Se cade l’Ucraina, la Russia potrebbe avanzare verso i paesi NATO

Il mancato successo della contro avanzata di Kiev ha provocato i giustificati allarmi per un attacco di Mosca verso i paesi europei ed appartenenti all’Alleanza Atlantica; secondo i tedeschi un successo in Ucraina potrebbe portare i russi a decidere una avanzata verso un paese vicino della Russia: i maggiori indiziati sono i paesi baltici, ma anche in Polonia la tensione è in aumento. Queste analisi non rappresentano una novità: il ministero della Difesa tedesco, ha da tempo elaborato una previsione di un possibile attacco al fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, che potrebbe avvenire entro il 2025. La condizione necessaria perché questa previsione possa avverarsi è la vittoria russa in Ucraina, nel febbraio 2024 è prevista una forte mobilitazione, capace di portare al fronte 200.000 soldati, per poi lanciare una offensiva primaverile decisiva per le sorti del conflitto a favore di Mosca. Se questo scenario dovesse avverarsi, Putin potrebbe decidere di avanzare verso obiettivi contigui, anche se restano alcuni dubbi sulle reali capacità di reintegrare rapidamente gli arsenali russi. Anche la possibilità di una avanzata soltanto parziale avvantaggerebbe il Cremlino, perché potrebbe convincere Kiev alla decisione di concedere qualcosa alla Russia per evitare la perdita completa dei territori contesi, mentre l’Unione Europea potrebbe ammorbidire il proprio atteggiamento per evitare l’arrivo di un gran numero di rifugiati, in grado di destabilizzare i fragili equilibri interni. L’utilizzo di forme di guerra ibrida come attacchi informatici, verso Bruxelles e la ricerca di pretesti con i paesi baltici, completerebbero l’azione russa; in particolare Mosca, potrebbe ripetere la tattica operata prima della guerra in Ucraina, quando furono sobillate le popolazione russe nelle zone di confine, cosa che potrebbe di nuovo accadere con i russi residenti in Estonia, Lettonia, Lituania ed anche Finlandia e Polonia; ciò rappresenterebbe la scusa per effettuare manovre congiunte, sui confini di questi stati, coinvolgendo anche l’esercito bielorusso. Questi pericoli sono ben presenti nella visione dell’Alleanza Atlantica, un ulteriore fattore di preoccupazione, rispetto all’Ucraina, è che, in un potenziale attacco russo, vi è una variabile geografica importante costituita dalla regione di Kaliningrad, territorio russo compreso tra Polonia e Lituania, senza continuità territoriale con la madrepatria. Per Mosca, dal punto di vista strategico la conquista del così detto corridoio di Suwalki, che collega direttamente i paesi baltici agli alleati della NATO, sarebbe prioritario. Schierare truppe e missili a corto e medio raggio nella regione di Kaliningrad permetterebbe al Cremlino di lanciare un’offensiva, che in grado di vittoria unirebbe la regione isolata all’alleato bielorusso. La coincidenza delle elezioni presidenziali americane è ritenuta un altro fattore a favore di Putin: la Russia, potrebbe attaccare nel momento elettorale o di passaggio dei poteri, compromettendo i tempi di reazione della maggiore forza militare dell’Alleanza Atlantica; anche una possibile elezione di Trump viene vista come una facilitazione per i russi, che potrebbe portare ad un disimpegno americano perfino all’interno della NATO, senza che l’Unione Europea sia ancora in grado di sostenere l’attacco di Mosca. Su questo tema il ritardo di Bruxelles è sconfortante, la mancanza di un esercito comune, unito alla mancanza di una azione comune in politica estera, lascia la UE disorganizzata di fronte alle emergenze mondiali e, in più, la continua divisione tra gli stati membri crea una mancanza di coesione fortemente deleteria ad un progetto di difesa comune non dipendente dalla presenza USA. Parlando di numeri la previsione è di uno schieramento di circa 70.000 militari russi sul territorio bielorusso, al confine con gli stati baltici entro il marzo 2025, a questo contingente l’Alleanza Atlantica ha già previsto una risposta sostanziosa di circa 300.000 uomini a protezione del corridoio lituano, per difendere l’integrità degli paesi baltici, ma si tratta di numeri ingenti, che potrebbero riaprire la strada alla coercizione obbligatoria del servizio militare, che molti stati prevedono di ripristinare, proprio per controbilanciare i numeri russi. Il fenomeno della guerra incentrato sui modelli della prima e seconda guerra mondiale, che sembrava superato dallo schieramento degli armamenti super tecnologici, sembra possa ritornare prepotentemente sovvertendo ogni previsione. Per evitare questo scenario è importante sostenere l’Ucraina in tutto e per tutto per contenere le ambizioni di Putin ed impedire la terza guerra mondiale.

