Aumenta la tensione tra Algeria e Marocco

Con la chiusura, da parte delle autorità algerine, del proprio spazio aereo a tutti gli aerei civile e militari marocchini si alza il livello della tensione tra i due stati, aggravando una difficile situazione diplomatica che potrebbe degenerare in maniera pericolosa. La questione tra i due stati nord africani riguarda la situazione del Sahara occidentale, a sud del Marocco, controllata dal Fronte Polisario che lotta per l’indipendenza dal governo di Rabat, rivendicando la sovranità dei territori abitati dal popolo Saharawi e per questa ragione riconosciuto dalle Nazioni Unite, come legittimo rappresentante di quelle popolazioni. Questi territori includono ingenti giacimenti minerali e di fosfati, materiale utilizzato per i fertilizzanti, che è la vera ragione per la quale il Marocco si rifiuta di concedere al Fronte Polisario un referendum per l’indipendenza. Per ovviare alla situazione dell’annessione di questi territori da parte del Marocco, avvenuta negli anni settanta dello scorso secolo, il Fronte Polisario ha decretato la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi, il cui governo in esilio è ospitato in Algeria, che, di fatto, è diventato il paese protettore di questa causa. Il paese marocchino è sostenuto per la sua causa da USA ed Israele, questo in conseguenza della promessa di Trump di sostenere Rabat in caso di riconoscimento dello stato israeliano, così Washington ha riconosciuto la sovranità del Marocco sui territori rivendicati dal Fronte Polisario; recentemente l’Algeria è stata colpita dal fuoco dalle forze armate marocchine, che hanno agito mediante un drone di fabbricazione israeliana. Rabat, nel corso dell’anno, ha aperto due crisi diplomatiche con paesi europei: la prima con la Spagna, per avere accolto un leader del Fronte Polisario per prestargli cure mediche, la seconda con la Germania, che ha definito il Sahara occidentale un territorio occupato dal Marocco e di avere chiesto alle Nazioni Unite una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza per sollecitare lo svolgimento del referendum dell’indipendenza del Sahara occidentale. Il Marocco ha risposto a queste sollecitazioni internazionali contrattaccando con una azione contro l’Algeria, chiedendo alle stesse Nazioni Unite, il diritto all’autodeterminazione della regione algerina della Cabilia a maggioranza berbera. Algeri aveva precedentemente classificato il movimento che sostiene l’autonomia della regione berbera come terrorista di matrice islamista ed il mancato ritiro della proposta marocchina provocò il ritiro dell’ambasciatore algerino in Marocco. A contribuire a questa tensione diplomatica è stata la scoperta dell’uso da parte di Rabat di un software israeliano in grado di spiare funzionari algerini ed il presunto coinvolgimento marocchino negli incendi che hanno devastato il nord dell’Algeria e che hanno provocato almeno novanta vittime. La sospensione dei voli con bandiera del Marocco sui cieli algerini voluta dal governo di Algeri si inquadra in questo scenario di rispettivi sgarbi, che denotano un confronto a bassa intensità militare, ma con elevate tensioni diplomatiche, che investono anche i rapporti economici: dopo il ritiro del proprio ambasciatore Algeri ha comunicato l’interruzione dell’esportazione del proprio gas verso la Spagna attraverso il Marocco: per Rabat significa una perdita tra i 50 ed i 200 milioni di euro, in ragione della quota del 7% del valore totale del gas che arriva sul territorio spagnolo; ed anche il divieto di sorvolo colpisce l’industria turistica marocchina, che basa gli arrivi nel proprio paese attraverso il traffico aereo. A livello di analisi globale della regione del Mediterraneo meridionale, si teme una ulteriore destabilizzazione, che, se sommata, alla situazione libica, dove la guerra civile si è estesa anche al Mali e coinvolge grandi potenze, più o meno direttamente, può portare tutta la fascia costiera ad uno stato di incertezza che potrebbe riflettersi sui paesi europei affacciati sul Mediterraneo; inoltre il radicalismo islamico potrebbe prendere questa situazione come una occasione per infiltrarsi nelle crisi locali e sfruttare le migrazioni fuori controllo per arrivare in occidente. Non va infatti dimenticato, che uno dei mezzi, peraltro non nuovi, usati dal Marocco per esercitare pressioni sulla Spagna, fu proprio quella di lasciare le sue frontiere non controllate per favorire un flusso migratorio verso il paese spagnolo. Questa situazioni è anche l’ennesimo confronto degli USA con l’Unione Europea, che appoggiano ciascuno gli opposti contendenti, rimarcando la differenza di vedute profonda che si è venuta a creare nel campo occidentale.

