Iraq terreno di scontro tra USA ed Iran

L’Iraq, nonostante la sottovalutazione della stampa, è destinato a diventare un fronte molto importante del conflitto mediorientale e, specificatamente, del confronto tra USA ed Iran. La situazione, che le autorità irakene hanno definito di violazione della propria sovranità, ha visto reciproci attacchi tra Washington e Teheran, condotti proprio sul suolo dell’Iraq. L’Iran non sopporta la presenza militare americana ai suoi confini, sul suolo irakeno il regime degli Ajatollah è presente con milizie filo-iraniane, finanziate da Teheran, la cui presenza è ritenuta strategicamente importante, nel quadro delle azioni contro l’occidente ed Israele. Tra i compiti di queste milizie ci sono atti di disturbo contro le forze americane e quelle della coalizione contro i jihadisti, presenti sul suolo irakeno. Recentemente queste operazioni militari, in realtà già in corso da ottobre, hanno colpito basi americane con droni e razzi, provocando feriti nel personale statunitense e danneggiamenti delle infrastrutture delle basi. Pur senza la firma iraniana gli attacchi sono stati facilmente ricondotti a Teheran e ciò ha aggravato una situazione di contrasto capace di degenerare in maniera pericolosa. Gli USA hanno risposto, colpendo le Brigate Hezbollah, presenti sul territorio irakeno in una regione al confine con la Siria, provocando due vittime tra i miliziani; tuttavia altre vittime si sarebbero registrate in milizie scite, che sono entrate a fare parte dell’esercito regolare irakeno. Queste ritorsioni americane hanno suscitato le proteste del governo di Bagdad, che è stato eletto grazie ai voti degli sciiti irakeni e che teme la reazione dei propri sostenitori. L’accusa di violazione della sovranità nazionale, se appare giustificata contro le azioni di Washington, dovrebbe valere anche contro Teheran, in quanto mandante degli attentati contro le installazioni americane e, allargando il discorso, anche contro i turchi, che hanno condotto più volte azioni contro i curdi, cosa, peraltro imitata dagli iraniani. La realtà è che la situazione attuale in Iraq, ma anche in Siria ed in Libano, da parte degli israeliani, vede una continua violazione delle norme del diritto internazionale in una di serie di guerre non dichiarate ufficialmente, che sfuggono alla prassi prevista dalla legislazione internazionale. Questa situazione presente il rischio maggiore di una estensione del conflitto mediorientale, capace di provocare la deflagrazione di una guerra dichiarata, come fattore successivo a questi episodi, purtroppo sempre più frequenti, di conflitti a bassa intensità. Lasciare l’Iraq fuori da un conflitto appare determinante per evitare un conflitto mondiale, la posizione geografica del paese, tra le due maggiorie contrapposte potenze islamiche, porterebbe ad un confronto diretto, che avrebbe come prima conseguenza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la possibilità, per Teheran, di avvicinare le sue basi missilistiche ad Israele. Uno dei maggiori protagonisti, per evitare questa pericolosa deriva è il primo ministro iracheno Mohamed Chia al-Soudani, che pur godendo dell’appoggio dell’elettorato sciita, ha bisogno di preservare i legami tra Bagdad e Washington. In realtà questi legami, nelle intenzioni del premier irakeno dovrebbero essere soltanto di natura diplomatica, giacché circa la presenza della coalizione militare internazionale, il capo dell’esecutivo ne ha più volte sottolineato il ritiro per favorire le condizioni di stabilità e sicurezza dell’Iraq. La questione è però di difficile soluzione: con la presenza di milizie finanziate ed addestrate nel paese, l’Iraq rischia di perdere la propria indipendenza, garantita proprio dalla presenza delle forze occidentali; se il paese irakeno cadesse nelle mani di Teheran sarebbe un grosso problema di natura geopolitica per Washington, che deve per forza mantenere il proprio presidio sul suolo irakeno, fatto rafforzato dalla questione di Gaza, che ha provocato le azioni degli Houti e l’autoproclamazione da parte di Teheran di difensore dei palestinesi, nonostante la differenza religiosa. Bagdad è diventata così una vittima indiretta della situazione che si è creata a Gaza, dopo avere attraversato tutta la fase della presenza dello Stato islamico, peraltro ancora presente in determinate zone. Per disinnescare questo rischio occorrerebbe uno sforzo diplomatico della parte più responsabile di quelle in causa: gli USA; tale sforzo diplomatico dovrebbe essere diretto, non tanto verso l’Iran, ma verso Israele per fermare la carneficina di Gaza, favorire gli aiuti alla popolazione, anche con l’utilizzo di caschi blu dell’ONU ed accelerare, anche in maniera unilaterale la soluzione dei due stati, l’unica capace di fermare l’escalation internazionale ed eliminare ogni scusa per creare i presupposti dell’instabilità regionale.