L’Unione Europea apre a Ucraina e Moldova

Con un negoziato, che si potrebbe definire alternativo, l’Ungheria di Orban, optando per l’astensione costruttiva, come è stata fantasiosamente definita, ha permesso al Consiglio europeo di procedere con l’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione di Moldavia ed Ucraina. Dopo le ripetute minacce il presidente ungherese si è assentato dalla votazione, con una novità procedurale senza precedenti, che ha permesso di raggiungere il risultato approvato da ventisei paesi europei, che comprende anche l’avvio della candidatura della Georgia ed il rinvio a marzo della valutazione dell’iter di adesione della Bosnia-Erzegovina. Orban, unico leader europeo ad incontrare Putin dall’inizio del conflitto ucraino, si è sempre detto contrario all’inizio del processo di adesione di Kiev, sostenendo che non soddisfa le condizioni per entrare nella UE, tuttavia, a parte le affinità con il regime di russo e quindi politiche, Budapest potrebbe temere di condividere le risorse europee, che, di fatto, mantengono finanziariamente il paese magiaro, con i nuovi membri, con un conseguente decremento delle entrate provenienti da Bruxelles. Naturalmente l’astensione di Orban non è stata gratis: aldilà della minaccia di una richiesta di finanziamento di 50 miliardi per il funzionamento dell’amministrazione ungherese per il 2024, il presidente Orban si è “accontentato” dello sblocco di 10 miliardi di finanziamento, che erano stati bloccati per la violazione di diritti fondamentali da parte del governo di Budapest; diritti che non saranno certo ripristinati ed anche questo fatto costituirà un ulteriore pericoloso precedente per il funzionamento della politica europea, superabile, come sempre con la fine del voto all’unanimità, meccanismo da correggere sempre più urgentemente. L’impostazione del vertice è stata tutta rivolta al risultato, dove, appunto, si è preferito creare pericolosi precedenti per raggiungere lo scopo prefissato, con una visione politica, che ha dovuto necessariamente sacrificare qualcosa, ma che ha portato un risultato giustamente festeggiato. Se il processo andrà a buon fine la valenza politica sarà di sicuro successo, oltre che per l’allargamento della casa comune europea, anche per il contenimento geostrategico delle ambizioni russe. Non è altresì da sottovalutare il fatto di avere accolto le ambizioni della Georgia, che potrebbe diventare membro europeo senza continuità geografica con gli altri paesi membri e che potrà costituire un avamposto dell’Unione capace di attrarre altri paesi della regione. La decisione rafforza la credibilità ed il prestigio europeo, permettendo di interrompere l’offuscamento diplomatico, che Bruxelles ha dimostrato con decisioni non sempre troppo congruenti con i propri principi. Il presidente Zelensky, ha scongiurato una vittoria indiretta per Putin, che avrebbe alzato il morale di Mosca in caso di rifiuto verso l’Ucraina. L’apertura a Kiev significa un risultato politico inequivocabile a livello globale, che compensa, almeno in parte, il rifiuto del Congresso americano a sbloccare i 60 miliardi di dollari per gli aiuti militari; del resto la situazione ucraina nel conflitto con la Russia è di stallo, il fronte è immobile e non si sono registrati i progressi che il governo di Kiev aveva promesso all’occidente, mentre le armate russe sembrano resistere nelle loro posizioni. La decisione europea, unita alla promessa consistente da parte di alcuni singoli stati europei della fornitura di aiuti militari, può risollevare il morale ucraino; l’impegno di Kiev e di Mosca nei prossimi mesi invernali, dovrebbe essere quello di mantenere le posizioni e prepararsi per operazioni decisive quando le condizioni metereologiche potranno migliorare. In questo periodo l’impegno europeo può essere più incisivo anche in campo diplomatico, nonostante Putin abbia dichiarato che l’isolamento occidentale non ha prodotto grandi ripercussioni sull’economia russa e non abbia ulteriore necessità di mobilitare nuovo personale militare; queste dichiarazioni vanno interpretate in parte come giustificate dalle imminenti elezioni russe e d in parte dalla capacità di Mosca di essere stata capace di ritagliarsi un dialogo con potenze sia avverse agli USA, come l’Iran, che vicine a Washington, come  l’Arabia. L’Europa, quindi deve sapere interpretare un ruolo sempre più autonomo dagli USA, anche in preparazione di una malaugurata rielezione di Trump, di cui l’ammissione di Ucraina, Moldova ed anche Georgia, deve essere letto come un processo facente parte di un piano superiore capace di addensare i paesi europei in senso sempre più federale e politico con autonomia in politica estera e dotato di un esercito proprio, capace, cioè, di superare la logica finanziaria per potere interpretare realmente il ruolo di un soggetto internazionale di primaria importanza.    