L’accordo tra Marocco ed Israele minaccia la stabilità del Sahara occidentale ed è una trappola per Biden

L’ennesimo accordo di una amministrazione scaduta, lascia pesanti questioni in eredità al nuovo inquilino della Casa Bianca e gli impone una serie di obblighi economici e politici, che potrebbero non essere condivisi. Il quarto stato arabo che accetta di stabilire rapporti con Israele, grazie alla mediazione americana, dopo Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Sudan è il Marocco, che ottiene il riconoscimento della propria sovranità sul Sahara occidentale, l’ex colonia spagnola abbandonata da Madrid nel 1975. Per raggiungere il successo diplomatico con gli Emirati Arabi Uniti, gli USA si sono impegnati a finanziare l’esercito emiratino con un programma di riarmo del costo di 19.100 milioni di euro, per il Bahrain il costo è politico per favorire i rapporti con l’Arabia Saudita, mentre per il Sudan si tratta di un impegno che riguarda entrambi gli aspetti, trattandosi della promessa, non ancora concretizzata, di revocare le sanzioni di Washington verso il paese africano, che erano state inflitte per colpire il precedente regime dittatoriale. Per Rabat il vantaggio è quello di vedersi riconosciuta la sovranità sul Sahara occidentale, poco importa se, per ora, questo riconoscimento avviene solo dagli Stati Uniti, unico paese della comunità internazionale ad effettuarlo; Trump ha parlato espressamente come la soluzione del governo del Marocco sia l’unica proposta percorribile nell’ambito della ricerca di un processo di pace duraturo. Questo apprezzamento consente al Marocco di superare gli accordi del 1991, firmati con il Fronte Polisario presso le Nazioni Unite, che prevedevano un referendum per l’autodeterminazione delle popolazioni del Sahara occidentale. Ciò potrebbe aggravare una situazione di crisi ripresa dallo scorso 12 novembre, con un confronto tra l’esercito marocchino e gli attivisti per l’indipendenza, dopo ventinove anni di tregua. Occorre ricordare che il Sahara occidentale è il territorio non indipendente più grande del pianeta e la autoproclamata Repubblica araba Sahrawi ha il riconoscimento di 76 nazioni e dell’Unione Africana e detiene lo status di osservatore alle Nazioni Unite. Si comprende come la tattica di Trump miri a dividere l’Unione Africana e lasciare a Biden una grave responsabilità, anche perché la decisione a favore del Marocco interrompe una linea che gli USA mantenevano da tempo bei confronti della questione. Se Biden decidesse di avvallare la decisione di Trump andrebbe contro agli ambienti diplomatici americani al contrario una revoca del riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, implicherebbe un raffreddamento nei rapporti tra Rabat e Tel Aviv. La prova che l’incertezza regni anche in Marocco, aldilà delle dichiarazioni di soddisfazione, è che per ora Rabat non intende aprire alcuna rappresentanza diplomatica in Israele, quasi ad attendere gli sviluppi della nuova politica estera americana. Una ragione ulteriore, poi, è l’atteggiamento da tenere con i palestinesi, apparsi da subito molto adirati. Il Marocco ha specificato da subito che non intende mutare il proprio atteggiamento favorevole sulla soluzione di un territorio e due stati, incompatibile con la visione di Netanyahu. Il premier israeliano al momento sembra essere il vero vincitore, portando un nuovo accordo con uno stato arabo come sua personale vittoria, in un momento molto difficile sul fronte interno, dove il paese rischia la quarta elezione politica in poco tempo. Trump continua a giocare per sé stesso, sacrificando per i propri scopi la politica estera statunitense in un momento di passaggio di consegne: quella che il presidente uscente ritiene vincente è la tattica di lasciare una situazione molto difficile da gestire per quella che dovrà essere la politica estera democratica, con l’atteggiamento di diversi stati alleati potenzialmente negativo con il nuovo presidente. Il disegno è ampio e mira, innanzitutto a creare una rete di stati legati al vecchio presidente in vista di una possibile ricandidatura tra quattro anni, lasciando situazioni di difficile soluzione per il nuovo inquilino della Casa Bianca, che presuppongono il fatto di lasciare inalterate le decisioni in essere, con la contrarietà del partito democratico, o viceversa di ribaltarle, ma dovendo affrontare l’avversione di chi dovrà subire queste decisioni contrarie. Un tranello che appare creato ad arte per delegittimare il nuovo presidente o di fronte agli alleati stranieri o di fronte al proprio elettorato. In conclusione bisogna ricordare che Trump non ha ancora formalmente riconosciuto la sconfitta e minaccia di portare il paese più importante del mondo verso un caos istituzionale, che potrebbe avere ripercussioni molto gravi per il mondo intero.  

