vengono assunte come scenario di lungo periodo e di difficile soluzione, per il quale occorre una presa d’atto ufficiale, che obbliga a decisioni pratiche per contrastare gli avversari. Una delle maggiori novità è l’abbandono della neutralità da parte di Svezia e Finlandia per entrare nell’Alleanza Atlantica, appianate le divergenze con la Turchia, con una tempistica piuttosto rapida se messa in relazione ai comportamenti di Erdogan, che consente un allargamento notevole dell’area delle potenziali operazioni, dove è molto rilevante la frontiera che il paese finlandese divide con la Russia, ormai accerchiata ad ovest dei suoi confini. L’importanza del ruolo, involontario, di Mosca come propulsore allo slancio dell’Alleanza Atlantica, ha consentito una presa d’atto forte sulla necessità della tutela dei confini e della conseguente integrità territoriale, nonché della sovranità dei singoli stati che appartengono all’Alleanza. Sebbene la Russia rappresenti l’emergenza più attuale, che obbliga a considerare la crisi presente come la peggiore dalla fine del secondo conflitto mondiale e, che di conseguenza rende necessario un riarmo massiccio e, probabilmente, una grande mobilitazione di militare, la visione dell’Alleanza Atlantica deve essere per forza di cose, ben più ampia. Lo scenario mondiale generale, aldilà di quello europeo, acuisce la concorrenza strategica nel contesto globale e le sfide, presenti e future sull’economia diventeranno sempre più esasperate, ma non solo: la multipolarità della scena diplomatica comprende notevoli rischi per gli assetti geopolitici, la presenza delle emergenze terroristiche e la proliferazione nucleare, costituiscono minacce sempre più concrete a cui rispondere. Se la Russia è il presente più urgente, non viene tralasciato il rapporto con la Cina, con cui necessita di trovare un dialogo per non fare finire il rapporto come con il Cremlino; tuttavia viene riconosciuto che Pechino utilizza metodi violenti e coercitivi per conseguire risultati, al suo interno, in aperto contrasto con i valori occidentali, mentre verso l’esterno utilizza, in analogia con la Russia, sistemi per influenzare i paesi occidentali ed insiste per esportare la propria influenza politica ed economica verso gli stati poveri; mentre sul tema della vicinanza con Mosca rappresenta un oggettivo pericolo per l’occidente sul quale deve essere avvisata sulle relative possibili conseguneze. Il problema dei rapporti con gli stati autoritari accompagnerà senz’altro il futuro, con temi di difficile soluzione, come la proliferazione degli armamenti, non solo quelli nucleari, ma anche quelli chimici e batteriologici ed anche le conseguenze del riscaldamento climatico: se le intenzioni sono quelle di usare la diplomazia, occorre prevedere situazioni di confronto in cui sono necessarie prese di posizione molto dure e che possano comprendere anche il potenziale uso della forza. Anche l’Africa, però rappresenta un’emergenza, perché subisce condizioni favorevoli allo sviluppo dell’estremismo che prospera grazie alle carestie ed alla crisi alimentari ed umanitarie, inoltre investire nel continente nero significa fermare l’espansione e l’ambizione proprio di Cina e Russia, che stanno progressivamente occupando gli spazi vuoti lasciati dagli occidentali. Le conclusioni del vertice riguardano la fine del progetto di instaurare rapporti amichevoli con gli eredi dei sovietici, come enunciato nel 2010 a Lisbona, l’Alleanza Atlantica diventa pienamente consapevole che attualmente Mosca agisce in maniera diretta per alterare la stabilità dell’Europa e dell’Alleanza Atlantica, con modalità, anche subdole, che vanno dalla ricerca dell’instaurazione di sfere di controllo mediante aggressione, annessione e sovversione, con mezzi di guerra convenzionale, per ora, ma anche informatici. La retorica del Cremlino, che infrange in modo sistematico le regole di convivenza internazionale, non può che essere un ostacolo per qualsiasi rapporto con la Russia e la dichiarazione di disponibilità a mantenere aperti i canali di comunicazione, appare come una dichiarazione non programmatica e sostanziale, ma soltanto una formalità dovuta alla necessità diplomatica.