La Russia di fronte alla questione tra Israele e Palestina

La posizione del Cremlino, fin dai tempi dell’URSS, è stata filopalestinese ed in questo contesto si deve collocare la visita di esponenti di Hamas a Mosca, non ricevuti da Putin, ma dal ministro degli esteri russo e, comunque, accolti, in maniera simbolica inequivocabile, nella sede del Cremlino, conferendo così il massimo grado di ufficialità e rilevanza dell’incontro. Si tratta di un chiaro segnale politico rivolto sia ad USA ed occidente, che allo stesso Israele. Mosca è coinvolta direttamente nella vicenda degli ostaggi, perché sono sei le persone sequestrate di nazionalità russa, di cui tre con doppia nazionalità; mentre il dato dei cittadini russi deceduti nei bombardamenti della striscia di Gaza arriva a 23 persone. Oltre ad Hamas, il ministro degli esteri russo ha confermato anche un prossimo incontro con il leader dell’Autorità palestinese. Malgrado la differenza di vedute con Hamas, contrario alla soluzione dei due stati, la Russia deve sfruttare il momento per riposizionarsi come attore rilevante nell’area mediorientale ed ha tutto l’interesse a mantenere le relazioni con tutti i soggetti coinvolti nella questione attuale. Se si vuole avere una visione più ampia circa gli interessi di Mosca nel vicino oriente, occorre considerare i rapporti particolari intrattenuti con Iran, Siria e lo stesso Israele. La volontà di Putin sarebbe quella di svolgere un ruolo di mediatore del conflitto, che potrebbe consentire alla Russia di uscire dall’attuale isolamento diplomatico, provocato dall’aggressione all’Ucraina.  L’azione di Mosca prevede di evitare il monopolio americano della gestione della crisi, anche attraverso le accuse a Washington di non avvallare le aspirazioni palestinesi ad un proprio stato e neppure le diverse risoluzioni dell’ONU, che hanno più volte condannato Israele. La proposta russa in sede di Consiglio di sicurezza non è stata accolta, perché non prevedeva la condanna di Hamas, ma la violenza contro tutti i civili di entrambe le parti, sottintendendo la violenza di Tel Aviv nei confronti di Gaza; questo ha provocato un deterioramento dei rapporti tra Russia ed Israele, che, tuttavia, non possono essere compromessi per ragioni comuni. Occorre ricordare che Israele non ha condannato la Russia per l’invasione ucraina e non ha neppure aderito alle sanzioni internazionali. Inoltre non ha fornito a Kiev, il cui presidente Zelensky è ebreo, il sistema antimissile normalmente usato per proteggersi dai razzi lanciati da Hamas. Nello stesso tempo la Russia non ostacola Israele nelle sue azioni di difesa contro Hezbollah, provenienti dalla Siria, nonostante la protezione che Mosca continua a fornire al regime di Damasco. Tel Aviv ha bisogno anche dell’aiuto di Mosca per contenere la politica iraniana nella regione, che è interesse comune in quanto Teheran proclama da tempo l’esigenza di eliminare lo stato ebraico ed attua questa strategia attraverso la sempre maggiore influenza su milizie integraliste sciite, Hezbollah e la stessa Hamas, perché, per certi versi, l’unico alleato possibile è proprio l’Iran, rimasto a sostenere materialmente la lotta di liberazione della Palestina, rispetto al ritiro sempre più evidente degli stati arabi sunniti nel supporto ai palestinesi. Teheran attua una politica di aiuti materiali nei paesi di Libano e Siria, che, specialmente per quanto riguarda Damasco può compromettere gli interessi russi, oltre la delicata stabilità regionale. Nei confronti del conflitto con Kiev, Mosca ha tutto l’interesse che l’attenzione internazionale si sposti sul medio oriente e per questo motivo il presidente ucraino è arrivato ad affermare che dietro gli attacchi di Hamas ci fosse proprio il paese russo. Avvallare questa ipotesi è molto difficile, l’azione di Hamas è stata preparata con tempi lunghi e forniture consistenti, che sembrano provenire da altri paesi. Resta però un fatto tangibile che questa crisi tra israeliani e palestinesi gioca a favore di Mosca, anche se l’attenzione dell’Alleanza Atlantica non è certo venuta meno, ma il maggiore impegno dei militari USA, soprattutto con mezzi navali, per proteggere Israele dall’Iran implica un impegno più diversificato ed anche l’azione diplomatica non è più concentrata solo sull’obiettivo europeo.

Le richieste di asilo aumentano in Europa

Nei primi sei mesi di quest’anno, le richieste di asilo verso i ventisette paesi dell’Unione Europea, sommati a Norvegia e Svizzera, hanno raggiunto la cifra di 519.000 domande, segnando un incremento di più 28%, rispetto al periodo di riferimento dello scorso anno. Di queste richieste il 30% riguardano la Germania, il 17% la Spagna ed il 16% la Francia. Con questi dati si potrebbe raggiungere tendenzialmente, la cifra di oltre un milione di richieste, numero analogo al dato record del 2016. Il 13% delle richieste di asilo proviene dalla Siria, pari a circa 67.000 persone, con un aumento, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, del 47%. Le cause di questa vera e propria migrazione sono da ricercare nell’aggravarsi della guerra civile, che ha causato il peggioramento delle condizioni economiche e l’ostilità dei turchi, che negli anni passati avevano assorbito gran parte dell’emigrazione proveniente da Damasco, contro la popolazione siriana. La rotta migratoria maggiormente seguita dai cittadini siriani è quella balcanica e ciò influisce sulle nazioni che raccolgono le richieste di asilo, come Bulgaria, con il 6%, ed Austria, con il 10%, anche se queste destinazioni rappresentano sempre più soluzioni di transito verso la Germania, che ha una percentuale di richieste del 62%, grazie al radicamento della comunità siriana, favorita, negli anni precedenti dalla cancelliera Merkel. Subito dopo la Siria, il secondo paese per domande di asilo è l’Afghanistan, con 55.000 domande; pur essendo un bacino migratorio che ha sempre assicurato quote sostanziose di migranti, la decisione degli USA di abbandonare il paese ha favorito il ritorno dei talebani, che, una volta al potere, hanno notevolmente compresso i diritti umani e praticato una politica economica disastrosa, che ha aggravato una situazione già difficile, costringendo il paese a reggersi, quasi esclusivamente, sugli aiuti umanitari internazionali. Mentre la provenienza dei migranti da zone africane ed asiatiche, non rappresenta una sorpresa, si registra un aumento delle richieste da zone dell’America latina, come Venezuela e Colombia, che insieme raggiungono il 13% delle domande, nella loro totalità praticamente dirette verso la Spagna, spiegando così la seconda posizione europea di Madrid, nella classifica delle richieste di asilo. Questi dati, molto preoccupanti, vengono registrati a poca distanza dalla chiusura del patto sull’immigrazione e a meno di un anno dall’appuntamento elettorale europeo. Le ormai consuete resistenze di Polonia ed Ungheria alla distribuzione dei migranti, aggravano la situazione interna dell’Unione Europea e mettendo in risalto la poca efficacia e lungimiranza delle politiche per regolare gli afflussi. L’accordo di Giugno tra i ministri degli esteri dell’Unione ha previsto una sorta di tassa, nella misura di 20.000 euro per persona all’anno, per quei paesi che si rifiuteranno di contribuire alla distribuzione dei migranti ed è stato condizionato dal voto contrario di Budapest e Varsavia; proprio in Polonia, ad ottobre, si effettuerà un referendum sul tema dell’accoglienza dei migranti, indetto dal governo di destra in carica. Ancora una volta Bruxelles si presenta con divisioni al proprio interno e senza sanzioni in grado di dividere il carico migratorio, presentandosi all’opinione pubblica mondiale debole e facilmente ricattabile dalle dittature anti occidentali, che usano il tema migratorio come vera e propria arma di pressione dell’Europa. Questo stato di cose determina, in un periodo dove la coesione occidentale è sempre più necessaria, un lato vulnerabile a discapito non solo dell’Unione, ma anche dell’Alleanza Atlantica. Accordi come quello tra Unione Europea e Tunisia, oltre ad essere poco efficaci, vengono firmati con regimi dittatoriali, che approfittano della debolezza singola, in questo caso dell’Italia, e globale di una istituzione che non riesce ad essere unita e che permette il prevalere degli interessi nazionali rispetto a quelli sovranazionali. Il caso italiano, vera e propria frontiera meridionale dell’Europa, chiarisce ancora di più la situazione: 65.000 arrivi pari al 140%, se confrontati con lo stesso periodo del 2022, eppure Roma riceve ben pochi aiuti dai membri dell’Unione, preoccupati a salvaguardare le proprie singole situazioni. Finché non sarà superata questa logica, con una situazione che sarà sempre più grave, per guerre, carestie ed emergenze climatiche, l’Europa e l’occidente saranno sempre sotto ricatto.