La deriva di Netanyahu

L’affermazione del premier israeliano Netanyahu, che si è detto contrario alla formazione di uno stato palestinese, dopo la fine della guerra, espressa in modo così esplicito, chiarisce ulteriormente la strategia del governo israeliano sulla reale intenzione dell’espansione sui territori rimasti ai palestinesi. Evidentemente le rassicurazioni sulla permanenza a Gaza dei suoi abitanti, anche se decimati, sono solo state solo formali; il rischio concreto è che, poi, queste intenzioni riguardino anche la Cisgiordania. Netanyahu continua da affermare che la guerra sarà ancora molto lunga, ma si tratta di una tattica evidentemente attendista, che aspetta l’esito delle prossime consultazioni americane: infatti una vittoria di Trump, favorirebbe l’esecutivo al potere a Tel Aviv ed allontanerebbe i guai giudiziari del premier israeliano. La prospettiva, però, include uno stato di guerra permanente, con il rischio di allargarsi in maniera più grave su più fronti e coinvolgere più attori, come già avviene, ma in maniera più massiccia. Questo atteggiamento ha suscitato profonde critiche dagli USA, secondo Biden la situazione israeliana può essere normalizzata soltanto con la creazione di uno stato palestinese, argomento sostenuto anche dagli stati arabi, con l’Arabia Saudita che ha posto questa condizione per il riconoscimento dello stato di Israele; ma anche soltanto la proposta di un cessate il fuoco è stata respinta dall’esecutivo di Tel Aviv, con la motivazione che rappresenterebbe una dimostrazione di debolezza nei confronti dei terroristi. All’interno del rifiuto della creazione di uno stato palestinese, vi è anche il rifiuto di conferire il controllo di Gaza all’Autorità nazionale palestinese. Con queste premesse sono, però, lecite alcune domande. La prima è che le elezioni presidenziali negli USA si terranno il prossimo novembre: fino ad allora con Biden in carica la distanza fra Tel Aviv e Washington rischia di accentuarsi sempre di più ed il rischi per Netanyahu è quello di vedere l’appoggio americano ridursi, una eventualità mai accaduta nella storia dei rapporti tra i due paesi, che potrebbe indebolire la leadership nel paese ed anche la capacità militare; certamente Biden deve calcolare bene fino a che punto può spingersi, per non prendere decisioni con ricadute sul suo consenso elettorale, ma la prospettiva di un indebolimento di Israel sul piano internazionale appare molto concreta. La guerra di Gaza ha provocato un allargamento del conflitto concreto, che ha saputo coinvolgere altri attori, tanto che la situazione di conflitto regionale è ormai un fatto acclarato. Il quesito riguarda la responsabilità di Israele per la reazione ai fatti del 7 ottobre, nei riguardi della sfera internazionale. La situazione che si è venuta a creare con gli attacchi degli Houti nel Mar Rosso, che ha provocato gravi danni economici al commercio internazionale, l’intervento palese dell’Iran, con reciproche minacce con Israele e la questione degli Hezbollah, che hanno provocato il coinvolgimento del Libano e della Siria, ha delineato in modo netto una situazione che era, grave, ma ancora a livello contenuto. Il peggioramento ha portato e porterà al coinvolgimento anche di attori non ancora direttamente presenti sullo scenario medio orientale, con un incremento della presenza degli armamenti e delle azioni militari, tale da rendere fortemente instabile la situazione. Un incidente oltre che possibile è altamente probabile e ciò potrebbe scatenare un conflitto, non più per interposta persona, ma con il coinvolgimento diretto, ad esempio di Israele contro l’Iran; questa eventualità appare più vicina di sempre e le esplicite minacce non aiutano a favorire una soluzione diplomatica. La questione centrale è se l’occidente ed anche il mondo intero può permettersi che esista una nazione con una persona del tipo di Netanyahu al potere, certamente Israele è sovrano al suo interno, ma non ha saputo dirimere la situazione giudiziaria di un uomo che resta al potere con tattiche spregiudicate, che usano indifferentemente l’estrema destra ultranazionalista, le tattiche attendiste, le false promesse e la condotta violenta, più vicina all’associazione terroristica che vuole combattere, piuttosto che ha quella di uno stato democratico. L’opinione pubblica israeliana sembra succube di questo personaggio e le poche voci di dissenso non bastano a fermare questa deriva. Pur essendo legittimo combattere Hamas i modi non sono quelli giusti, oltre ventimila vittime sono un bilancio troppo elevato, che nasconde l’intenzione di una annessione di Gaza, come nuova terra per i coloni; questo scenario avrebbe effetti catastrofici, che soltanto la pressione internazionale, anche con l’uso di sanzioni, e l’attività diplomatica può evitare. Anche perché una volta presa Gaza il passaggio alla Cisgiordania sarebbe soltanto una conseguenza, come una conseguenza logica sarebbe la guerra totale.  

L’attivismo paternalista egiziano con Hamas, serve a guadagnare consenso interno ed estero

