La strategia russa di espansione è anche in Africa

La strategia russa di presidiare le zone che ritiene funzionali ai propri interessi non riguarda solamente  i territori posti sul proprio confine, dove intende applicare la sua influenza in maniera esclusiva, ma anche altre zone del mondo, che hanno assunto particolare rilevanza internazionale; è il caso dell’Africa, sempre al centro dell’attenzione, non solo per la ricchezza delle sue risorse, ma, anche per la crescente importanza geostrategica nel teatro globale. Questa volta la questione riguarda la presenza di mercenari russi, che hanno il sicuro benestare del Cremlino e, probabilmente, agiscono per suo conto, nei paesi africani di Mali, Libia, Sudan, Repubblica Centrafricana, Mozambico e Burkina Faso. Questa presenza, sempre più ingombrante, desta molta preoccupazione in Europa e specialmente in Francia, da sempre impegnata direttamente in queste zone. Il territorio dove sono presenti i mercenari russi è quello del Sahel, dove si concentrano milizie ed aderenti allo Stato islamico, che costituiscono una minaccia quasi diretta per il continente europeo ed il Mediterraneo. Controllare questa zona significa regolare anche i traffici migratori ed usare il terrorismo e lo stesso flusso dei migranti come mezzi di pressione sull’Unione  Europea. Si comprende, così, come la presenza russa sia funzionale ad esercitare una pressione sugli alleati degli USA, sia in generale, che in questo momento particolare, dove la questione ucraina è al centro della scena. L’evoluzione dei rapporti tra la giunta golpista del Mali e la Francia ha assunto connotati particolarmente negativi, culminati con l’espulsione del massimo rappresentanti di Parigi, l’ambasciatore francese. La presenza francese nel Mali è consistente: sono circa cinquemila i soldati direttamente impegnati a combattere la presenza delle milizie dello stato islamico e questa presenza è considerata strategica sia dalla Francia, che dalla stessa Unione Europea. La Francia ha più volte avvertito il Mali della necessità di una maggiore attenzione verso la presenza degli aderenti allo Stato islamico, tuttavia il governo militare, che si è insediato dopo il golpe, ha dimostrato di non gradire affatto la politica francese, percependola come una ingerenza nei propri affari interni, circostanza che ha fatto sospettare, se no una commistione con le milizie radicali, almeno la volontà di usarle come mezzo per contrastare l’azione francese, perché in contrasto con la presenza del governo golpista. Inoltre l’utilizzo di milizie russe, controllate da persone vicine al presidente Putin, da parte del nuovo governo maliano, rappresenta un chiaro segnale di dove vuole dirigersi la politica estera del nuovo esecutivo del paese africano. Anche nel Burkina Faso, dove un golpe ha permesso il cambio di governo da poco tempo, pare che si registri la presenza dei mercenari russi appartenenti alla stessa compagnia presente in Mali. Questa strategia russa completa l’azione degli stessi mercenari presenti in da più tempo in Libia, Sudan e Centrafrica, che svolgono missioni per garantire gli interessi di Mosca nella regione attraverso la fornitura di armi, addestramento e presidio militare ai governi ed anche al sostegno di fazioni politiche extra governative, ma che possono essere funzionali agli scopi della federazione russa. Questa situazione pone interrogativi sostanziali sulla efficacia della sola azione diplomatica scelta dall’Europa e che, ormai, appare insufficiente per proteggere i propri interessi nella regione africana di fronte all’insorgenza di soggetti internazionali, come Russia e Cina, sempre più presenti e pronti, non solo a rimpiazzare l’Unione , ma anche a d esercitare pressioni dirette per condizionarne l’atteggiamento internazionale. La necessità di una forza militare europea e di una zione politica estera comune si fa sempre più impellente e necessaria: non è più il tempo di indugiare, pena un ridimensionamento politico, ma anche economico dell’Unione sullo scacchiere internazionale.