Le implicazioni dell’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti

Il principale significato dell’accordo, che formalizza una situazione già esistente ma ufficiosa, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, è quello di anticipare la possibile sconfitta di Trump e prevenire un nuovo accordo sul nucleare iraniano, che potrebbe rientrare nei piani di Biden nel ruolo di nuovo presidente degli Stati Uniti. La sicurezza nazionale israeliana vale molto di più che l’espansione in Cisgiordania, peraltro solo momentaneamente sospesa. L’interesse di prepararsi ad una possibile ritorno dell’Iran sulla scena diplomatica è condiviso con gli stati sunniti del golfo già da tempo, ma un accordo ufficiale rappresenta una novità di rilievo. Intanto perché rappresenta, probabilmente, solo un primo episodio al quale ne seguiranno altri: infatti ci sono grandi possibilità che Tel Aviv stringerà relazioni diplomatiche anche con l’Oman e con il Bahrain, dove è presente la sede della quinta flotta degli USA; i due paesi hanno espresso le loro congratulazioni con gli Emirati Arabi Uniti per l’accordo che rappresenta un rafforzamento della stabilità regionale. Lo stesso Netanyahu ha definito come circolo della pace della regione quella alleanza informale che sta diventando ufficiale tra Israele e monarchie del Golfo. In effetti la sorpresa per questi accordi non è giustificata perché rappresenta la naturale evoluzione di rapporti che si sono instaurati e sviluppati con il denominatore comune di creare un’alleanza in ottica anti iraniana. Al momento Teheran subisce le sanzioni americane ed è anche in difficoltà per la questione libanese, che vede Hezbollah, suo principale alleato, in netto calo di consensi anche tra gli stessi sciiti del Libano. Un cambio al vertice della Casa Bianca potrebbe migliorare la condizione iraniana, anche se non è scontato, con una direzione diversa della politica estera degli Stati Uniti: questo scenario obbliga Israele e gli stati del Golfo ad ufficializzare i rispettivi rapporti per facilitare la velocità e la coordinazione di eventuali risposte diplomatiche che si dovessero rendere necessarie. Apparentemente ad avere i maggiori svantaggi, perlomeno nell’immediato, sarebbero i palestinesi che vedono rompersi ufficialmente l’ostilità contro gli israeliani da parte del mondo arabo; in realtà Tel Aviv ha già accordi con Egitto e Giordania e da tempo i leader sunniti del Golfo mantengono soltanto un atteggiamento di facciata nei confronti della questione palestinese, a favore, appunto, di una condotta più pragmatica e funzionale ai propri interessi più immediati e diretti. Un ulteriore obiettivo degli accordi, oltre al già citato Iran, sarebbe anche la Turchia, che si sta proponendo come alternativa sunnita alle monarchie del Golfo, per guidare politicamente i fedeli islamici sunniti. Non è un mistero che Erdogan stia da tempo tentando di allargare l’influenza turca, cercando di replicare in versione moderna l’esperienza dell’impero ottomano. Ankara, infatti, non ha accolto bene la notizia dell’accordo, ma la sua reazione, basata sul tradimento della causa palestinese, ne scopre l’ipocrisia e le scarse argomentazioni a disposizione; la Turchia, un tempo vicina ad Israele, vede aumentare il peso politico delle diplomazie del Golfo capaci di portare, certamente per un vantaggio comune, il paese israeliano dalla propria parte. Ma internamente ai protagonisti di questo accordo non tutto è senza problemi: sul lato arabo il protagonismo del principe degli Emirati Arabi Uniti, segnala la crescita di un nuovo protagonista politico rispetto alla posizione del principe ereditario dell’Arabia Saudita, compromesso in varie vicende lesive del proprio prestigio, tuttavia questa contrapposizione potrebbe complicare i legami con Israele della totalità dei paesi del Golfo, anche se è più probabile che gli interessi geopolitici comuni avranno la meglio. Dal lato israeliano, a parte i problemi con i palestinesi, si deve registrare la contrarietà dei coloni e dei partiti che li sostengono per avere interrotto il processo di annessione delle colonie, il solo programma elettorale che ha consentito a Netanyahu la sua longevità politica, nonostante i diversi problemi giudiziari. Tuttavia i partiti di destra che sostengono i coloni, sembrano diventare più marginali nell’ottica degli interessi della sicurezza nazionale e l’apparente voltafaccia del presidente israeliano sembra essere l’ennesima mossa di grande esperienza politica.