L’impressione che la mediazione egiziana abbia sortito un effetto positivo sul confronto tra Israele e palestinesi di Hamas, sembra avere avuto un effetto positivo per il regime de Il Cairo. In realtà il contributo egiziano, che è stato comunque presente, ha contribuito solo in parte a fermare i bombardamenti israeliani, che duravano da 11 giorni, ed i lanci di razzi dalla striscia di Gaza; tuttavia il presidente Al Sisi ha ricevuto il pubblico apprezzamento del presidente americano, ha incontrato il presidente francese ed il ministro degli esteri egiziano ha potuto riscuotere i complimenti della Germania e dell’Unione Europea. Al regime egiziano deve essere riconosciuta una certa abilità, più che altro, per sapere utilizzato a proprio vantaggio una situazione contingente, che gli può permettere di rivendicare la propria rilevanza diplomatica nella regione, cercando di fissare un calendario per la questione della pace. Si tratta di una occasione unica per uscire da uno stato di isolamento causato dall’applicazione di pratiche sempre più repressive all’interno del proprio territorio. L’obiettivo egiziano è quello di coordinare, attraverso la sua diplomazia, la gestione della pace attuale, mediante incontri sempre più frequenti con Israele, Hamas e l’Autorità Palestinese per mantenere il cessate il fuoco grazie ad una tregua durevole e favorire la riconciliazione palestinese, come primo punto per procedere ad un eventuale dialogo con Tel Aviv. L’Egitto si è impegnato finanziariamente alla ricostruzione nella striscia di Gaza con un investimento di 500 milioni di dollari, diventando così l’interlocutore principale per Hamas, anche grazie al mantenimento dell’unico accesso non controllato da Israele, attraverso il quale fare pervenire aiuti umanitari, anche provenienti da paesi terzi. Risulta chiaro, che tutta questa strategia è funzionale ad una sorta di pulizia dell’immagine del regime, che, però, sta dimostrando di eccedere nella sua retorica paternalistica, quasi replicando l’atteggiamento tenuto in pratica, peraltro tipico dei regimi autoritari. La storia del rapporto tra Al Sisi ed Hamas ha registrato momenti di crisi proprio con la presa di potere del dittatore egiziano a causa della repressione del movimento dei Fratelli Musulmani, particolarmente vicini ad Hamas, tuttavia Il Cairo ha bisogno di Gaza  e Gaza ha bisogno de Il Cairo, ed il legame tra le due parti appare obbligato, anche se nelle carceri egiziane continuano ad essere imprigionate diverse persone che hanno collaborato con lo stesso Hamas. Su questa contraddizione il movimento islamico palestinese per il momento deve soprassedere per motivi di evidente necessità, ma è legittimo pensare, che sul lungo periodo, questa causa non potrà che essere motivo di contrasto. L’Egitto, comunque, è il socio forte dell’alleanza e può condurre i rapporti in ragione del suo appoggio ad Hamas, con l’obiettivo primario di rendere funzionale questo legame ed i suoi effetti, come garanzia per la sostenibilità della dittatura, soprattutto sul fronte interno, ma non disdegnando neppure  i risvolti positivi che possono essere guadagnati anche dall’esterno. La logica rientra in uno schema classico sempre valido per le dittature: guadagnare consenso internazionale, anche parziale, attraverso una azione diplomatica degna di una democrazia: fattore che permette di nascondere le malefatte interne ed assumere posizioni quasi essenziali, soprattutto se in determinati contesti non ci sono attori internazionali alternativi che possano e vogliano garantire il proprio impegno, come il recente scontro tra Israele e Palestina ha dimostrato. D’altra parte l’aspetto umanitario è un fattore che suscita molta sensibilità nelle democrazie, specie in quelle occidentali: se l’entità degli aiuti è innegabile, le modalità, fortemente esibite, attraverso striscioni che pubblicizzavano il regalo ai palestinesi da parte del presidente egiziano, non hanno suscitato particolari entusiasmi nella popolazione, che ancora ricorda l’opera di distruzione, operata dagli egiziani, dei tunnel palestinesi nel 2013. Ogni parte, quindi fa di necessità virtù, ma il significato di questa collaborazione è che i palestinesi non possono rifiutarla perché ne hanno estremo bisogno, mentre per l’Egitto può significare una delle ultime possibilità per cercare di migliorare la propria immagine verso l’esterno, non rendendosi conto di svolgere un ruolo che doveva essere un compito delle Nazioni Unite e delle democrazie occidentali, che, in definitiva, stanno usando Il Cairo ripagandolo con un piccolo apprezzamento, che è, in realtà, una finzione vera e propria.

Biden deve diventare protagonista nella questione israelo-palestinese

Le sollecitazioni della sinistra del partito democratico, verso il presidente degli Stati Uniti, per una presa di posizione differente verso Israele, rappresentano una novità a livello istituzionale, dovuta alla crescente rilevanza nel partito ed al contributo fornito per l’elezione di Biden alla massima carica americana. Sono una novità istituzionale per la numerosa presenza in parlamento della sinistra, ma non sono una novità nel dibattito politico statunitense, perché una consistente quota sociale di elettori democratici si è sempre espressa contro le violenze di entrambe le parti, ma con particolare attenzione verso Israele a causa del mancato rispetto degli accordi, della negazione della soluzione dei due stati e della violenza, che ha causato spesso vittime tra i civili. Biden, però, si è ritrovato con una situazione creata da Trump, che ha avuto vita facile per la mancanza di vincoli lasciati da Obama. Il precedente presidente americano ha privilegiato il rapporto con Netanyahu, sia per affinità personale, che politica, indirizzando la politica americana in maniera totalmente sbilanciata verso Israele, fornendo la sua legittimazione agli insediamenti delle colonie e riconoscendo Gerusalemme come capitale dello stato israeliano. La crisi irrisolta della politica di Israele, che deve continuamente fare ricorso ad elezioni i cui risultati restano inalterati e non permettono una risoluzione della situazione, non aiuta il paese, ma nemmeno i suoi alleati, dove, gli USA restano i principali, anche dopo il cambio alla Casa Bianca. Netanyahu è un politico spregiudicato e sta usando la situazione contingente per impedire di essere sfrattato dal governo e di essere travolto da una situazione giudiziaria sempre più compromessa. Biden, già nelle sue intenzioni durante le elezioni, ha fatto lo stesso errore di Obama: privilegiare l’impegno nel sud est asiatico ritenuto più importante e strategico, sia dal punto di vista geopolitico, che da quello economico, tralasciando l’attenzione sulla situazione mediorientale e compiendo così un errore di valutazione importante. La repressione israeliana contro la striscia di Gaza ha provocato un maggiore impegno finanziario iraniano, che permette al gruppo terroristico di disporre di armamenti avanzati, come dimostrato in questi giorni e, soprattutto il fatto di essere finito sotto l’influenza di Teheran. L’atteggiamento di Israele sta compattando il mondo sunnita a seguito dell’attivismo turco: Ankara, pur rientrando nell’Alleanza Atlantica, si sta muovendo in maniera autonoma con finalità spesso in contrasto con gli interessi occidentali. L’Europa conferma la propria piccolezza politica ed i suoi stessi leader appaiono confusi ed impegnati in dichiarazioni di sola prammatica. Il quadro generale non è quindi dei migliori per il Presidente USA, tuttavia la situazione, proprio perché così incerta, obbliga la prima potenza mondiale ad assumere una posizione netta e non titubante: è un atto dovuto di fronte allo scenario internazionale, ma anche una risposta alle pressioni di una parte consistente e politicamente rilevante del suo partito, che comprende anche parte del centro. Negli USA il riconoscimento con Israele dei cittadini americani di religione ebraica è in discesa e ciò può favorire un maggiore convincimento verso un’azione capace di tutelare i diritti di entrambe le parti ed assumere una condanna permanente verso le violenze che comprendono i civili. Quello che è mancato finora a Biden è stata un’azione diplomatica capace di andare oltre i soliti interlocutori, ma in grado di coinvolgere anche Hamas, che sebbene sia considerata un’organizzazione terroristica è una parte direttamente in causa del conflitto. Le implicazioni della vicenda israelo-palestinese devono restare centrali nella politica americana, proprio per prevenire situazioni analoghe a quelle vissute in Siria e recentemente in Turchia, dove l’assenza americana ha permesso il sopraggiungere di nuovi protagonisti, capaci di cambiare gli assetti e gli equilibri regionali. L’azione di Iran, Turchia e Russia è contraria agli interessi americani, occidentali e, sul lungo periodo agli stessi israeliani e palestinesi; rilanciare la soluzione dei due stati, attraverso la pressione su Tel Aviv per indurla a rispettare gli accordi e porre fine alla politica degli insediamenti e dello scarso rispetto dei cittadini arabi dello stato di Israele, resta la maggiore assicurazione per disinnescare Hamas e chi lo finanzia e dare finalmente una stabilità alla regione; del resto proprio tra gli ebrei del mondo cresce il favore verso questa soluzione e se Biden saprà farsene interprete, potrà scrivere sul proprio curriculum un risultato finora mai raggiunto che sarà il fattore più importante in politica estera della sua azione presidenziale.

