Durante la prima presidenza di Trump, la situazione era diventata molto chiara: gli USA non avevano più intenzione di sostenere la gran parte delle spese militari per difendere l’Occidente e ciò era stata una occasione mancata, per colmare l’inconsistenza della difesa europea, con un programma mirato di spese militari, capace di portare all’autonomia in fatto di difesa la struttura dell’Unione Europea, sempre nel quadro più ampio dell’Alleanza Atlantica. Trump, sia nel suo programma elettorale, che nel suo discorso di insediamento, ha di nuovo ribadito il concetto, perché si è trovato di fronte ad una situazione non cambiata, seppure all’interno di un contesto internazionale profondamente mutato. Queste critiche sono state riconosciute come vere anche dall’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione, che ha sottolineato come sia arrivato il tempo di investire, perché, come afferma Trump, Bruxelles ed i suoi membri non spendono abbastanza. Durante la conferenza annuale dell’Agenzia per la difesa, è emerso il dato che rappresenta la spesa media per le spese militari per gli stati dell’Unione, peri all’1,9% del prodotto interno lordo, quando la Russia, il pericolo più vicino ha investito il 9% del proprio prodotto interno lordo, sebbene in una situazione di conflitto bellico. La scarsità di spesa rappresenta un segnale pericoloso per eventuali aggressori. Attualmente le spese minime stabilite dall’Alleanza Atlantica prevedono il 2%, ma stime ragionevoli prevedono un innalzamento ad almeno il 3-3,5% del prodotto interno lordo. La direzione rivendicata dall’Alto rappresentate per gli affari esteri, l’estone Kalla Kallas, è quella di fare adottare all’Europa una posizione più decisa nei confronti della spesa militare, per potere assumere una maggiore quota diretta di responsabilità per l’Unione, nei confronti della propria sicurezza. La nomina della politica estone rappresenta un segnale chiaro ed inequivocabile, da parte della Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, perché si tratta di una esponente appartenente ad una nazione al confine con la Russia e che ne teme le azioni, oltre al fatto che il suo paese, l’Estonia contribuisce con il 3,43% del proprio prodotto interno lordo alle spese dalla NATO. Anche il presidente polacco, Donald Tusk, che con il suo paese contribuisce al 4% della spesa militare dell’Alleanza Atlantica, sostiene, che la provocazione di Trump, debba essere intesa come una sorta di sfida positiva, perché un alleato più forte ha una voce più consistente nei rapporti con gli USA e può procedere verso una maggiore autonomia e sicurezza, verso le sfide geopolitiche che, potenzialmente potranno verificarsi.
Categoria: Scenari futuri
L’Alleanza Atlantica ha necessità di maggiori investimenti
Quello che il Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, ha fatto, durante il suo discorso al Parlamento europeo, è sembrato un vero proprio appello alla collaborazione dei paesi dell’Unione. Quasi una richiesta di aiuto, che più esplicita non poteva essere. L’imminente avvento di Trump, rappresenta una aggravante decisiva di uno stato delle cose già difficile e complicato. La situazione attuale non è quella di una pace vera e propria, anche se non è neppure presente uno stato di guerra; tuttavia il conflitto ucraino è alle porte dell’Europa e la situazione dell’impegno economico dei membri UE è ancora lontano da quel due per cento del prodotto interno lordo, che ormai è ritenuto insufficiente per mantenere l’Alleanza Atlantica ad un livello adeguato per rispondere alle criticità potenziali presenti sulla scena internazionale. Se la richiesta di Trump, di portare al 5% del prodotto interno lordo di ogni singolo membro dell’Alleanza, appare come un dato arrotondato molto per eccesso, una valore ragionevole potrebbe essere quello del tre per cento, cioè un punto percentuale in più rispetto all’attuale, peraltro raggiunto soltanto da pochi membri. Se oggi la situazione è ritenuta più o meno sicura, dopo la presidenza Trump, potrebbe non essere più tale. Anche