L’emigrazione dalle coste tunisine segnala l’assenza di un progetto comunitario per i flussi migratori

Le rotte migratorie verso l’Europa, che provengono dal Mediterraneo meridionale hanno visto un progressivo spostamento delle basi di partenza dalla Libia verso la Tunisia. I motivi di questa variazione sono diversi e sono riconducibile ad una maggiore attività di repressione da parte dei libici sui migranti che cercano di partire dalle loro coste, una impreparazione delle autorità tunisine a fare fronte a questo nuovo fenomeno che li riguarda ed, infine, l’incremento dell’emigrazione specificatamente tunisina verso l’Italia. La situazione economica della Tunisia a causa della pandemia è la vera emergenza alla quale sono connessi questi ultimi sviluppi. Il calo di attività del settore tessile ha registrato una percentuale diminuita del 17%, mentre nel turismo, che rappresenta una delle maggiori voci di entrata la contrazione è stata del 30%; ciò ha comportato un notevole calo del prodotto interno lordo e l’aumento esponenziale della disoccupazione. Aldilà del fatto che la diminuzione dell’economia sta riguardando la globalità del pianeta, la necessità di forme di cooperazione con gli stati della sponda meridionale del Mediterraneo dovrebbe essere al centro di un progetto dell’Unione, che, invece, non esiste, mentre l’iniziativa viene lasciata ai singoli stati più vicini alle situazioni di emergenza. Eppure l’investimento darebbe ritorni sia economici, sia sul piano della sicurezza, che su quello della politica; infatti una regolazione del traffico migratorio, oltre che offrire garanzie sulla stessa sicurezza delle persone, potrebbe togliere argomenti alle formazioni populiste ed anti europee.  Queste riflessioni sono funzionali al fenomeno dell’emigrazione per motivi economici, che riguarda la Tunisia, ma dovrebbe essere estesa anche ad altri paesi africani, proprio come strategia preventiva. Diverso è il caso di chi scappa da guerre e carestie e finisce preda dei trafficanti economici, che operano dalle coste libiche. L’atteggiamento dei governi occidentali, specialmente quelli italiani, si è indirizzato alla delega del controllo del fenomeno al governo libico, che non ha mai garantito il rispetto dei diritti umani ed, anzi, lo ha violato palesemente anche grazie ad armamenti forniti proprio dall’Italia. La consapevolezza dell’uso della violenza per in contenimento del fenomeno migratorio mette i governi italiani, sia quello attuale, che quello precedente, in una posizione di almeno tollerare i metodi libici, che non può essere condivisa. D’altronde questo motivo, quello della violenza libica, può essere proprio una delle cause dello spostamento delle basi di partenza verso le coste della Tunisia, dove lo stato non è preparato ad affrontare il fenomeno. Il governo italiano ha minacciato di togliere i contributi, si parla di oltre sei milioni di euro, alla Tunisia, ma si tratta ancora una volta di misure contingenti, come lo è l’elargizione del contributo, che sono avulse da un piano più articolato, ampio e di lungo periodo, per il quale occorre l’Unione Europea come protagonista principale, sia dal punto di vista finanziario, che politico. Il caso tunisino dimostra anche che la repressione da sola e come unico metodo di contrasto all’immigrazione illegale non è sufficiente, perché le soluzioni che la marea umana può trovare sono sempre diverse ed investono sempre nuovi soggetti, che, magari prima erano fuori dal contesto. Questo è ancora più vero perché i numeri del fenomeno migratorio si mantengono più o meno sugli stessi valori, sia che la partenza sia della coste libiche, che da quelle tunisine. Quindi il margine di manovra per iniziare un progetto di contenimento basato sugli aiuti potrebbe partire da dati certi e, forse, con investimenti inferiori di quelli dati alla Turchia per contenere la rotta balcanica, ma che non sarebbe una soluzione di emergenza ma un progetto di collaborazione dove anche gli stati di partenza potrebbero usare gli aiuti per uno sviluppo economico e non per le armi, fatte passare come strumento di controllo, lo sono anche, certo, ma anche strumento militare funzionale al governo di turno.