Orban non deve più stare nell’Unione Europea

Viktor Orban ha fatto un discorso ideologico, che lo pone più come potenziale alleato di Putin, che effettivo aderente all’Unione Europea, del resto il suo programma elettorale, che gli ha permesso la vittoria, è stato incentrato sulla contrarietà dell’Unione Europea, di cui, però, l’Ungheria gode dei robusti contributi. La mancanza di coerenza del politico magiaro, sembra coincidere con la maggioranza dei suoi concittadini, che sfruttano l’assurdo regolamento dell’Unione dell’approvazione dei provvedimenti sulla base dell’unanimità e non della maggioranza. Orban ha profetizzato prevedendo la dissoluzione dell’Unione Europea e la caduta degli USA; se il secondo sembra un augurio, per il primo la soluzione sarebbe facile: fare come la Gran Bretagna ed uscire da Bruxelles. Questa eventualità non rientra, però, nei piani di Orban, che, forse, si è dato il compito politico di facilitare la dissoluzione dall’interno, con i suoi assurdi comportamenti totalmente contrari ai valori fondativi dell’Unione Europea. Per Orban l’occidente è un insieme di stati ricchi ma deboli, che non hanno intenzione di affrontare la competizione con le potenze mondiali. Se, da un certo punto di vista, questa affermazione ha delle parti di verità, appare altrettanto vero che personaggi come il politico ungherese contribuiscono non poco ad una visione comune, che possa alzare il livello qualitativo di Bruxelles nei confronti delle maggiori potenze mondiali, infatti la visione di Orban definisce l’Europa come una sorta di ghetto economico, politico e culturale con un futuro di decadenza senza alcuna speranza, nonostante i consumi elevati, che la condurranno ad un destino di desolazione. L’accostamento con la previsione del Fondo Monetario Internazionale, che prevede l’uscita dalle prime dieci economie del mondo ed il passaggio della Germania da quarto a decimo entro il 2030, con il supposto degrado dell’Unione, riassunto nei valori: migrazione, LGBT e guerra, appare una infelice retorica, che va contro le tendenze mondiali ed una replica di basso livello di quanto viene detto nei luoghi di potere russi; anche l’atteggiamento persecutorio, messo in atto con la contrarietà all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia, portato avanti solo perché i due paesi hanno contestato la deriva populista del governo di Orban, inquadra bene il basso valore politico del personaggio. L’avversione per gli Stati Uniti, sembra replicare le ragioni di Putin, la presunta perdita della posizione di leader mondiale di Washington nei confronti della Cina, può rischiare di portare il mondo ad un conflitto, senza ricordare che il suo amico di Mosca sta mettendo ben più in pericolo la pace mondiale. La posizione ungherese è la sola in Europa ad essere corretta, perché rifiuta i valori edonistici e non intende procedere sulla sostituzione della popolazione con gli immigrati che rifiutano i valori cristiani; non solo, riserva critiche sempre più insistenti verso la Romania, perché in Transilvania risiedono oltre 600.000 persone di lingua magiara e fedeli alle tradizioni, minacciando velatamente un diritto su questo territorio di un altro paese. Ce n’è abbastanza perché i vertici dell’Unione intervengano, come avrebbero dovuto fare già da molto tempo, in maniera dura contro questo personaggio e la maggioranza del paese, che, malgrado tutto lo sostiene. Non è possibile permettere a politici che non condividono i principi sui quali si basa l’Unione, consentire un comportamento di simile arroganza, che consegue alla negazione delle regole democratiche nel proprio paese, con l’introduzione della censura e della negazione al potere giudiziario di esercitare in autonomia la propria funzione. Appare anche inutile ricordare come Budapest, peraltro insieme ad altri paesi dell’ex blocco sovietico, abbia rifiutato il principio di mutualità e solidarietà nella divisione dei migranti e sia stato in totale disaccordo sulle politiche europee approvate dalla maggioranza degli stati. Una presenza del genere costituisce un freno all’azione politica comune e devono essere previste delle soluzioni automatiche ed immediate, che possano sanzionare dalla penalizzazione pecuniaria dei finanziamenti, fino alla sospensione ed anche all’espulsione dal consesso europeo. Le sfide attuali vanno affrontate sulla base degli ideali fondativi dell’Unione, senza permettere che questi siano alterati da visioni contrarie e retrograde, se non si può tenere insieme tutti i membri è meglio che quelli che non condividono l’azione politica comune vengano allontanati.   