L’Alleanza Atlantica destinata ad aumentare i suoi membri

Uno degli effetti indesiderati, ed inaspettati, per Putin causati dall’invasione dell’Ucraina è stato quello di ridare vitalità all’Alleanza Atlantica, che, durante la presidenza di Trump si avviava ad una conclusione ormai annunciata. La brutalità dell’opearzione militare speciale sommate ad evidenti cause geopolitiche hanno, invece, rafforzato l’unità dei membri dell’Alleanza Atlantica, fornendo all’organizzazione nuovo impulso e vigore. L’errore, prima tattico e poi strategico di Putin è stato il risultato di una analisi poco approfondita, che ha dimostrato la scarsità degli analisti internazionali russi. Si credeva che la divisione tra Europei al loro interno e tra europei e Stati Uniti, fossero ormai insanabili e per certi versi questa analisi aveva dei fondamenti validi ed aveva possibilità di avverarsi senza provocare alcuna situazione in grado di cambiare il corso delle cose. Nella valutazione di Putin, il capo del Cremlino ha giudicato come ininfluenti, su questa partita, gli effetti provocati dall’invasione di un paese straniero. Questa valutazione ha, però avuto gli effetti opposti e non si può dire che per la Russia non ci fossero le avvisaglie per internpretare la nuova situazione: l’agitazione dei paesi baltici e della Polonia, contro l’attivismo russo avrebbero dovuto bastare per una maggiore cautela per non sacrificare una situazione geopolitica, tutto sommato, non sfavorevole a fronte della conquista dell’Ucraina in aperta violazione del diritto internazionale; che, poi, il risultato militare sia fallimentare deve aumentare ancora di più le recriminazioni da parte del governo russo per essersi collocato in una situazione che, al momento, sembra senza via di uscita. Per quanto riguarda lo stato di salute dell’Alleanza Atlantica, che i russi volevano ai minimi termini, la situazione appare molto sfavorevole per Mosca. La possibile decisione di interrompere la loro neutralità da parte di Finlandia e Svezia, porterà la Russia ad aggiungere un nuovo lato della sua frontiera dove sarà presente l’Alleanza Atlantica, proprio una delle ragioni che ha provocato l’invasione del paese ucraino. Sebbene l’Ucraina è sempre stata considerata zona di influenza esclusiva dalla Russia e Svezia e Finlandia non rientrino in questa casistica, la neutralità dei due paesi è sempre stata considerata un fatto quasi dovuto, prima all’Unione Sovietica ed ora alla Russia di Putin; l’alterazione di questo stato di cose ha provocato irritazione e nervosismo al Cremlino, dove non si è esistato a minacce nucleari più o meno esplicite; la presenza di ordigni atomici tattici, cioè a raggio di azione ridotto, sui confini russi, è comunque risaputa e la comunità internazionale ne è consapevole, tuttavia la Russia non ha perso occasione per ribadire il suo potenziale nucleare; inoltre l’adesione all’Alleanza Atlantica imporrà a Mosca di schierare su quei confini quantità ingenti di truppe, innalzando il livello della tensione, così come incrementare le unità navali presenti nel golfo finlandese. Bisogna fare presente che i due stati nordici partecipano già alle riunioni dell’Alleanza Atlantica ed i loro militari effettuano esercitazioni con le truppe dell’Alleanza, insomma vi è già una collaborazione quantitativa, che deve essere solo sancita in maniera ufficiale. Le condizioni per entrare nell’Alleanza Atlantica sono già ampiamente soddisfatte dai sitemi politici dei due stati e si tratta soltanto di una decisione che riguarda la loro sovranità, anche se va detto, che Bruxelles potrebbe temporeggiare in questo momento per non esasperare una situazione già molto tesa con Mosca; tuttavia i due paesi nordici subiscono minacce russe già da circa un anno e dalla fine del 2021 le pressioni di Mosca si ripetono, puntuali per ogni settimana; si riteine che ciò abbia provocato una crescente opinione favorevole nelle società dei due paesi, che, pare,  ormai favorevole ad abbandonare la politica del non allienamento in maniera maggioritaria. Con Svezia e Finlandia i membri dell’Allenaza Atlnatica saliberebbero a 32 e la Russia vedrebbe più che raddoppiato il proprio confine con la presenza della NATO: un risultato raggiunto dalla capacità e dalla lungimiranza di Putin, grande statista e conoscitore dei meccanismi internazionali.