Le ultime evoluzioni del conflitto libico

La guerra libica non accenna a fermarsi. Nonostante la proposta egiziana, da parte di un governo che è parte in causa del conflitto, di una tregua, i combattimenti continuano e la situazione attuale sembra essere favorevole alle forze di Favez al-Serraj e del governo di Tripoli. A perdere terreno è l’Esercito nazionale libico ed il suo leader Khalifa Haftar. In realtà il tentativo egiziano deve essere inquadrato nella logica del conflitto libico, che è diventato una sorta di guerra per procura, dietro la quale si celano interessi diversi ed anche superiori agli attori direttamente coinvolti. Al fianco di Tripoli si sono schierati la Turchia, sempre alla ricerca affannosa di creare una propria zona di influenza geopolitica ed il Qatar, che si muove per contrastare gli interessi dei suoi avversari nel Golfo Persico, mentre ad appoggiare l’Esercito nazionale libico ci sono Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita. L’interesse principale de Il Cairo è quello di estendere la propria egemonia nella parte libica confinante con il paese egiziano; ma l’avanzata di Tripoli sta frustrando questa aspirazione ed il tentativo, fallito, di cercare una tregua con lo scopo di guadagnare tempo dimostra come le aspirazioni egiziane debbano essere ridimensionate. Quella libica promette di essere una disfatta anche per gli stati occidentali, soprattutto per l’Italia, che vedrebbero diminuita la loro influenza in una zona strategica del Mediterraneo, sia per le questioni energetiche, sia perché la Libia è la porta dove passano i maggiori flussi di immigrazione clandestina verso l’Europa, un potere potenzialmente molto elevato in ottica di ricatto e capace di condizionare i delicati equilibri in essere tra i paesi dell’Unione Europea. L’osservato speciale è la Turchia, che dopo avere fallito il progetto di Erdogan di ricreare la zona di influenza ottomana, ritenta ad assumere un ruolo primario nel Mediterraneo capace di dargli una rilevanza da media potenza regionale. Vista dalla visuale europea l’intraprendenza turca appare pericolosa, perché, prima di tutto se viene associata alla attuale logica americana di sganciamento dal Mediterraneo, Ankara avrebbe la possibilità di esercitare il suo ruolo senza il contrappeso di Washington. Occorre ricordare che l’azione politica e militare della Turchia è contraddistinta da un uso spregiudicato di fondamentalisti e radicali islamici, come si è visto in Siria; anche in Libia la presenza di queste formazioni