Putin minaccia la Polonia

Il dispiegamento militare della Polonia al confine della Bielorussia, ha innervosito Putin, che ha minacciato Varsavia ricorrendo anche a citare Stalin; per il capo del Cremlino la minaccia alla Polonia è dovuta in quanto il paese bielorusso compone con Mosca l’alleanza sovranazionale tra Russia e Bielorussia. Lo schieramento militare polacco è visto come una minaccia tangibile alla esistenza stessa della Bielorussia, perché operato da un paese dell’Alleanza Atlantica. La ragione del timore di Varsavia, risiede nella presenza del territorio di Minsk dei militari della milizia privata Wagner, che dopo il fallito colpo di stato, si sono rifugiati nel paese di Lukashenko con la sua autorizzazione. Una infelice battuta del dittatore bielorusso, sulla possibilità di attraversare il confine con la Polonia, ha innescato uno stato di tensione molto elevato, che avvicina sempre di più la possibilità di uno scontro tra l’Alleanza Atlantica, di cui la Polonia fa parte, e la Russia, di cui, di fatto, la Bielorussia, più che un alleato è uno stato vassallo. Naturalmente Putin ha specificato che un attacco contro Minsk equivarrebbe ad un attacco a Mosca. Il presidente russo ipotizza anche un invio congiunto di militari polacchi e lituani all’interno del territorio ucraino, nella zona di Leopoli, per Putin l’intenzione dei due paesi ex sovietici e divenuti avversari, non sarebbe quella di prestare aiuto agli ucraini, ma di sottrargli del territorio: si tratta, evidentemente, di un tentativo di portare disordine nella coalizione che sostiene Kiev con informazioni atte a destabilizzare i rapporti tra i tre governi. In realtà queste affermazioni non hanno alcun credito internazionale e sono rivolte, piuttosto, all’opinione pubblica russa, nell’estremo tentativo di rivitalizzare il gradimento della popolazione verso l’operazione militare speciale, che sembra riscuotere sempre meno consenso. Individuare sempre nuovi nemici e darne particolare risalto, anche distorcendo la storia, con narrazioni costruite a proprio uso e consumo, rivela che l’isolamento di Mosca è sempre più tangibile anche dentro le mura del Cremlino. L’enfasi che viene data alla prossima visita di Lukashenko, non certo un primo attore internazionale, ma un personaggio succube di Putin, costituisce una informazione in più di come la Russia accusi la propria solitudine internazionale e cerchi di aggirarla, sfruttando ogni minima occasione. Dal punto di vista militare, però, è un fatto che la decisione di Varsavia, peraltro legittima, perché operata entro i propri confini, costituisca un aggravamento della situazione, per la possibilità concreta di un allargamento del conflitto, sia come quantità ed entità degli attori coinvolti, che, anche per l’allargamento del territorio coinvolto. Uno sviluppo della guerra nella parte settentrionale del paese ucraino, quello al confine con la Bielorussia, potrebbe alleggerire la pressione di Kiev sull’esercito russo, che sta faticando a contenere lo sfondamento dell’esercito di Zelensky nelle zone occupate dall’Armata rossa. Ora un allargamento del conflitto in quelle zone potrebbe coinvolgere anche la frontiera con la Polonia, mentre più remote sono le possibilità di un allargamento verso le frontiere di Lituania ed Estonia. Il timore occidentale è che questa sia una strategia che Putin intenda adottare, usando l’alleato bielorusso e la milizia Wagner, per ora impegnata soltanto nell’addestramento dei soldati di Minsk, ma che potrebbe riabilitarsi agli occhi del Cremlino, rendendosi protagonista di azioni contro l’Ucraina condotte dalla Bielorussia. Uno scenario possibile, dal quale difficilmente l’Ucraina potrebbe uscire vincente; tuttavia in questo possibile schema il punto debole è proprio la vicinanza della Polonia, che non potrebbe tollerare nei pressi dei suoi confini la presenza di invasori all’interno delle regione dell’Ucraina vicine ai territori polacchi. Qui sta il dilemma, quale sarà la volontà di Putin di portare avanti un piano così rischioso da obbligare l’Alleanza Atlantica ad essere coinvolta direttamente nel conflitto. Si tratta di un’ipotesi che rischia di essere sempre più vicina e di portare allo scoppio della terza guerra mondiale, con tutte le conseguenze ben immaginabili. Per ora gli USA tacciono, ma per impedire un avanzamento verso ovest  del conflitto occorrerà mantenere il maggiore equilibrio possibile in uno scenario non certo facile, dove la guida dovrà essere che una guerra mondiale non può convenire ad alcun attore in gioco.    