I motivi della crisi di Gerusalemme est

Ci sono una serie di fattori concomitanti che concorrono all’attuale situazione di tensione presente a Gerusalemme est; la presenza di cause che contribuiscono ad alimentare lo stato attuale è presente in maniera maggiore all’interno della parte israeliana, ma anche in quella palestinese vi sono elementi che contribuiscono a dare instabilità all’intera questione. Partendo dalle cause israeliane appare impossibile non considerare le principali responsabilità della crescita politica ed anche elettorale dell’estrema destra nazionalista, che ha fatto del proprio programma di rendere la nazione israeliana uno stato ebraico uno strumento di forzatura all’interno del dialogo politico del paese; dialogare con questa parte politica appare impossibile, se non con l’intento di usarla in maniera funzionale ai propri scopi e, quindi, cedendo di fronte alle sue richieste per assicurarsene l’appoggio. Questa strategia politica è stata alla base dell’azione di Netanyahu, che l’ha usata senza troppi scrupoli, pur, talvolta non condividendo del tutto l’impostazione della destra nazionalista, per arrivare al suo scopo fondamentale: quello di restare al potere in ogni modo. Visto da questa angolazione, il fatto di avere sacrificato i residenti arabi, legittimi abitanti delle colonie occupate, e, quindi, la soluzione dei due stati, mai del tutto ufficialmente negata, e, di conseguenza, la pace e la stabilità del paese, conferma la sua mancanza di scrupoli e l’inadeguatezza di governare un paese al centro delle grandi questioni internazionali. Si deve anche considerare il fatto contingente della attuale situazione giudiziaria di Netanyahu: essere sotto inchiesta per corruzione, frode ed abuso d’ufficio, rende necessario spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da queste questioni legali e dal fatto che l’ex premier non è stato in grado di formare il nuovo governo, rendendo evidente la sua responsabilità del continuo stato di paralisi della politica israeliana: l’aumento delle tensioni nei territori occupati e la centralità della questione di Gerusalemme est, sono considerate ottimi strumenti per operare la distrazione di massa. Nella disputa su Gerusalemme est vi è anche un grande assente: la società israeliana nel suo complesso, restia a prendere posizione e schierarsi contro le azioni provocatorie del governo di Netanyahu, rivelando, così, una certa assuefazione alla politica di omologazione operata dalla retorica della destra nazionalista ed in generale dalla tendenza degli ultimi governi israeliani; ben diverse sono state le reazioni delle chiese ortodosse e cristiane, che hanno condannato fermamente le repressioni e gli sfratti che hanno dovuto subire le famiglie palestinesi allontanate da Gerusalemme est. Pur non potendo essere inquadrate all’interno della dialettica della politica israeliana, in questo momento le leadership cristiane ed ortodosse rappresentano la voce contraria più autorevole all’operato del governo di Tel Aviv, presente in Israele. La situazione attuale sembra ricalcare quello già accaduto con l’inizio della seconda intifada, causata dall’atteggiamento provocatorio di Sharon, che ha molte analogie con quello attuale di Netanyahu. La considerazione politica più importante da fare è che se l’espropriazione del quartiere palestinese di Gerusalemme est avrà successo, la conseguenza immediata sarà la fine della possibilità della soluzione della formula dei due stati, mentre dal punto di vista legale l’azione israeliana è ancora una volta una violazione del diritto internazionale ed occorre chiedersi fino a quando la comunità internazionale intenderà non chiedere conto a Tel Aviv delle sue azioni. Da parte palestinese la mancanza più grave è stata quella di Abu Mazen e della sua parte politica di reprimere ogni dissenso, fino ad arrivare al rinvio delle elezioni per non perderle, le consultazioni elettorali palestinesi non hanno luogo da 15 anni e ciò ha impedito una normale dialettica politica tra le varie componenti palestinesi, obbligando a rivolgere il dissenso arabo soltanto contro Israele. Dal punto di vista della politica internazionale l’attuale questione rischia di ricompattare il mondo sunnita, che ha ripreso a dialogare cercando di superare le rispettive diffidenze: l’attivismo del ministro degli esteri turco ha permesso la ripresa del dialogo della Turchia con l’Arabia Saudita e con l’Egitto, malgrado le profonde differenze di visuale ed un argomento al centro dei colloqui sarà senz’altro stato la questione palestinese, che rischia di tornare prepotentemente alla ribalta, anche come fattore di coesione ulteriore del mondo sunnita: un elemento in più di preoccupazione sia per gli USA, troppo silenti fino ad ora, e per lo stesso Israele, che rischia un peggioramento dei rapporti con l’Arabia.