paramilitari costituisce l’appoggio principale al governo di Tripoli, il che indica una via di dubbio valore per la sicurezza degli investimenti europei e per quanto riguarda la possibile gestione dei flussi migratori. Per ora ad essere sconfitte, oltre all’Esercito nazionale libico, sono anche le milizie militari sopravvissute alla caduta di Gheddafi, che hanno costituito la principale causa dell’instabilità libica. Ma per inquadrare meglio la situazione generale occorre considerare anche il ruolo di Usa e Russia; i primi, già con la presidenza Obama e poi con quella di Trump, che ne è stata la continuazione in una politica estera senza cambiamenti, hanno preferito concentrarsi sul contrasto alla Cina nelle regioni del Pacifico e soltanto un nuovo presidente potrebbe invertire questa tendenza ridando al Mediterraneo la sua importanza nello scacchiere mondiale. Mosca, d’altronde, ha dimostrato di volere riempire il vuoto lasciato dagli americani e continuare ad esercitare il suo ruolo nell’area mediterranea già iniziato con la politica attuata in Siria. Proprio sul terreno siriano si è rivelata l’affinità tra Mosca ed Ankara, favorita dalle similitudini di Putin ed Erdogan, che è pronta a replicarsi sul terreno libico con una spartizione delle aree di influenza, con lo scopo principale di estromettere le nazioni europee. Quindi, se gli USA hanno abbandonato volontariamente la sponda meridionale del Mediterraneo, non è stato così per gli europei, che con una politica non unitaria e caratterizzata dall’incapacità di una gestione pratica e politica dei fatti della Libia, saranno i veri sconfitti, anche se non i soli, come si è visto per Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, che dimostrandosi meno capaci della Turchia hanno rivelato la loro debolezza militare e strategica, replicando la sconfitta siriana. Tuttavia i paesi arabi avevano l’intento, come Ankara, di aumentare la loro influenza e non verranno scacciati da una zona da dove si erano insediati, seppure con alterne fortune, fino dalla fine della seconda guerra mondiale, come accadrà per gli europei. Il grande torto dell’Unione Europea è stato quello di non impegnarsi in prima persona, ma soltanto con iniziative estemporanee e poco efficaci e, soprattutto non riuscire ad avere un obiettivo condiviso e non comprendere che il presidio della sponda meridionale del Mediterraneo doveva essere un presidio da mantenere ad ogni costo per gantire la tutela continentale energetica e preservare l’Europa dal ricatto migratorio.