Ucraina sempre più vicina all’Alleanza Atlantica

La visita del Segretario dell’Alleanza Atlantica a Kiev ha assunto subito una notevole rilevanza, sia per il fatto in sé, che per le rassicurazioni, anche se non immediate, che il posto del paese ucraino sarà di diventare membro della coalizione occidentale. Il presidente ucraino è sembrato più concentrato sui problemi del presente, chiedendo all’Alleanza Atlantica un sempre maggiore supporto militare per permettere al suo paese di contenere la Russia e di mantenere la sua unità nazionale. La visita a Kiev del Segretario generale ha provocato dure reazioni a Mosca, che ha ricordato come proprio uno dei motivi del conflitto, anzi dell’operazione militare speciale, sia proprio impedire l’integrazione tra l’Ucraina e la NATO. Lo scopo della visita di Stoltenberg è stato quello di ribadire il sostegno all’Ucraina, di fronte all’opinione pubblica mondiale, sia in passato, che nel presente ed anche nel futuro quando ci sarà da affrontare i problemi della ricostruzione, tuttavia dietro lo scopo ufficiale, vi era la necessità di concordare con l’Ucraina la completa operabilità con l’Alleanza in termini di standard militari e dottrine strategiche, per sostituire le tecnologie sovietiche, che costituivano ancora la base delle attrezzature militari di Kiev; il tutto per garantire una risposta più efficace agli attacchi russi. Per sopperire alle carenze dei propri armamenti l’Ucraina ha ricevuto materiali ex sovietici dai paesi della Cortina di ferro, che meglio si adattavano con la tecnologia degli armamenti di Kiev, ma con l’avanzare della guerra si è proceduto ad una progressiva sostituzione con armamenti NATO, per i quali è necessario un addestramento apposito. Se la contiguità tra Ucraina e NATO è sempre più intensa sul terreno militare, il presidente ucraino ha rivendicato anche un maggiore coinvolgimento politico ed ha chiesto di essere invitato al prossimo vertice di Vilnius a luglio: cosa che è stata sancita proprio nella visita di Stoltenberg. Mosca vive con apprensione questa integrazione, ma ne è stata quasi completamente responsabile; ora c’è da capire se questa adesione potrà provocare un rallentamento o un aggravamento del conflitto: perché un conto è minacciare Kiev di non entrare nell’area di influenza occidentale ed un altro conto è combattere contro un paese sempre più dentro alla sfera occidentale. Questo passo allontana un fattore possibile di interruzione delle ostilità, che era individuato proprio in una sorta di imparzialità di Kiev, configurando il paese ucraino come una sorta di nazione cuscinetto tra occidente e Russia. Con la visita di Stoltenberg questo scenario sembra essere, ormai, senza più alcuna possibilità, anche se l’ingresso a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica non potrà essere che rimandato, per scongiurare un ingresso diretto nel conflitto delle truppe occidentali sul terreno ucraino. Il dato fondamentale, però, è che il futuro non potrà che essere quello a meno che Mosca non riesca a vincere in maniera completa la guerra conquistando tutta l’Ucraina, senza alcuna parte esclusa: cosa che non pare possibile per come si è sviluppato il conflitto. Il futuro dovrebbe, quindi, vedere le truppe NATO proprio sul confine tra Ucraina e Russia e non soltanto più sui confini con Mosca ed i paesi baltici e con la Finlandia. Si comprende come Putin abbia già fallito ogni intento di allontanare l’Alleanza Atlantica e quindi gli USA e l’Europa dalla propria linea di confine e come si stia concretizzando proprio il suo incubo più grande, quello da scongiurare avviando l’operazione militare, che sta rovinando il paese economicamente e provocando un gran numero di vittime tra i soldati russi. Da questo progressivo avvicinamento tra Bruxelles e Kiev, Mosca esce indebolita sia sul piano interno, che su quello esterno, perché i progetti del suo leader stanno tutti fallendo ed anche una cristallizzazione che si fermi ai territori conquistati, implica l’Ucraina ormai entrata definitivamente e stabilmente dell’orbita occidentale, con tutto quello che ne conseguirà per il prestigio del presidente russso.