se la minaccia del presidente eletto è stata quella di abbandonare l’Alleanza Atlantica, questa evenienza, soprattutto per ragioni economiche, è ritenuta remota, ma più probabile è ritenuto possibile che gli USA possano attuare un disimpegno, in modo da concentrarsi sui temi del presidio dell’area pacifica, zona essenziale per combattere la Cina. L’Europa, pur in un quadro generale di presenza dell’Alleanza Atlantica, deve portare un maggiore contributo e rispondere agli accordi sottoscritti per portare al 2% del PIL la spesa militare; ma troppi stati sono ancora lontani da questo obiettivo. Oltre alla necessità di raggiungere la quota stabilita, occorre una maggiore razionalizzazione nel modo di spendere per gli acquisti militari, facendo acquisiti congiunti, in grado di garantire maggiori economie di scala e una integrazione sempre più efficiente tra le varie forze armate, in assenza di una componente militare sovranazionale, che appare sempre più necessaria, per avere un maggiore raggio di manovra e di autonomia, seppure sempre all’interno dell’Alleanza Atlantica. Parallelamente è necessario sviluppare quegli strumenti atti a contrastare la guerra ibrida necessari per contrastare l’azioni di soggetti quali Russia, ma anche Cina, che tendono a condizionare la vita politica e sociale degli stati europei. La disinformazione costituisce una debolezza dell’Europa, così come l’arma dell’immigrazione irregolare funziona come fattore di destabilizzazione interna ed esterna, arrivando a mettere in difficoltà le istituzioni europee nei loro centri di comando. Le vicende ucraine hanno interrotto una situazione di stallo, dove la ragione dell’esistenza delle forze armate, nei paesi europei, era cambiata verso un utilizzo di forze di pace e di interposizione in zone critiche, ma comunque lontane dal territorio europeo. Con l’invasione russa in Ucraina, i ministeri della difesa si sono resi conto dell’inadeguatezza dell’impostazione delle loro forze armate, che avevano superato i concetti di guerra sul campo, con la conseguenza del cambiamento anche dei rispettivi arsenali. I cicli dell’economia che si sono ripetuti negli ultimi periodi non sono stati mai positivi e contraddistinti da assi livelli di crescita, una situazione che ha favorito la contrazione delle spese militari, lasciando potenziali di difesa molto bassi. Se, da un lato si possono comprendere le remore a spendere nel settore militare, anche considerando le tesi dei pacifisti ad oltranza, resta un fatto che la minaccia russa rappresenta un dato concreto, con il quale è impossibile non tenere conto, anche per le pericolose alleanze di Mosca con la Corea del Nord e l’Iran e quindi con aree contigue al terrore internazionale. Quello che si deve affrontare non è soltanto una minaccia chiara, ma un universo opaco di nemici indistinti, contro i quali devono essere elaborate strategie efficaci. La proposta francese, di effettuare le spese militari verso aziende europee, ha una valenza diretta a privilegiare una maggiore coesione dei paesi europei, ma potrebbe incontrare le resistenze di Trump, quindi occorrerà trovare un equilibrio in grado di soddisfare le richieste politiche, ma anche le legittime aspirazioni europee, perché sul lungo periodo, anche per gli USA un’Europa militarmente più autonoma, sarà un vantaggio anche per Washington e non solo per Bruxelles.
Se cade l’Ucraina, la Russia potrebbe avanzare verso i paesi NATO
Il mancato successo della contro avanzata di Kiev ha provocato i giustificati allarmi per un attacco di Mosca verso i paesi europei ed appartenenti all’Alleanza Atlantica; secondo i tedeschi un successo in Ucraina potrebbe portare i russi a decidere una avanzata verso un paese vicino della Russia: i maggiori indiziati sono i paesi baltici, ma anche in Polonia la tensione è in aumento. Queste analisi non rappresentano una novità: il ministero della Difesa tedesco, ha da tempo elaborato una previsione di un possibile attacco al fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, che potrebbe avvenire entro il 