Verso l'accordo UE-Libia per l'emigrazione

La Ue e la Libia hanno emanato un comunicato congiunto che annuncia la probabilità di una cooperazione per una fattiva soluzione del problema dell’emigrazione clandestina transitante dalle coste libiche. Il problema è spinoso quanto risaputo, da un lato la Libia usa la regolazione del flusso migratorio clandestino con l’intento di fare pressione sui paesi europei per strappare contratti e consenso internazionale, dall’altro lato del mediterraneo l’Europa si trova ad affrontare per provare a regolamentarlo, se non proprio a limitarlo, l’ormai principale canale via mare attraverso il quale i clandestini sbarcano sul vecchio continente. Le implicazioni sociali che ruotano agli accordi con la Libia sono più di una: innazitutto il trattamento riservato alla popolazione clandestina riservato dalle forze di Tripoli, è infatti risaputo con quali metodi vengono trattati i migranti e quindi la domanda che si deve fare la UE è se è moralmente lecito trattare da pari a pari con un governo che, perlomeno non usa metodi ortodossi, come più volte provato? E’ chiaro che si guarda la questione soltanto da questo punto di vista la risposta non può che essere negativa, ma esiste la questione pratica del rischio di essere inondati da carrette del mare con il povero carico di esseri umani allo sbaraglio. Gli stati devono governare questa questione anche perchè gli esecutivi sono sempre più sottoposti a pressioni da parte di gruppi certamente non disposti bene verso l’emigrazione clandestina, il problema è un serbatoio di voti potenziale e quindi la soluzione migliore è una gestione almeno regolata se non del tutto almeno nelle parti fondamentali direttamente dalla UE. Quello che viene previsto però prevede un piano che cerca di andare alla fonte dell’emigrazione, infatti lo stanziamento iniziale di 5 miliardi di euro per i paesi africani è destinato ad iniziare un programma di sviluppo che cerchi di favorire concrete possibilità di lavoro per i possibili migranti nei loro stessi paesi, questa via è l’unica percorribile anche se occorrerà controllarela destinazione effettiva dei finaziamenti. Per quanto riguarda la richiesta di Gheddati di 5 miliardi per stoppare i clandestini, è definitivamente tramontata, la Libia si accontenterà di 50 milioni di euro con l’impegno di un trattamento più umano dei migranti. Le premesse sono buone vedremo gli sviluppi.

Il solco tra le due sponde del Mediterraneo

Nel Mediterraneo il solco religioso, e quindi politico si fa più profondo. La sponda sud si sta caratterizzando per una crescente islamizzazione a scapito della laicità degli stati, anche in paesi tradizionalmente meno propensi ad un coinvolgimento religioso nelle sfere sociali e politiche si stanno affermando spinte integraliste tese ad influenzare la vita istituzionale. I casi sono diversi, tralasciando l’Algeria dove da tempo si si combatte con un’integralismo sempre più radicato, l’avanzata islamica prende campo in Egitto, paese tradizionalmente laicista, Libia, dove il fenomeno pare incanalato ad uso e consumo del dittatore Gheddafi, ma è comunque una spia del processo in atto e sopratutto Turchia dove in una elezione democratica ha vinto un partito che seppur democratico è dichiaratamente filo islamico. La progressiva avanzata nel campo istituzionale della visione islamica non fa che radicalizzare i rapporti tra gli stati del mediterraneo del nord e di conseguenza dell’Europa, tale ottica infatti non può non contrastare con gli standard sociali consolidati nei paesi dell’Unione. In realtà il problema è duplice, se da un lato complica le relazione tra gli stati, dall’altro la crescente immigrazione nei paesi europei da parte di popolazione di fede islamica pone, nel migliore dei casi il legislatore di fronte alla regolamentazione di situazioni nuove, passando attraverso alle questioni pratiche di ordine pubblico legate ad esempio alla mancanza di luoghi di culto, fino al controllo di elementi terroristici infiltrati in associazioni religiose. La visione più laicista e comunque di differente religione e cultura, anche se con gli opportuni e necessari distinguo che caratterizza i paesi occidentali non può non portare a tensioni sempre crescenti per tali motivi ed anzi la situazione è già su di una china piuttosto scivolosa; urge quindi una politica efficace e coordinata che prevenga una ulteriore degenerazione in un’ottica di accordo sia interno che esterno anche in relazione ai numerosi contratti commerciali che intercorrono tra le due sponde del Mediterraneo. Quello che pare necessario è un intervento diretto dell’Unione Europea che governi direttamente questi processi, ma ciò passa per forza da una politica estera dell’Unione sempre più centralizzata con la ovvia rinuncia allo spezzatino delle ventisette politiche estere ora in azione.