Le implicazioni della visita cinese in Russia

La visita del presidente cinese a Mosca viene presentata dai mezzi di comunicazione di Pechino come un viaggio per la pace; in realtà questa visita ha solo una valenza per i due paesi coinvolti. La Cina cerca di accreditarsi come unico soggetto capace di produrre uno sforzo per la pace ed in grado di rompere l’egemonia americana in campo internazionale; per la Russia si tratta dell’ennesimo sforzo per uscire dall’isolamento che l’operazione militare speciale ha provocato. Dal punto di vista dei possibili risultati le probabilità sono scarse se non nulle di raggiungere la pace con un piano lacunoso ed astratto come quello cinese. La rilevanza politica è rappresentata dal fatto che Cina e Russia appaiono sempre più vicini, soprattutto in funzione anti americana, nel senso di volere creare una alternativa multipolare alla potenza di Washington; questa alleanza tra Mosca e Pechino non appare, però, paritaria: la Russia ha troppa necessità di avere il riconoscimento del principale paese alternativo agli Stati Uniti ed è chiaramente subalterna alla Cina sotto ogni punto di vista, politico, militare e, soprattutto, economico. Putin ha mostrato interesse verso i dodici punti del piano cinese, dichiarandosi disposto al negoziato; questa disponibilità, di cui occorrerebbe appurare la sincerità, nasconde un calcolo politico combinato, che ha, come fine ultimo l’aiuto materiale della Cina in forma di rifornimenti militari. Per il momento questo non pare stia avvenendo, mentre sembra fortemente sicuro che Pechino fornisca attrezzature di complemento (come componenti e schede elettroniche), senza i quali gli ordigni russi non potrebbero funzionare. Le remore cinesi restano sempre quelle di compromettere le proprie quote di mercato nei territori più redditizi per i propri prodotti: USA ed Unione Europea; tuttavia la Cina non può perdere l’occasione di insidiare Washington, che ritiene, comunque, il principale avversario. Il piano di pace proposto dalla Cina, in questo senso, rappresenta una novità perché deroga dalla regola principale della politica estera cinese: quello di non intromettersi nella politica interna degli altri paesi; infatti, se è vero, che il pronunciamento del rispetto della sovranità nazionale sembra muoversi all’interno della regola generale, il mancato riconoscimento dell’invasione russa non può non essere letto come una ingerenza, seppure non evidenziata, proprio in una questione di sovranità nazionale, sia nei confronti dell’Ucraina, che della stessa Russia; insomma l’equilibrismo cinese non può convincere ad una equidistanza soltanto annunciata tra le parti in conflitto, che non si ritrova nel documento ufficiale. Il tentativo risulta maldestro ed agisce anche contro Mosca, costretta a cedere il proprio petrolio a Pechino a prezzi decisamente inferiori, per ora ricevendo in cambio soltanto riconoscimento internazionale e poco altro. La Cina si mostra opportunista fornendo una lezione esemplare sia ai paesi occidentali, affascinati dal progetto della via della seta, che a quelli africani, più volte sfruttati dall’espansionismo di Pechino. La realtà mostra un paese di cui non ci si dovrebbe fidare, cosa che vale, peraltro anche per la Russia, divenuta ormai subalterna del paese asiatico. Il grande sospetto, che va oltre la situazione contingente, è che il sistema di potere cinese voglia continuare nel progetto di affermare il proprio sistema politico come maggiormente capace rispetto ad altri, essenzialmente la democrazia, nello sviluppare l’economia e rafforzare il proprio stato: argomenti sui quali Putin e la sua nomenclatura sono, per ora, certamente d’accordo, mentre potrà essere differente la prospettiva quando Pechino riscuoterà i crediti con Mosca. Dal punto di vista occidentale la questione sarà quella di contenere l’alleanza, perché di questo di tratta, sebbene sbilanciata, tra Russia e Cina: su Pechino dovranno essere esercitate pressioni diplomatiche affinché non siano forniti armamenti a Mosca, per evitare di aumentare le capacità belliche russe e determinare prolungamenti del conflitto; del resto su questo tema le diplomazie occidentali e quella cinese possono trovare argomenti di intesa, perché la guerra è un blocco per le rispettive economie e per Pechino l’aspetto della crescita economica rimane centrale nel proprio schema politico, allo stesso tempo per l’occidente questa esposizione così plateale della Cina, al fianco della Russia, deve rappresentare un segnale per intraprendere un opera di contenimento dell’attivismo di Pechino.  

Putin bombarda l’Ucraina, dopo la visita di Zelensky in Europa

L’accoglienza dei paesi dell’Unione Europea, tributata al presidente ucraino, Zelensky, ha provocato la dura reazione di Mosca, irritata per il trattamento da eroe della difesa della nazione aggredita. Sono, fondamentalmente, due gli aspetti che danno fastidio a Putin: il primo è la rilevanza internazionale, che la visita in Europa di Zelensky, ha permesso di dare alla questione ucraina ed alla sua invasione, permettendo di fare capire al mondo che l’Europa appoggia Kiev in maniera praticamente compatta, una rilevanza poco gradita ad un Cremlino sempre più isolato sul piano internazionale; la seconda, ben peggiore sul piano militare, è stata la promessa di ulteriori aiuti militari, che potrebbero arrivare fino agli aerei da combattimento. La ritorsione è stata un massiccio bombardamento con missili da crociera partiti dalle navi russe stanziate vicino alla Crimea e dai territori ucraini orientali, occupati dalle truppe russe. Malgrado la comunicazione del capo delle forze ucraine, nessun missile ha attraversato la Romania, paese appartenente all’Alleanza Atlantica, che è comunque stata sfiorata dal passaggio di un vettore ad appena 35 chilometri dai suoi confini, provocando l’allerta delle procedure NATO. Ad essere attraversata da almeno un missile russo è stata la nazione della Moldavia, che è paese candidato ad entrare nell’Unione Europea. Come al solito Putin minaccia da vicino l’Alleanza Atlantica, andando vicino all’errore in grado di provocare il conflitto ed invade lo spazio aereo di una nazione non coinvolta nel conflitto. D’altro lato il Cremlino ritiene le forniture e l’addestramento fornite dai paesi occidentali alle forze armate ucraine, una partecipazione indiretta al conflitto al fianco di Kiev. I bombardamenti hanno colpito, oltre la capitale Kiev, altre importanti città del paese, ed hanno avuto il duplice scopo di distruggere infrastrutture vitali, quali centrali elettriche e reti di distribuzione di energia, continuando nella politica di aggravare la situazione dei civili per generare dall’interno una contrarietà al governo ucraino in carica: tentativo fallito e con poche speranze che raggiunga l’obiettivo. L’uso massiccio di missili ha obbligato la contraerea ucraina ad un elevato quantitativo numerico di missili antiaerei, che ha intercettato ben il 70% dei missili russi, ma, nel contempo, ne ha svuotato gli arsenali, un ulteriore fattore ha contribuito a ciò: l’intercettazione dei droni di fabbricazione iraniana, che sono stati annientati all’80%. La strategia russa può essere quella di indebolire le contromisure del nemico in attesa del tanto temuto attacco di primavera. Proprio per questo motivo il viaggio di Zelensky è stato necessario per richiedere urgenti forniture di nuove armi, per l’occidente la sconfitta della Russia è necessaria per limitare il capo del Cremlino e portarlo ad eventuali trattative in posizione sfavorevole. Rimane, però, nel novero delle possibilità che il confronto tra occidente e Russia possa diventare diretto, soprattutto, se Mosca non riuscirà nei suoi intenti e si vedrà costretta ad usare le armi atomiche a corto raggio, determinando così la risposta degli Stati Uniti e dei suoi alleati.  