La Turchia rafforzando il suo controllo nel nord della Siria, vuole aumentare la sua influenza nel mondo sunnita

Le forze armate turche sono penetrate in territorio siriano, senza dichiarare alcuno stato di belligeranza contro Damasco, fin dal 2016 con la ragione ufficiale di contrastare le milizie dello Stato islamico, milizie che, si sospetta, erano state utilizzate da Ankara in funzione anti Assad, con motivazioni da ricondurre anche nella contrapposizione tra sciiti e sunniti. In realtà da subito è apparso chiaro che l’obiettivo era scongiurare il pericolo curdo sulle frontiere turche; la presenza degli abitanti di queste zone, fino a quel momento era contraddistinta da una maggioranza di etnia curda e dalla presenza del Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione considerata come terroristica, non solo da Ankara, ma anche da Bruxelles e Washington. Il fatto che i curdi avessero rappresentato le truppe operative sul campo contro lo Stato islamico, fatto che ha permesso di non coinvolgere soldati occidentali direttamente sul terreno, non è bastato per guadagnare la tutela degli americani, che li hanno sacrificati ad una alleanza, come quella con la Turchia, sulla quale si nutrono molti dubbi sulla reale opportunità, visti i recenti sviluppi presi dalla presidenza Erdogan. In ogni caso i dati delle Nazioni Unite parlano di più di 150.000 curdi costretti a lasciare le proprie terre da quando nel 2018 le azioni dell’esercito turco, insieme all’esercito nazionale siriano, un insieme di milizie islamiste e contrarie al regime di Assad, si sono sviluppate nelle zone a ridosso della frontiera con il territorio di Ankara. La composizione etnica dell’esercito nazionale siriano è interessante perché è formata da circa il 90% di arabi e dal restante 10% di turkmeni e si inquadra perfettamente nella strategia turca di rimpiazzare l’originaria popolazione curda con etnie più favorevoli ad Ankara, una pratica analoga a quella esercitata da Pechino in Tibet e nello Xinjiang, dove la popolazione locale che non si è assimilata al processo di integrazione viene sostituita, mediante deportazioni e pratiche di rieducazione coatta, dall’etnia cinese Han; inoltre le milizie dell’esercito nazionale siriano, secondo diverse organizzazioni umanitarie, si sono rese colpevoli di crimini di guerra, tra cui rapimenti di funzionari curdi, che sarebbero poi finiti nelle carceri turche. Occorre ricordare che le forze militari turche occupano circa il 60% del territorio siriano che è sulla frontiera turca e la sostituzione della popolazione, con profughi siriani di etnia araba, è la logica conseguenza della strategia di rendere sicure le proprie  frontiere meridionali, un programma che ha permesso ad Erdogan di superare problemi di politica interna, quali la crisi economica e la protesta contro l’islamizzazione della società e che ha goduto, seppure con sfumature differenti, dell’appoggio sia della destra estrema al governo, che delle forze di opposizione. Dal punto di vista internazionale la presenza turca viene vista in diversi ambienti come un deterrente per la presenza e l’azione russa e degli sciiti, sostanzialmente un fattore di stabilizzazione della questione siriana. La Turchia non si è limitata ad un impegno militare, ma ha investito ingenti somme nella costruzione di infrastrutture, come scuole ed ospedali ed ha allacciato la propria rete elettrica a quella dei territori occupati, mentre la moneta circolante è diventata la lira turca. Occorre specificare che l’azione turca sta incontrando diversi pareri positivi, che devono essere collocati all’interno dei sentimenti favorevoli all’azione pan-islamica di Ankara, che sempre più coincide con il progetto di Erdogan di un nuovo corso ottomano, che veda la Turchia al centro di un sistema aldilà dei propri confini, sul qual esercitare la propria influenza, anche in alternativa nella stessa area sunnita al prestigio saudita o egiziano. I territori curdi ora occupati, secondo il diritto internazionale, non potranno entrare nella effettiva sovranità turca, tuttavia è ragionevole pensare ad una collocazione sul modello della parte turca di Cipro e dell’Azerbaijan, che sono nella sfera di influenza di Ankara. La domanda è quanto la Turchia è disposta ad andare avanti in queste pratiche e quanto ciò non sia influente sul giudizio del mantenimento di Ankara all’interno dell’Alleanza Atlantica, i cui scopi sono apparsi ormai troppo spesso in contrasto con la Turchia. Rimane la profonda valutazione negativa del comportamento di Ankara nei confronti dei curdi, quale esempio di trasgressione delle norme del diritto internazionale, al quale, prima o poi si dovrà trovare una sanzione adeguata a livello generale.  