Aumenta la tensione tra Algeria e Marocco

Con la chiusura, da parte delle autorità algerine, del proprio spazio aereo a tutti gli aerei civile e militari marocchini si alza il livello della tensione tra i due stati, aggravando una difficile situazione diplomatica che potrebbe degenerare in maniera pericolosa. La questione tra i due stati nord africani riguarda la situazione del Sahara occidentale, a sud del Marocco, controllata dal Fronte Polisario che lotta per l’indipendenza dal governo di Rabat, rivendicando la sovranità dei territori abitati dal popolo Saharawi e per questa ragione riconosciuto dalle Nazioni Unite, come legittimo rappresentante di quelle popolazioni. Questi territori includono ingenti giacimenti minerali e di fosfati, materiale utilizzato per i fertilizzanti, che è la vera ragione per la quale il Marocco si rifiuta di concedere al Fronte Polisario un referendum per l’indipendenza. Per ovviare alla situazione dell’annessione di questi territori da parte del Marocco, avvenuta negli anni settanta dello scorso secolo, il Fronte Polisario ha decretato la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi, il cui governo in esilio è ospitato in Algeria, che, di fatto, è diventato il paese protettore di questa causa. Il paese marocchino è sostenuto per la sua causa da USA ed Israele, questo in conseguenza della promessa di Trump di sostenere Rabat in caso di riconoscimento dello stato israeliano, così Washington ha riconosciuto la sovranità del Marocco sui territori rivendicati dal Fronte Polisario; recentemente l’Algeria è stata colpita dal fuoco dalle forze armate marocchine, che hanno agito mediante un drone di fabbricazione israeliana. Rabat, nel corso dell’anno, ha aperto due crisi diplomatiche con paesi europei: la prima con la Spagna, per avere accolto un leader del Fronte Polisario per prestargli cure mediche, la seconda con la Germania, che ha definito il Sahara occidentale un territorio occupato dal Marocco e di avere chiesto alle Nazioni Unite una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza per sollecitare lo svolgimento del referendum dell’indipendenza del Sahara occidentale. Il Marocco ha risposto a queste sollecitazioni internazionali contrattaccando con una azione contro l’Algeria, chiedendo alle stesse Nazioni Unite, il diritto all’autodeterminazione della regione algerina della Cabilia a maggioranza berbera. Algeri aveva precedentemente classificato il movimento che sostiene l’autonomia della regione berbera come terrorista di matrice islamista ed il mancato ritiro della proposta marocchina provocò il ritiro dell’ambasciatore algerino in Marocco. A contribuire a questa tensione diplomatica è stata la scoperta dell’uso da parte di Rabat di un software israeliano in grado di spiare funzionari algerini ed il presunto coinvolgimento marocchino negli incendi che hanno devastato il nord dell’Algeria e che hanno provocato almeno novanta vittime. La sospensione dei voli con bandiera del Marocco sui cieli algerini voluta dal governo di Algeri si inquadra in questo scenario di rispettivi sgarbi, che denotano un confronto a bassa intensità militare, ma con elevate tensioni diplomatiche, che investono anche i rapporti economici: dopo il ritiro del proprio ambasciatore Algeri ha comunicato l’interruzione dell’esportazione del proprio gas verso la Spagna attraverso il Marocco: per Rabat significa una perdita tra i 50 ed i 200 milioni di euro, in ragione della quota del 7% del valore totale del gas che arriva sul territorio spagnolo; ed anche il divieto di sorvolo colpisce l’industria turistica marocchina, che basa gli arrivi nel proprio paese attraverso il traffico aereo. A livello di analisi globale della regione del Mediterraneo meridionale, si teme una ulteriore destabilizzazione, che, se sommata, alla situazione libica, dove la guerra civile si è estesa anche al Mali e coinvolge grandi potenze, più o meno direttamente, può portare tutta la fascia costiera ad uno stato di incertezza che potrebbe riflettersi sui paesi europei affacciati sul Mediterraneo; inoltre il radicalismo islamico potrebbe prendere questa situazione come una occasione per infiltrarsi nelle crisi locali e sfruttare le migrazioni fuori controllo per arrivare in occidente. Non va infatti dimenticato, che uno dei mezzi, peraltro non nuovi, usati dal Marocco per esercitare pressioni sulla Spagna, fu proprio quella di lasciare le sue frontiere non controllate per favorire un flusso migratorio verso il paese spagnolo. Questa situazioni è anche l’ennesimo confronto degli USA con l’Unione Europea, che appoggiano ciascuno gli opposti contendenti, rimarcando la differenza di vedute profonda che si è venuta a creare nel campo occidentale.