L’Alleanza Atlantica offre garanzie a Finlandia e Svezia, anche per rafforzare l’Unione Europea

La questione dell’adesione all’Alleanza Atlantica, da parte di Finlandia e Svezia, continua ad essere un problema per l’avversione della Turchia, che richiede contropartite da parte di Helsinki e Stoccolma, che non possono essere garantite dai vertici dell’Alleanza; nonostante questa consapevolezza il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Stoltenberg, si è detto ottimista e fiducioso al riguardo della conclusione positiva del processo di adesione. Le dichiarazioni di ottimismo sono avvenute durante il vertice con la Presidente della Commissione e del Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, nell’ambito della firma della terza dichiarazione di aiuto a favore del sostegno militare all’Ucraina; tuttavia, nonostante la fiducia nell’inclusione nell’Alleanza di Finlandia e Svezia, la situazione di stallo non è stata sbloccata. La conclusione positiva del processo di adesione all’Alleanza Atlantica viene vista in un’ottica di importanza storica e politica molto rilevante, per la tradizione di neutralità dei due paesi e per la loro posizione strategica, all’interno della contrapposizione alle velleità russe contro l’Europa: proprio per queste valutazioni la ratifica dell’adesione è stata firmata da 28 membri e rifiutata soltanto da Turchia ed Ungheria. Le ragioni dei due stati contrari sono differenti: Ankara non gradisce il rifugio fornito dai paesi nordici ad esponenti curdi, andando, quindi, a sindacare ragioni di politica interna degli stati candidati, mentre su Budapest il sospetto è l’atteggiamento favorevole al presidente russo, più volte manifestato ed origine di profondi dissidi anche in ambito dell’Unione Europea. La Svezia e la Finlandia hanno cercato di compiere atti che potessero soddisfare la Turchia: come la limitazione delle attività dei curdi sui loro territori, inoltre Stoccolma ha revocato il divieto della vendita di armi ad Ankara ed ha preso la distanza dalle milizie curdo-siriane, come richiesto dalla Turchia, nonostante il ruolo riconosciuto dai paesi occidentali per la lotta contro lo Stato islamico; tuttavia queste aperture non bastano al presidente Erdogan, che, probabilmente, non può fare concessioni invise al proprio elettorato fino a dopo le elezioni del prossino Giugno. In ogni caso, come ribadito dai vertici della NATO, il rischio di attacco militare russo contro Finlandia e Svezia non è ritenuto possibile proprio per le garanzie fornite fintanto che i due paesi non saranno membri dell’Alleanza; di fatto, quindi, le due nazioni godono già della protezione dell’Alleanza Atlantica a tutti gli effetti come se ne facessero parte in maniera formale ed un eventuale attacco militare implica già una automatica risposta della NATO. L’ultima dichiarazione congiunta tra Unione Europea ed Alleanza Atlantica, ribadisce gli intenti di quelle firmate nel 2016 e nel 2018, ma avviene nel contesto della guerra di aggressione perpetrata dalla Russia e rafforza la posizione di Finlandia e Svezia nel settore euro-atlantico, portando una sostanziale novità politica che, nell’immediato è in funzione anti russa, ma nel futuro promette di avere ulteriori sviluppi oltre quelli militari. La dichiarazione del 2023, quindi, conferma il concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che definisce l’Unione Europea come alleato unico ed essenziale e, su queste basi, ne richiede una integrazione ancora più potenziata, soprattutto nel quadro della strategia comune della difesa e della sicurezza internazionale. Molto importante è il giudizio favorevole verso uno sviluppo autonomo delle strutture di difesa militare dell’Unione Europea, pur sempre all’interno dell’Alleanza Atlantica, tema più volte messo in discussione dal precedente presidente degli Stati Uniti, Trump. Se queste considerazioni hanno un carattere funzionale maggiormente attinente alla situazione contingente, relativa al conflitto della Russia con l’Ucraina, sono stati espressi anche giudizi, in special modo dalla presidente della Commissione dell’Unione Europea, Ursula Von der Leyen, relativi a potenziali situazioni già presenti, ma, che, per il momento, si limitano a conflitti di tipo commerciale, come i rapporti con la Cina. L’evidente volontà di Pechino di rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio, deve mettere in allarme i paesi democratici, che potrebbero rischiare di vedere alterate le loro peculiarità del modo di governare. Solo una maggiore integrazione politica e la creazione di una forza militare autonoma dell’Europa può garantire una capacità di deterrenza da minacce armate o anche da ribaltamenti della politica americana, non più stabile come una volta, possa provocare un decremento del proprio preso all’interno dell’Alleanza Atlantica, dovuto a tendenza isolazioniste già viste nel recente passato statunitense.