2025. La condizione necessaria perché questa previsione possa avverarsi è la vittoria russa in Ucraina, nel febbraio 2024 è prevista una forte mobilitazione, capace di portare al fronte 200.000 soldati, per poi lanciare una offensiva primaverile decisiva per le sorti del conflitto a favore di Mosca. Se questo scenario dovesse avverarsi, Putin potrebbe decidere di avanzare verso obiettivi contigui, anche se restano alcuni dubbi sulle reali capacità di reintegrare rapidamente gli arsenali russi. Anche la possibilità di una avanzata soltanto parziale avvantaggerebbe il Cremlino, perché potrebbe convincere Kiev alla decisione di concedere qualcosa alla Russia per evitare la perdita completa dei territori contesi, mentre l’Unione Europea potrebbe ammorbidire il proprio atteggiamento per evitare l’arrivo di un gran numero di rifugiati, in grado di destabilizzare i fragili equilibri interni. L’utilizzo di forme di guerra ibrida come attacchi informatici, verso Bruxelles e la ricerca di pretesti con i paesi baltici, completerebbero l’azione russa; in particolare Mosca, potrebbe ripetere la tattica operata prima della guerra in Ucraina, quando furono sobillate le popolazione russe nelle zone di confine, cosa che potrebbe di nuovo accadere con i russi residenti in Estonia, Lettonia, Lituania ed anche Finlandia e Polonia; ciò rappresenterebbe la scusa per effettuare manovre congiunte, sui confini di questi stati, coinvolgendo anche l’esercito bielorusso. Questi pericoli sono ben presenti nella visione dell’Alleanza Atlantica, un ulteriore fattore di preoccupazione, rispetto all’Ucraina, è che, in un potenziale attacco russo, vi è una variabile geografica importante costituita dalla regione di Kaliningrad, territorio russo compreso tra Polonia e Lituania, senza continuità territoriale con la madrepatria. Per Mosca, dal punto di vista strategico la conquista del così detto corridoio di Suwalki, che collega direttamente i paesi baltici agli alleati della NATO, sarebbe prioritario. Schierare truppe e missili a corto e medio raggio nella regione di Kaliningrad permetterebbe al Cremlino di lanciare un’offensiva, che in grado di vittoria unirebbe la regione isolata all’alleato bielorusso. La coincidenza delle elezioni presidenziali americane è ritenuta un altro fattore a favore di Putin: la Russia, potrebbe attaccare nel momento elettorale o di passaggio dei poteri, compromettendo i tempi di reazione della maggiore forza militare dell’Alleanza Atlantica; anche una possibile elezione di Trump viene vista come una facilitazione per i russi, che potrebbe portare ad un disimpegno americano perfino all’interno della NATO, senza che l’Unione Europea sia ancora in grado di sostenere l’attacco di Mosca. Su questo tema il ritardo di Bruxelles è sconfortante, la mancanza di un esercito comune, unito alla mancanza di una azione comune in politica estera, lascia la UE disorganizzata di fronte alle emergenze mondiali e, in più, la continua divisione tra gli stati membri crea una mancanza di coesione fortemente deleteria ad un progetto di difesa comune non dipendente dalla presenza USA. Parlando di numeri la previsione è di uno schieramento di circa 70.000 militari russi sul territorio bielorusso, al confine con gli stati baltici entro il marzo 2025, a questo contingente l’Alleanza Atlantica ha già previsto una risposta sostanziosa di circa 300.000 uomini a protezione del corridoio lituano, per difendere l’integrità degli paesi baltici, ma si tratta di numeri ingenti, che potrebbero riaprire la strada alla coercizione obbligatoria del servizio militare, che molti stati prevedono di ripristinare, proprio per controbilanciare i numeri russi. Il fenomeno della guerra incentrato sui modelli della prima e seconda guerra mondiale, che sembrava superato dallo schieramento degli armamenti super tecnologici, sembra possa ritornare prepotentemente sovvertendo ogni previsione. Per evitare questo scenario è importante sostenere l’Ucraina in tutto e per tutto per contenere le ambizioni di Putin ed impedire la terza guerra mondiale.