Le manovre militari dell’Alleanza Atlantica in Ucraina irritano la Russia

Le esercitazioni militari tra Ucraina, Stati Uniti ed Alleanza Atlantica, rischiano di compromettere il periodo di calma, seppure instabile, tra Mosca e Washington. La distensione che è seguita al vertice tra Putin e Biden, che si è tenuto lo scorso mese, incomincia ad essere soltanto un ricordo. Il Cremlino, infatti, avverte le manovre militari congiunte come un affronto ed una minaccia proprio perché vengono effettuate in una zona che la Russia ritiene di sua influenza esclusiva. Naturalmente ciò implica anche ragioni di politica internazionale, che riguardano l’atteggiamento espansionistico degli Stati Uniti in Ucraina: la ragione fondamentale è che Mosca rifiuta di avere truppe dell’Alleanza Atlantica sui propri confini, che è anche il motivo per cui ha sempre rifiutato la possibilità dell’ingresso di Kiev sia nell’Unione Europea, che nella stessa Alleanza Atlantica. Se nella contrarietà verso una intesa con Bruxelles ci sono anche ragioni economiche, l’avversione ad un ingresso nell’Alleanza Atlantica è giustificato dal timore di non avere più uno spazio fisico tra le guarnigioni occidentali e quelle di Mosca, con ovvie potenziali minacce ravvicinate, soprattutto di tipo missilistico, che esporrebbero il paese russo ad una costante minaccia da parte degli Stati Uniti; questa visione è di medio periodo, mentre sul breve l’esigenza funzionale agli  interessi russi è che non ci siano alleati del paese ucraino nei territori contesi con Mosca, dove continuano i combattimenti, capaci di rovesciare le sorti del conflitto. I numeri impiegati dicono che Mosca non ha torto a temere queste manovre militari ed anche ad interpretarle come una minaccia rivolta verso la Russia: infatti nel 2019, le ultime esercitazioni effettuate prima della pandemia, i paesi partecipanti furono 19 contro i 32 attuali e le navi militari impiegate sono passate da 32 a 40. Senza dubbio questo incremento è dovuto alla capacità di Biden di sapere aggregare i paesi alleati e di avere saputo focalizzare l’Ucraina come punto di interesse generale dell’Alleanza Atlantica; in questo Mosca aveva ragione a preferire Trump come inquilino della Casa Bianca ed a impegnarsi affinché venisse rieletto. Aldilà delle implicazioni di carattere politico il vero obiettivo di queste esercitazioni è quello di fornire un adeguato addestramento ai militari ucraini per quanto riguarda i metodi e le modalità di combattimento dell’Alleanza Atlantica e ciò sembra propedeutico ad un ingresso nell’alleanza occidentale più o meno ufficiale, ma comunque con l’intento di integrare le forze armate ucraine con quelle dell’Alleanza Atlantica, anche se, di fatto, queste esercitazioni si tengono fin dal 1997, ma hanno acquisito maggiore importanza dopo l’annessione del territorio ucraino della Crimea alla Russia, con una modalità condannata da gran parte della comunità internazionale. Il fatto che, gli Stati Uniti siano i grandi finanziatori delle manovre militari, deve essere associato alla disponibilità che l’Ucraina fornisce ad usare il proprio territorio come base logistica ed alla possibilità di accesso a forze straniere al suo interno. Le rimostranze russe sono state di ordine militare e geopolitico e si è sfiorato lo scontro quando una nave inglese è stata accusata di avere violato il confine delle acque territoriali della Crimea e quindi della Russia, con le forze di Mosca che hanno aperto il fuoco contro la nave dell’Alleanza Atlantica, primo episodio del genere dalla fine della guerra fredda. Si comprende come questo stato di cose può favorire incidenti che possano degenerare in situazioni ben più pesanti; paradossalmente gli scenari possibili, in questa fase storica, sembrano essere molto più pericolosi di quando era in atto la guerra fredda che si fondava sull’equilibrio del terrore e dove ciascuno dei due contendenti aveva campi ben delimitati, che non potevano essere mai stati oltrepassati. Al contrario la forte precarietà degli attuali equilibri sembra favorire una serie di conflitti a bassa intensità potenziale, ma che possono scatenare situazioni ben peggiori. Uno dei pericoli è che la Russia appare isolata, soprattutto da Pechino, che potrebbe fornire aiuti soltanto se funzionali ai suoi interessi e comunque non in modo paritario, ma tale da mettere Mosca in ruolo subordinato, questo aspetto dell’isolamento russo rischia di fare incrementare a Mosca azioni militari non classiche, ma che sono ormai entrate nella pratica moderna: l’attivismo degli hacker russi costituisce, infatti, un ulteriore terreno di scontro non convenzionale, che, però, rischia di coinvolgere le armi classiche: un pericolo in più da una nazione messa alle strette che non può più esercitare il suo ruolo di prima potenza a cui non ha però rinunciato.