Il governo di Netanyahu verso la sfiducia

Israele rischia di andare alle elezioni per la quarta volta in due anni: la preoccupante eventualità è dovuta alla decisione del leader del partito Blu Bianco, al governo, seppure controvoglia, con Netanyahu, di votare la sfiducia all’esecutivo, presentata dal partito di opposizione che si è formato dalla scissione del partito Blu Bianco proprio a causa della decisione di creare il governo di coalizione attualmente al potere. Sono passati appena sette mesi dall’insediamento dell’attuale esecutivo basato su equilibri troppo fragili e sul quale Netanyahu a costruito la sua ennesima tattica di sopravvivenza politica, con il chiaro intento di sfuggire alle imputazioni di frode, corruzione ed abuso di potere, che hanno generato ben tre distinte procedure giudiziarie. L’accusa politica a Netanyahu, che, invece, ha determinato il voto favorevole alla sfiducia, riguarda il mancato rispetto degli impegni concordati per mantenere in vita il governo di coalizione. Il leader del partito Bul Bianco, l’ex capo di stato maggiore israeliano, ha tuttavia lasciato una possibilità per evitare la caduta del governo: permettere di approvare la finanziaria nei tempi prestabiliti. Questa mossa rappresenta un vero e proprio ultimatum per Netanyahu, dato che la mancata approvazione entro il 23 dicembre del bilancio dello stato, provocherà lo scioglimento del parlamento israeliano. Il significato è quello di smascherare il capo del governo, mettendo in chiaro le sue reali intenzioni di procrastinare la durata del governo o optare per una nuova tornata elettorale in grado di rinviare i guai giudiziari. Il tentativo di Netanyahu, di mantenere in vita il governo è apparso un puro esercizio di retorica: appellandosi ai compiti da portare a termine, impossibili da completare in un clima elettorale, la sua volontà di mantenere in vita il governo non è apparsa del tutto convinta, d’altra parte già dall’ultima campagna elettorale la distanza tra i due schieramenti era molto ampia e solo la necessità di non apparire di fronte all’elettorato come formazioni politiche irresponsabili, aveva portato i partiti che formano l’esecutivo ad appoggiare un governo in cui non avevano creduto in maniera convinta. Netanyahu potrebbe cogliere anche una opportunità politica da nuove elezioni, soprattutto da quegli ambienti che vedono in modo positivo il suo attivismo in politica estera, capace di fare uscire Israele dall’isolamento regionale grazie agli accordi con gli stati arabi, non solo in funzione anti iraniana, ma anche con potenziali sviluppi commerciali capaci di aprire nuovi mercati alle esportazioni israeliane; occorrerà verificare, però, anche il peso della crescente opposizione a questi contatti ed il sempre attuale problema delle colonie. Il cambiamento che si verificherà nell’amministrazione americana, sarà un ulteriore fattore che potrebbe essere decisivo in un eventuale nuovo voto. Per l’attuale premier israeliano nuove elezioni sembrano comunque un azzardo, un rischio non proprio calcolato, perché il voto della sfiducia del principale partito del paese impedirebbe ulteriori alleanze politiche, seppure in un quadro elettorale che rischia di essere ancora una volta bloccato. Ci sono anche ragioni pratiche che impediscono il prosieguo della collaborazione: il partito Blu Bianco ha più volte sottolineato come il premier ha bloccato il rinnovo delle più alte cariche dello stato ed ha condotto le recenti azioni di politica estera, come l’incontro con il principe ereditario saudita, molto criticato in tutto il mondo per le sue azioni, senza avvertire gli alleati. Il comportamento di Netanyahu non è però nuovo e non sfugge ad una sua logica già applicata nei confronti dei palestinesi, fatta di rinvii funzionali e strategie di stop and go nelle trattative finalizzate a guadagnare tempo per approfittare di occasioni migliori. Anche questa volta il premier ha continuato con un comportamento analogo, impiegato però in politica interna, sottraendosi agli impegni presi con i partner di governo e confermando la totale inaffidabilità verso altri soggetti che non siano sé stesso; la principale congiuntura internazionale data dal cambio alla Casa Bianca, minaccia di essere l’ostacolo peggiore sul suo cammino, anche se è vero che è riuscito a sopravvivere ad Obama, dimostrando, alla fine la sua accortezza tattica. In un paese sempre più spaccato e con le inchieste giudiziarie in corso, la caduta del governo e le successive elezioni potrebbero mettere fine alla carriera politica di  Benyamin Netanyahu; sempre che non trovi l’ennesimo espediente per restare.