Per l’Europa e l’occidente è essenziale combattere il fondamentalismo islamico in Africa

I paesi occidentali temono la crescita dei movimenti radicali islamici in Africa, dove sono cresciuti gli episodi di violenza con un incremento molto rilevante, che ha contato circa 5.000 attentati con oltre 13.000 vittime, soltanto lo scorso anno. Lo spostamento di formazioni estremiste, come lo Stato islamico, dai paesi asiatici, come Siria ed Iraq, dove il fenomeno è praticamente sotto controllo, ai paesi africani, seguendo una direttrice da oriente ad occidente, pone grandi parti del continente africano sotto stretta osservazione, anche per la relativa vicinanza con l’Europa e gli ovvi contatti con temi quali l’emigrazione ed il rifornimento energetico, sempre più al centro delle problematiche europee. Non va dimenticato come, sul tema dell’emigrazione, i continui dissidi tra i membri dell’Unione Europea possano essere sfruttati come fattore di destabilizzazione dai fondamentalisti islamici, sempre più alleati delle bande dei trafficanti di uomini, sia come capacità di gestione dei flussi, che di introduzione in Europa di potenziali agenti, capaci di compiere attentati. Se i primi paesi minacciati da questi nuovi sviluppi, nell’immediato sono l’Italia e la Spagna, è ovvio che una incapacità di gestione globale da parte dell’Europa, investe proprio il vecchio continente, ancora molto diviso sulle possibili soluzioni dell’argomento. Su questo tema la nuova amministrazione americana è molto sensibile, perché basa la propria leadership atlantica sulla collaborazione con l’Europa e ritiene la sicurezza del vecchio continente un argomento centrale della propria strategia geopolitica. Probabilmente Washington, al suo interno, non vuole ripetere gli errori di valutazione compiuti da Obama, con la guerra siriana ed intende impedire uno sviluppo militare di formazioni islamiste in Africa, dove, peraltro sono già presenti ed attive, per impedire l’apertura di un nuovo fronte di impegno e, soprattutto, di pregiudicare la sicurezza europea, che implicherebbe uno sforzo ancora maggiore per gli USA.  Attualmente il punto geografico cruciale è il Shael, dove la presenza dei fondamentalisti è favorita da uno scarso presidio delle forze governative dei diversi paesi che governano l’area, oltre alla conformazione fisica del territorio, che consente una estrema libertà di movimento alle milizie islamiste. Anche la diffusione della pandemia ha favorito l’attività dei fondamentalisti, rallentando gli incontri diplomatici per la soluzione del problema, tuttavia l’assicurazione della collaborazione alla lotta al terrorismo islamico di Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Mauritania e Yemen, rappresenta una ulteriore garanzia che il problema viene percepito a livello sovra continentale come urgente e molto pericoloso. L’attività di contrasto non potrà non prevedere un impegno sul campo, ma su questo versante i paesi europei sono riluttanti ad un impegno di proprio personale direttamente sul terreno africano, piuttosto si preferisce una scelta di operazioni di intelligence, in grado di anticipare le mosse dei terroristi e, soprattutto, bloccare i finanziamenti dei gruppi fondamentalisti. Questa impostazione appare però soltanto una parte della possibile soluzione del problema: infatti senza un contrasto militare diretto, appare difficile riuscire a debellare il problema del tutto, anche perché la presenza fisica delle formazioni terroriste, da una parte riesce nel proselitismo delle popolazioni della zona e con quelle che non riesce ad integrare pratica un regime di terrore, che, in ogni caso, rappresenta un punto di forza nel presidio del territorio. La sfida per gli occidentali è sapere coinvolgere gli eserciti dei paesi della fascia del Shael, almeno con finanziamenti, forniture militari ed addestramento delle truppe regolari; certamente i finanziamenti dovranno riguardare non solo l’aspetto militare ma anche, ed in maniera sostanziosa, tutto ciò che può riguardare lo sviluppo dei paesi coinvolti, in termini di infrastrutture, presidi medici e sviluppo dei settori produttivi. La questione africana, a lungo rimandata, dai paesi occidentali, si ripresenta così sotto forma di  urgenza che ha come scopo la sicurezza stessa dell’Europa e dell’occidente, ma è, allo stesso tempo, una occasione di sviluppo globale che non può essere sprecata, anche per strappare l’Africa ad una influenza cinese, ormai male sopportata dagli stessi africani.