Aumenta lo scontro tra Occidente e Cina

I timori comuni dei membri dell’Alleanza Atlantica verso la Cina hanno prodotto una risposta del tutto prevedibile da parte di Pechino. La tattica cinese è fare diventare diffamazione tutto ciò che è contro la Repubblica Popolare, soltanto che il palcoscenico internazionale non è quello domestico, dove l’informazione è controllata e le critiche represse. Pechino nega di porre in atto sfide sistemiche contro la sicurezza internazionale, che è, ormai, l’opinione ufficiale e comune dell’occidente, o almeno dei governi occidentali, tralasciando l’influenza che vuole esercitare sui paesi in via di sviluppo, mediante una politica di crediti che si trasformano facilmente in debiti molto onerosi, le politiche finanziarie aggressive, il mancato rispetto dei diritti civili e la crescita economica ottenuta con l’assenza di garanzie per i lavoratori, un costo del lavoro molto basso ottenuto spesso con metodi che sfiorano la schiavitù. Negare ciò è scontato perché non ci si può presentare la mondo con queste caratteristiche, ma proprio il mondo globalizzato che piace ai cinesi è il principale strumento per smascherarli. Nella nota della missione diplomatica di Pechino accreditata presso l’Unione Europea si riprende l’occidente di essere ancora fermo ad una mentalità da guerra fredda, ma questa situazione è quella creata dalla stessa Cina. Che porta avanti politiche, soprattutto interne, ma anche esterne, in completo contrasto con i valori occidentali, ed è chiaro che se ogni parte è legittimo che sostenga le proprie ragioni è legittimo che l’occidente veda per se stesso la Cina attuale, come una minaccia. Pechino è diventata una delle peggiori vittime della sconfitta di Trump: con il precedente presidente USA , la dialettica di scontro era ai massimi livelli, ma senza troppe conseguenze, inoltre l’avversione di Trump per l’Europa aveva portato ai minimi storici il dialogo con gli alleati occidentali; ben diverso l’atteggiamento di Biden, che si rivela nemico ben più temibile per la Cina, proprio perché oltre a mantenere la diffidenza verso la potenza cinese è stato capace di ricompattare l’occidente verso i tradizionali legami con gli USA: un fattore che da solo indebolisce Pechino e la isola dai mercati più ricchi del mondo, una questione a cui la Cina è molto sensibile perché funzionale a quegli obiettivi di crescita economica, che sono da molto tempo  al centro degli obiettivi cinesi, anche come elemento di geopolitica. Aldilà del terreno di scontro dell’economia, che non è affatto secondario, l’unità di visione maturata nel campo occidentale contro l’autoritarismo cinese, permette agli stati occidentali di allontanarsi dalla Cina, verso cui si era pericolosamente avvicinata a causa del peggioramento delle relazioni causato da Trump. Dal punto di vista delle conseguenze il pericolo di una Cina isolata dall’occidente è quello di un ulteriore ricorso all’ampliamento degli armamenti, direzione, peraltro, già intrapresa da tempo, che però, con questi ultimi sviluppi, potrebbe indurre Pechino ad accelerare verso dimostrazioni di forza come ha più volte minacciato. SI pensi al presidio delle vie navali di quelle che ritiene acque di sua pertinenza, delle questioni delle isole contese e della vicenda più potenzialmente pericolosa costituita da Taiwan, a cui Pechino non ha mai formalmente rinunciato, considerandola parte integrante del territorio cinese.  Ancora più oltre occorre ricordare che la Cina ha sempre affermato di volere difendere i suoi interessi, se si estende questo concetto alla difesa della possibilità di effettuare investimenti considerati strategici per i suoi obiettivi, sarà interessante vedere la reazione di Pechino di fronte ad un possibile contrasto all’attivismo cinese nei paesi occidentali. La reazione più probabile passa da una guerra commerciale, che non conviene a nessuno, perché in grado di bloccare o comprimere fortemente l’economia mondiale, tuttavia quella che ha più da perdere è proprio la Cina, se si vedesse preclusi i maggiori mercati mondiali, in quel caso sembra facile prevedere l’esibizione di una prova di forza, con conseguenze anche potenzialmente irreparabili. Prima di arrivare a quel punto però dovrà esserci il lavoro delle diplomazie, con la minaccia di un possibile ritorno di Trump sulla scena statunitense, che sarà il vero ago della bilancia per tutta una serie di situazioni in grado di rovesciare l’assetto attuale e per il quale, verosimilmente, Cina, ma anche Russia lavoreranno a favore; quindi il successo dell’occidente, anche come valori pratici ed astratti, passa per il successo dell’attuale presidente americano, che deve rendere efficace il suo progetto di rafforzamento dei rapporti con l’occidente: un compito in grado di riportare la storia sui binari dai quali era uscita.    