Le migrazioni come fattore di impatto sugli equilibri geopolitici e come dinamica europea
Uno degli effetti della pandemia, strettamente connessa all’aumento della miseria, è l’incremento delle migrazioni di persone con modalità irregolari, verso l’Europa; gli ultimi dati segnalano livelli numerici preoccupanti e tali da rendere sempre di maggiore difficoltà la gestione del fenomeno. Questi dati, inoltre, indicano che la tendenza della pressione migratoria non potrà che essere in aumento nel futuro, sia prossimo che di medio e lungo periodo, proprio per gli squilibri della diseguaglianza generati dalla pandemia, che vanno ad unirsi alle ragioni pregresse delle migrazioni: conflitti, carestie e fenomeni atmosferici causati dal riscaldamento globale. Queste cause sono ben conosciute dagli analisti e dai politici, ma presso l’Unione Europea resta un atteggiamento quasi passivo, caratterizzato dall’assenza di una visione comune, per la mancanza di strumenti efficaci da parte di Bruxelles e per interessi ed impostazioni politiche contrastanti, che, di fatto, impediscono un approccio unitario e risolutivo del problema. Il 2021 ha segnato un aumento di circa il 57% di arrivi, rispetto all’anno precedente, segnato dall’insorgere dalla pandemia, ma proprio gli effetti del covid hanno provocato una maggiore concentrazione della ricchezza a svantaggio dei paesi poveri ed è una delle cause dell’aumento della povertà estrema di oltre 800 milioni di persone, che generano sempre maggiori bisogni di cercare alternative al proprio stato di indigenza. A contribuire alle migrazioni vi è anche l’uso della pressione sull’Unione Europea proprio attraverso l’utilizzo delle rotte migratorie come fattore di ricatto ai paesi occidentali e come strumento per aumentare la divisione dei contrasti tra i membri di Bruxelles. Per ultimo è stato il dittatore bielorusso ad utilizzare questi metodi, rifacendosi a quanto già fatto dai libici e dagli egiziani, tra gli altri. L’impressione è che questo uso politico sfrutti la quantità delle migrazioni indirizzandole, ma non incida più di tanto sul dato numerico complessivo quanto sull’utilizzo di rotte migratorie piuttosto che altre; tuttavia si tratta di una insorgenza che a livello politico dovrebbe stimolare una maggiore compattezza tra i membri europei ed invece sortisce l’effetto opposto. Si tratta di un elemento da non sottovalutare affinché l’Europa non diventi vittima passiva di strumenti che sono vere e proprie sanzioni di tipo asimmetrico, contro le quali il sentimento di identità nazionale di sovranisti o della condotta dei paesi dell’est Europeo, alla lunga, possono poco, proprio perché vanno a compromettere la convivenza tra i membri dell’Unione. Certamente il fatto di usare esseri umani in grande difficoltà pone questioni su come intrattenere rapporti con chi usa questi strumenti, ma anche con chi rifiuta un aiuto umanitario che pare innegabile ed improrogabile. Ciò, quindi, evidenzia la necessità, sempre più impellente, di creare percorsi protetti per i profughi e condizioni e regole che possano favorire una migrazione regolare, sia per ragioni umanitarie, che pratiche e cioè governare il fenomeno senza subirne le conseguenze ed i ricatti; in questo modo si può disinnescare la strumentalizzazione da parte delle dittature e dei trafficanti di uomini. Per arrivare a questa determinazione occorre costruire un progetto condiviso o agire sulla regola dell’unanimità che da troppo tempo condiziona le decisioni dell’Unione, anche perché ragioni pratiche sono sempre più urgenti per combattere l’invecchiamento progressivo della popolazione e la conseguente mancanza di manodopera necessaria alle industrie europee. Prendere atto di questa esigenza armonizzandola dal punto di vista legale per assicurare legalità e sicurezza ai cittadini europei, potrebbe essere un buon motivo per convincere i movimenti più scettici e più propensi ad un atteggiamento di chiusura. Aldilà delle ovvie ragioni umanitarie, regolare autonomamente da parte dell’Unione il fenomeno migratorio avrebbe solo dei vantaggi per Bruxelles e potrebbe contribuire alla consapevolezza europea di grande potenza, necessaria per esercitare il ruolo da protagonista che l’Unione deve recitare sullo scenario globale, come soggetto indipendente, ma anche come punto di equilibrio tra concorrenti sempre più in grado di mettere in pericolo la pace mondiale. I fenomeni migratori sono molto di più che emergenze umanitarie, e basterebbe solo questa ragione per cercare di risolverle, ma sono diventate strumento geopolitico e sono intimamente connesse con temi di portata generale come la necessaria riduzione delle diseguaglianze e la lotta ai cambiamenti climatici. Quindi affrontare singolarmente questo tema è una urgenza da trattare soltanto nel breve periodo, ma nel medio e nel lungo occorre un progetto globale, anche per prevenire lo spopolamento e l’ulteriore impoverimento di intere nazioni ed in questo solo l’Europa è in grado di essere il soggetto protagonista, anche perché è l’unico.