L’attivismo paternalista egiziano con Hamas, serve a guadagnare consenso interno ed estero

L’impressione che la mediazione egiziana abbia sortito un effetto positivo sul confronto tra Israele e palestinesi di Hamas, sembra avere avuto un effetto positivo per il regime de Il Cairo. In realtà il contributo egiziano, che è stato comunque presente, ha contribuito solo in parte a fermare i bombardamenti israeliani, che duravano da 11 giorni, ed i lanci di razzi dalla striscia di Gaza; tuttavia il presidente Al Sisi ha ricevuto il pubblico apprezzamento del presidente americano, ha incontrato il presidente francese ed il ministro degli esteri egiziano ha potuto riscuotere i complimenti della Germania e dell’Unione Europea. Al regime egiziano deve essere riconosciuta una certa abilità, più che altro, per sapere utilizzato a proprio vantaggio una situazione contingente, che gli può permettere di rivendicare la propria rilevanza diplomatica nella regione, cercando di fissare un calendario per la questione della pace. Si tratta di una occasione unica per uscire da uno stato di isolamento causato dall’applicazione di pratiche sempre più repressive all’interno del proprio territorio. L’obiettivo egiziano è quello di coordinare, attraverso la sua diplomazia, la gestione della pace attuale, mediante incontri sempre più frequenti con Israele, Hamas e l’Autorità Palestinese per mantenere il cessate il fuoco grazie ad una tregua durevole e favorire la riconciliazione palestinese, come primo punto per procedere ad un eventuale dialogo con Tel Aviv. L’Egitto si è impegnato finanziariamente alla ricostruzione nella striscia di Gaza con un investimento di 500 milioni di dollari, diventando così l’interlocutore principale per Hamas, anche grazie al mantenimento dell’unico accesso non controllato da Israele, attraverso il quale fare pervenire aiuti umanitari, anche provenienti da paesi terzi. Risulta chiaro, che tutta questa strategia è funzionale ad una sorta di pulizia dell’immagine del regime, che, però, sta dimostrando di eccedere nella sua retorica paternalistica, quasi replicando l’atteggiamento tenuto in pratica, peraltro tipico dei regimi autoritari. La storia del rapporto tra Al Sisi ed Hamas ha registrato momenti di crisi proprio con la presa di potere del dittatore egiziano a causa della repressione del movimento dei Fratelli Musulmani, particolarmente vicini ad Hamas, tuttavia Il Cairo ha bisogno di Gaza  e Gaza ha bisogno de Il Cairo, ed il legame tra le due parti appare obbligato, anche se nelle carceri egiziane continuano ad essere imprigionate diverse persone che hanno collaborato con lo stesso Hamas. Su questa contraddizione il movimento islamico palestinese per il momento deve soprassedere per motivi di evidente necessità, ma è legittimo pensare, che sul lungo periodo, questa causa non potrà che essere motivo di contrasto. L’Egitto, comunque, è il socio forte dell’alleanza e può condurre i rapporti in ragione del suo appoggio ad Hamas, con l’obiettivo primario di rendere funzionale questo legame ed i suoi effetti, come garanzia per la sostenibilità della dittatura, soprattutto sul fronte interno, ma non disdegnando neppure  i risvolti positivi che possono essere guadagnati anche dall’esterno. La logica rientra in uno schema classico sempre valido per le dittature: guadagnare consenso internazionale, anche parziale, attraverso una azione diplomatica degna di una democrazia: fattore che permette di nascondere le malefatte interne ed assumere posizioni quasi essenziali, soprattutto se in determinati contesti non ci sono attori internazionali alternativi che possano e vogliano garantire il proprio impegno, come il recente scontro tra Israele e Palestina ha dimostrato. D’altra parte l’aspetto umanitario è un fattore che suscita molta sensibilità nelle democrazie, specie in quelle occidentali: se l’entità degli aiuti è innegabile, le modalità, fortemente esibite, attraverso striscioni che pubblicizzavano il regalo ai palestinesi da parte del presidente egiziano, non hanno suscitato particolari entusiasmi nella popolazione, che ancora ricorda l’opera di distruzione, operata dagli egiziani, dei tunnel palestinesi nel 2013. Ogni parte, quindi fa di necessità virtù, ma il significato di questa collaborazione è che i palestinesi non possono rifiutarla perché ne hanno estremo bisogno, mentre per l’Egitto può significare una delle ultime possibilità per cercare di migliorare la propria immagine verso l’esterno, non rendendosi conto di svolgere un ruolo che doveva essere un compito delle Nazioni Unite e delle democrazie occidentali, che, in definitiva, stanno usando Il Cairo ripagandolo con un piccolo apprezzamento, che è, in realtà, una finzione vera e propria.