L’Alleanza Atlantica cerca la riorganizzazione dopo la presidenza Trump

Chiusa la parentesi di Trump, l’Alleanza Atlantica cerca la riorganizzazione interna, soprattutto finanziaria, per potere tornare ad essere un soggetto di principale importanza in uno scenario mondiale giudicato altamente instabile. La congiuntura che offre l’insediamento alla Casa Bianca di Biden appare particolarmente favorevole per stimolare un approccio differente da parte dei membri dell’Alleanza Atlantica, dopo che con il presidente precedente si era arrivati al rischio concreto di un ridimensionamento del principale sistema di difesa occidentale. La prima proposta che dovrebbe arrivare dal Segretario generale sarà quella di aumentare il budget dell’organizzazione, una soluzione che solo all’apparenza ricalca quanto a lungo inseguito prima da Obama e poi da Trump. Entrambi i predecessori di Biden non sono riusciti nell’intento perché la richiesta era di una semplice maggiorazione della contribuzione, senza incentivi e corrispettivi per gli stati europei. La novità della nuova proposta si basa, innanzitutto su di una quota contributiva fissata sul prodotto interno lordo di ogni singolo paese; l’ammontare totale dovrà finanziare un fondo comune dal quale attingere per il finanziamento delle missioni, fino ad ora, invece, finanziate dalle casse di ogni singolo stato. Verrebbe, così, introdotta una mutualità che favorirebbe una maggiore integrazione e una più consistente partecipazioni alle attività dell’Alleanza Atlantica: questa impostazione andrebbe a rappresentare una innovazione particolarmente importante anche in ottica di maggiore condivisione degli obiettivi, abbattendo le difficoltà di carattere organizzativo. Una maggiore distribuzione dei costi permetterebbe una maggiore partecipazione operativa di ogni singolo stato e potrebbe consentire l’effettuazione di test periodici in grado di individuare e correggere i punti deboli del sistema difensivo occidentale. Incrementare le esercitazioni comuni, grazie al superamento dell’ostacolo dei costi, significherebbe una maggiore integrazione operativa tra le forze armate dei paesi membri, permettendo anche una interscambiabilità, che, secondo le previsioni, potrebbe diventare un elemento essenziale per il presidio dei teatri delle operazioni. Finita la guerra fredda dove il nemico era solo l’Unione Sovietica ed i paesi dell’Europa orientale, l’evoluzione della politica internazionale ha presentato una varietà di scenari che i soli Stati Uniti non possono più presidiare da soli. Un ruolo che si prefigura sempre più importante sarà quello di presidiare le infrastrutture di ogni membro, che nei nuovi conflitti, anche non dichiarati, rappresentano in maniera sempre maggiore gli obiettivi potenziali tattici e strategici, dove colpire da parte degli avversari. In quest’ottica si pensa anche a coinvolgimenti di capitale privato, proprio perché le industrie con le loro conoscenze rappresentano obiettivi sensibili. Per perseguire tutti questi fattori si pensa anche ad un rafforzamento dell’articolo 5 del trattato transatlantico, che prevede la difesa reciproca in caso di aggressione: si comprende che per una maggiore sicurezza, estesa anche oltre quella militare, la richiesta di un aumento del budget possa essere recepita come legittima. Esiste una potenziale controindicazione a questo piano ambizioso: la volontà europea di una forza comune, che, seppure debba essere integrata nell’Alleanza Atlantica, dovrebbe avere, anche, nel contempo, un carattere di indipendenza; ciò è stato pensato proprio in concomitanza con la presidenza Trump, che pareva volere accantonare, o almeno ridurre, l’esperienza atlantica. Il problema non è soltanto di integrazione militare ma di spesa in armamenti, che l’Europa ha pensato di destinare all’industria continentale, evitando le spese presso le industrie statunitensi. Aldilà delle buone intenzioni del Segretario generale i temi del dibattito non potranno discostarsi dalle intenzioni di dove la spesa in armi verrà fatta. Un eventuale mantenimento della volontà europea dovrà comunque prevedere una essenziale integrazione dei sistemi di armamento, che investe i brevetti e le licenze di costruzione. Resta il fatto che i presupposti di partenza, soprattutto politici, siano oltremodo positivi e ciò potrebbe aiutare in modo determinante il superamento delle differenze presenti di natura pratica a vantaggio di una programmazione più condivisa per raggiungere gli obiettivi prefissati degli scopi difensivi dell’Alleanza Atlantica.