Gli USA temono l’aumento dell’arsenale nucleare cinese
La difficoltà, già accentuata dalle rispettive posizioni in campo geopolitico e commerciale, tra gli USA e la Cina, rischia un pericoloso peggioramento per le preoccupazioni manifestate da Washington per la proliferazione nucleare portata avanti da Pechino, nel quadro del potenziamento delle armi atomiche dell’esercito cinese. Le aspirazioni da grande potenza della Cina, secondo il presidente ed il governo comunisti, possono concretizzarsi anche attraverso l’incremento dell’arsenale nucleare, che è diventato centrale nella politica tattica militare del paese. Gli analisti americani hanno individuato la costruzione di una serie di silos per il lancio delle testate nucleari, dislocate in diverse regioni cinesi. Attualmente le testate nucleari di Pechino sarebbero stimate in circa 350 unità, una quantità ancora molto inferiore alla disponibilità di paesi come Stati Uniti e Russia, in particolare Washington sarebbe in possesso di circa 4.000 testate, pari al 90% di tutte le armi nucleari presenti sul pianeta; tuttavia, secondo il Pentagono, l’incremento cinese sarebbe notevole, dato che fino ad un anno prima le teste cinesi erano 200: un aumento, quindi, di 150 unità in 365 giorni. Un aspetto che preoccupa il Congresso americano sono le modalità di segretezza con cui la Cina procede nel suo piano di sviluppo degli armamenti nucleari, materia che Pechino ritiene strategica per potere competere a livello globale, soprattutto con gli USA, ma anche con avversari regionali come l’India. Questa situazione, che pone la Cina al centro dell’attenzione della politica internazionale, arriva nel momento in cui Mosca e Washington si accingono ad incontrarsi per i negoziati su come evitare una nuova rincorsa agli armamenti nucleari. Se, alle già presenti difficoltà tra le maggiori potenze nucleari per trovare una soluzione alla non proliferazione delle armi atomiche, si aggiunge il crescente attivismo cinese, si può comprendere come la situazione futura sia potenzialmente molto pericolosa. In presenza di un terzo attore che incrementa il proprio arsenale al di fuori di ogni regola, sia Usa che Russia potrebbero sentirsi prive di vincoli e sviluppare nuovi armamenti. La tattica cinese è ormai prevedibile, le accuse agli Usa sono ormai una noiosa ripetizione: quella di vedere un nemico immaginario per distogliere l’attenzione dalle sue problematiche interne. La Cina si dice disponibile a colloqui bilaterali sul tema della sicurezza strategica a condizione che si tengano su basi di uguaglianza e ciò appare impossibile dato il grande squilibrio degli arsenali atomici a favore di Washington. Se gli USA vedono un reale potenziale pericolo, le singole ragioni cinesi, osservate da un osservatore neutrale, appaiono giustificate in ragione della volontà di recuperare almeno parte del terreno perduto sugli armamenti nucleari; rovesciando la visuale è lecito domandarsi come gli Stati Uniti, ma anche la Russia (sempre in vantaggio sulla Cina), risponderebbero ad una richiesta di Pechino di diminuire il proprio arsenale. La questione è che si è usciti da una logica di diminuzione generale delle testate nucleari, perché queste armi, in questo momento storico, rappresentano di nuovo, come durante la guerra fredda, un deterrente psicologico per un equilibrio, però di gestione molto più difficile in un mondo non più bipolare ma multipolare, anche se caratterizzato da due potenze principali, comunque contornate da potenze regionali di grande rilevanza strategica. La vera sfida sarebbe quella di includere la Cina in colloqui a livello mondiale sul tema del disarmo, ma non come comprimario, bensì con la giusta dignità di grande potenza che Pechino desidera a livello politico; ciò, sicuramente, non risolverà il problema della proliferazione ma potrebbe permettere l’avvio di un dialogo su questo tema, anche con lo scopo di migliorare le rispettive relazioni. Vista con la visuale occidentale la proliferazione nucleare cinese non può non essere un fattore altamente preoccupante, dato che si tratta comunque di una paese governato da una dittatura e che tramite il soft power esercitato in altre zone del mondo ha evidenziato una volontà di esportare il proprio modello politico; certamente ciò non può funzionare con l’occidente ed il sospetto che dietro l’aumento del proprio arsenale militare ci sia l’intenzione di esercitare una pressione è quasi una certezza. Ma proprio per questo è importante scongiurare ogni possibile deriva ed l’ulteriore peggioramento delle relazioni: altrimenti il rischio di situazioni tese sarà sempre più probabile.