Europa sotto scacco

Tralasciando le prediche coraniche, i berberi con i loro cavalli, le hostess, la tenda, insomma tutto quello che non è stato e tutto quello che è stato definito folklore il punto cruciale della visita del leader libico è stato, di fatto, il prezzo richiesto all’Unione Europea per bloccare il traffico di migranti che hanno proprio in Libia una delle basi di partenza principali per raggiungere il lato meridionale dell’europa; mai in un caso come questo è appropriato parlare di prezzo, d’altronde gli arabi sono ottimi mercanti, dato che anche l’importo finale è già stato deciso: 5 miliardi di euro affinchè l’Europa non diventi nera, non dalla rabbia, come probabilmente è già successo, ma nera nei suoi abitanti che dovrebbero diventare la maggioranza se la Libia aprisse i suoi cancelli. A parte la portata culturale della minaccia, che finirà per alimentare le parti politiche più retrive con tutte le conseguenze possibili e facilmente immaginabili, il ricatto ha un suo perchè: il movimento migratorio è stimato attualmente nel tre percento  della popolazione mondiale ed è un numero destinato probabilmente a crescere data la crisi mondiale ed il sempre crescente fattore di destabilizzazione politica e sociale della maggior parte delle aree interessate al fenomeno. Va detto che la UE ha già avviato progetti pilota proprio con la Libia per contrastare l’emigrazione clandestina del valore di 50 milioni di euro annui, ma ora Gheddafi alza il prezzo per fermare quella che sembra una vera e propria bomba ad orologeria puntata verso l’Europa, che deve prendere al più presto iniziative tese a non restare sotto scacco del capo di stato libico. Difficile dire cosa si potrà fare, già è difficile dover ammettere solo di trattare con un regime che non tiene in alcuna considerazione i più elementari diritti dei migranti, come più volte accertato, ma la realpolitik la fa da padrona, tenendo conto che si deve trattare anche con uno dei maggiori fornitori di energia (da cui l’Italia dipende e con cui giocoforza deve fare i conti), l’impressione è che la sparata sia stata alta per ricavare ancora qualcosa da mettere nel budget degli investimenti interni di cui la Libia ha bisogno per accrescere le sue infrastrutture, tuttavia la prossima riunione UE dovrà per forza mettere in conto strategie e soldi per fronteggiare il problema.

La tattica di Israele con la Turchia

Dopo il deterioramento dei rapporti tra Israele e Turchia dovuti ai tragici fatti connessi al tentativo di forzare il blocco della striscia di Gaza, lo stato d’Israele ha puntato a rafforzare le relazioni con la repubblica Greca, tradizionale avversario della Turchia.  La mossa costituisce un classico delle relazioni internazionali, si avvicina il nemico del proprio nemico per rafforzare un legame verso un comune avversario.  Siamo nell’area immediatamente contigua al medio oriente, zona calda per definizione, il nuovo asse tra Israele e  Grecia (che ha riconosciuto Israele solo dal 1991)  rappresenta una novità nel panorama delle relazioni internazionali, sopratutto per il tradizionale rapporto di fiducia che lega Atene ai paesi arabi, i quali hanno già mosso le loro diplomazie per capire cosa sta succedendo.  D’altra parte il momento economico molto difficile della Grecia non permette di trascurare ogni strada possibile che permetta nuove opportunità, in questa ottica l’alleanza con Israele può aprire nuove ed ulteriori prospettive economiche con un nuovo partner. Israele, dal canto suo, guadagna un nuovo alleato alla sua causa e visibilità positiva in campo internazionale grazie, appunto, ad un nuovo accordo diplomatico di amicizia che rompe un isolamento relativo costituito da rapporti internazionali consolidati con sempre gli stessi partner. La Turchia per ora nono commenta questa nuova alleanza che sembra rivolta contro di lei.