Arabia Saudita ed Israele sempre più vicine

La strategia della diplomazia saudita può segnare un punto a favore o una potenziale sconfitta il vertice, non riconosciuto ufficialmente, con il presidente israeliano ed il Segretario di stato statunitense, ormai alla fine del suo mandato? Che i contatti, ormai divenuti una alleanza ufficiosa, tra Israele ed Arabia Saudita siano cosa nota è risaputo, soprattutto in funzione anti iraniana, tuttavia il viaggio di un capo di stato israeliano accolto nella capitale saudita rappresenta una novità; anche se il segnale di smentire la veridicità dell’evento rappresenta la presenza  di un timore ancora esistente tra i politici arabi a rendere ufficiale  quello che potrebbe essere inteso come un passo ulteriore nei rapporti tra i due stati. Se l’Arabia ha mantenuto una riservatezza abbastanza esplicita, in Israele l’episodio non è stato accolto in maniera favorevole all’interno dello stesso governo in carica, per ragioni analoghe. Netanyahu, ufficialmente non ha comunicato agli altri membri del suo esecutivo, un governo non certo saldo a causa della sua composizione di compromesso, il viaggio in Arabia, peraltro subito individuato, grazie all’analisi di siti specializzati nell’analisi degli spostamenti aerei. Se per l’Arabia Saudita i timori possono coincidere con il mancato rispetto degli accordi della Lega Araba, che subordinano il riconoscimento di Israele alla nascita di uno stato palestinese entro i confini del 1967, per Tel Aviv si può intravvedere una manovra preventiva del presidente Netanyahu per anticipare accordi che la nuova amministrazione americana potrebbe non avvallare. Non è un mistero che sia Israele, che l’Arabia Saudita, avrebbero preferito una riconferma di Trump, sicuramente allineato agli interessi dei due stati e di una visione politica dove gli USA contrastavano l’azione iraniana nella regione. Una convergenza di interessi che potrebbe non coincidere con le intenzioni del nuovo presidente americano, se l’atteggiamento verso Teheran dovesse cambiare e l’accordo sul nucleare iraniano dovesse essere riconfermato, secondo quanto firmato da Obama. Anche la presenza dell’attuale Segretario di stato, non molto comprensibile se inquadrata nella scadenza del suo mandato, sembra volere conferire un valore preventivo di rottura con la politica futura degli Stati Uniti. Se i futuri rapporti diplomatici tra USA, Israele ed Arabia Saudita saranno più problematici, Trump ricorda alle due nazioni la sua personale vicinanza, anche in vista di un possibile ritorno per la competizione alla Casa Bianca tra quattro anni. In ogni caso avvalorare questo incontro, anche con tutte le smentite del caso, ha il significato di volere complicare l’azione politica futura della nuova amministrazione americana, presentando come dato acquisito un rapporto sempre più stretto tra Tel Aviv e Riyad sul quale il nuovo presidente dovrà lavorare, se vorrà dare un indirizzo diverso agli assetti regionali, per potere smorzare gli attuali potenziali pericoli di un confronto con l’Iran. Rendere ancora più pubblico il legame tra Israele ed Arabia Saudita è funzionale a Tel Aviv ad avere un rapporto quasi certificato con il massimo esponente sunnita, per presentarsi come alleato di questa parte di islam, con il duplice intento di avere il più alto numero di interlocutori possibile per tutelare i suoi interessi in patria all’interno delle gestione della questione palestinese e, nel contempo, essere un partner affidabile per gli interessi sunniti a livello regionale contro le manovre degli sciiti, quindi non solo contro l’Iran, ma anche contro Hezbollah in Libano, la Siria ed il troppo potere guadagnato contro i sunniti in Iraq. Per Riyad aumentare la vicinanza con Israele serve, oltre all’interesse comune contro Teheran, avere un sostegno contro l’avanzata della politica espansionista turca nei paesi islamici, in un confronto che si gioca tutto all’interno dell’area sunnita. Per l’Arabia Saudita esiste anche un problema, sempre più pressante, di accreditarsi presso l’opinione pubblica mondiale, dopo tutti gli investimenti e gli sforzi andati falliti a causa di una situazione interna ancora troppo grave per il continuo ricorso alla violenza, alla tortura ed alla repressione, che non permettono una considerazione adeguata di fronte agli altri paesi, se si esclude la potenza economica data dal petrolio. Riyad non può contare sull’esercizio di un proprio soft power, come ad esempio la Cina, e ciò la relega in una posizione di inferiorità e di scarsa considerazione, soprattutto in relazione ai paesi occidentali. Perdere un alleato come Trump aggraverà questa situazione diventando sempre più essenziale allacciare rapporti con più soggetti possibili, anche se scomodi come Israele.  

Le implicazioni dell’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti

Il principale significato dell’accordo, che formalizza una situazione già esistente ma ufficiosa, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, è quello di anticipare la possibile sconfitta di Trump e prevenire un nuovo accordo sul nucleare iraniano, che potrebbe rientrare nei piani di Biden nel ruolo di nuovo presidente degli Stati Uniti. La sicurezza nazionale israeliana vale molto di più che l’espansione in Cisgiordania, peraltro solo momentaneamente sospesa. L’interesse di prepararsi ad una possibile ritorno dell’Iran sulla scena diplomatica è condiviso con gli stati sunniti del golfo già da tempo, ma un accordo ufficiale rappresenta una novità di rilievo. Intanto perché rappresenta, probabilmente, solo un primo episodio al quale ne seguiranno altri: infatti ci sono grandi possibilità che Tel Aviv stringerà relazioni diplomatiche anche con l’Oman e con il Bahrain, dove è presente la sede della quinta flotta degli USA; i due paesi hanno espresso le loro congratulazioni con gli Emirati Arabi Uniti per l’accordo che rappresenta un rafforzamento della stabilità regionale. Lo stesso Netanyahu ha definito come circolo della pace della regione quella alleanza informale che sta diventando ufficiale tra Israele e monarchie del Golfo. In effetti la sorpresa per questi accordi non è giustificata perché rappresenta la naturale evoluzione di rapporti che si sono instaurati e sviluppati con il denominatore comune di creare un’alleanza in ottica anti iraniana. Al momento Teheran subisce le sanzioni americane ed è anche in difficoltà per la questione libanese, che vede Hezbollah, suo principale alleato, in netto calo di consensi anche tra gli stessi sciiti del Libano. Un cambio al vertice della Casa Bianca potrebbe migliorare la condizione iraniana, anche se non è scontato, con una direzione diversa della politica estera degli Stati Uniti: questo scenario obbliga Israele e gli stati del Golfo ad ufficializzare i rispettivi rapporti per facilitare la velocità e la coordinazione di eventuali risposte diplomatiche che si dovessero rendere necessarie. Apparentemente ad avere i maggiori svantaggi, perlomeno nell’immediato, sarebbero i palestinesi che vedono rompersi ufficialmente l’ostilità contro gli israeliani da parte del mondo arabo; in realtà Tel Aviv ha già accordi con Egitto e Giordania e da tempo i leader sunniti del Golfo mantengono soltanto un atteggiamento di facciata nei confronti della questione palestinese, a favore, appunto, di una condotta più pragmatica e funzionale ai propri interessi più immediati e diretti. Un ulteriore obiettivo degli accordi, oltre al già citato Iran, sarebbe anche la Turchia, che si sta proponendo come alternativa sunnita alle monarchie del Golfo, per guidare politicamente i fedeli islamici sunniti. Non è un mistero che Erdogan stia da tempo tentando di allargare l’influenza turca, cercando di replicare in versione moderna l’esperienza dell’impero ottomano. Ankara, infatti, non ha accolto bene la notizia dell’accordo, ma la sua reazione, basata sul tradimento della causa palestinese, ne scopre l’ipocrisia e le scarse argomentazioni a disposizione; la Turchia, un tempo vicina ad Israele, vede aumentare il peso politico delle diplomazie del Golfo capaci di portare, certamente per un vantaggio comune, il paese israeliano dalla propria parte. Ma internamente ai protagonisti di questo accordo non tutto è senza problemi: sul lato arabo il protagonismo del principe degli Emirati Arabi Uniti, segnala la crescita di un nuovo protagonista politico rispetto alla posizione del principe ereditario dell’Arabia Saudita, compromesso in varie vicende lesive del proprio prestigio, tuttavia questa contrapposizione potrebbe complicare i legami con Israele della totalità dei paesi del Golfo, anche se è più probabile che gli interessi geopolitici comuni avranno la meglio. Dal lato israeliano, a parte i problemi con i palestinesi, si deve registrare la contrarietà dei coloni e dei partiti che li sostengono per avere interrotto il processo di annessione delle colonie, il solo programma elettorale che ha consentito a Netanyahu la sua longevità politica, nonostante i diversi problemi giudiziari. Tuttavia i partiti di destra che sostengono i coloni, sembrano diventare più marginali nell’ottica degli interessi della sicurezza nazionale e l’apparente voltafaccia del presidente israeliano sembra essere l’ennesima mossa di grande esperienza politica.

Per la Siria potrebbero ripartire le trattative di pace

La pandemia ha rallentato i combattimenti in Siria e ciò ha favorito le due parti, il regime di Damasco ed i ribelli, ad intraprendere una ripresa dei negoziati di pace per porre fine ad un conflitto che è in corso da più di nove anni. Le Nazioni Unite, attraverso l’attuale mediatore, hanno annunciato un incontro a Ginevra, appena le condizioni sanitarie lo potranno permettere. Ciò significa che entrambe le parti intendono, in maniera congiunta, riprendere la strada del dialogo. Ciò potrebbe favorire anche la ripresa del cammino del Comitato costituzionale siriano, l’organismo formato da rappresentanti del governo di Assad, da componenti che sostengono i ribelli e da membri della società civile, che deve costruire i presupposti per una potenziale consultazione elettorale. Attualmente un accordo tra la Russia e la Turchia mantiene la sospensione delle ostilità, che è stata più o meno mantenuta. Le posizioni di Mosca ed Ankara, con i primi sostenitori del governo di Assad ed i secondi dei ribelli islamici, affiancati in ottica di contenimento delle forze curde, saranno fondamentali per capire come si potrà sviluppare un eventuale percorso di pace. Negli attori in campo rientrano anche l’Iran e gli Hezbollah, le forze siriane democratiche, appoggiate in maniera sempre meno intensa dagli Stati Uniti e la popolazione curda, che con le sue milizie ha avuto un ruolo fondamentale contro lo Stato islamico, ma, che dopo l’abbandono dell’appoggio degli USA, si sono riavvicinati al regime siriano, sulla base di comuni interessi contro la Turchia e le milizie ad essa alleate. Finito il sogno di uno stato curdo libero ed indipendente, frustrato dal cambio di atteggiamento di Washington per mantenere dentro l’Alleanza Atlantica un membro non certo fedele come il paese turco. Una ripresa delle trattative per la pace è anche una speranza per una popolazione martoriata da una situazione sanitaria, igienica ed economica molto precaria, già prima della pandemia, le cui vittime denunciate, peraltro sono state soltanto sessantaquattro. Una ulteriore variabile che peserà sullo sviluppo dei negoziati saranno i rapporti che Mosca e Washington vorranno instaurare sull’argomento. Bisogna ricordare che le Nazioni Unite riportano sotto la propria autorità un negoziato, che era uscito dal suo ambito, sostituito dal processo negoziale di Astana in Kazakistan, voluto da Mosca e Teheran, in appoggio del regime ed Ankara in rappresentanza di soltanto una parte dei ribelli. L’intento del negoziato di Astana era limitato al mantenimento dei confini stabiliti dalla posizione delle forze in campo, ma senza alcun contenuto politico in grado di consentire un assetto futuro stabile del paese siriano. Non vi era, cioè, una legittimità garantita soltanto dal patrocinio delle Nazioni Unite. Certamente questo è funzionale all’interesse concreto e pratico di Mosca a guidare gli investimenti necessari alla ricostruzione del paese attraverso fondi assicurati dalla stessa Russia e da finanziamenti provenienti dalla cooperazione internazionale. Naturalmente l’obiettivo politico principale del Cremlino è quello di consentire ad Assad il mantenimento del potere, nel ruolo, però, di subalterno di Mosca in ogni senso ed il mezzo economico per perseguire questo fine deve sostituire quello garantito dall’uso delle armi, ancora meglio se con il benestare delle Nazioni Unite. In ogni caso una pace sulla quale è lecito avere dei dubbi è meglio della continuazione di una guerra già troppo lunga; quello che dispiace è il ruolo delle Nazioni Unite che arrivano a suggellare uno stato di cose non voluto e non condiviso dal Palazzo di vetro, l’atteggiamento americano pavido ed opportunista ed anche non riconoscente con chi ha combattuto sul terreno al suo posto. Comunque vada la conclusione della guerra siriana, sempre che ci sia, non lascerà miglioramenti ne per il popolo del paese, ne per gli equilibri internazionali e neppure per la diffusione dei diritti civili e democratici.