L’accordo tra Marocco ed Israele minaccia la stabilità del Sahara occidentale ed è una trappola per Biden

L’ennesimo accordo di una amministrazione scaduta, lascia pesanti questioni in eredità al nuovo inquilino della Casa Bianca e gli impone una serie di obblighi economici e politici, che potrebbero non essere condivisi. Il quarto stato arabo che accetta di stabilire rapporti con Israele, grazie alla mediazione americana, dopo Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Sudan è il Marocco, che ottiene il riconoscimento della propria sovranità sul Sahara occidentale, l’ex colonia spagnola abbandonata da Madrid nel 1975. Per raggiungere il successo diplomatico con gli Emirati Arabi Uniti, gli USA si sono impegnati a finanziare l’esercito emiratino con un programma di riarmo del costo di 19.100 milioni di euro, per il Bahrain il costo è politico per favorire i rapporti con l’Arabia Saudita, mentre per il Sudan si tratta di un impegno che riguarda entrambi gli aspetti, trattandosi della promessa, non ancora concretizzata, di revocare le sanzioni di Washington verso il paese africano, che erano state inflitte per colpire il precedente regime dittatoriale. Per Rabat il vantaggio è quello di vedersi riconosciuta la sovranità sul Sahara occidentale, poco importa se, per ora, questo riconoscimento avviene solo dagli Stati Uniti, unico paese della comunità internazionale ad effettuarlo; Trump ha parlato espressamente come la soluzione del governo del Marocco sia l’unica proposta percorribile nell’ambito della ricerca di un processo di pace duraturo. Questo apprezzamento consente al Marocco di superare gli accordi del 1991, firmati con il Fronte Polisario presso le Nazioni Unite, che prevedevano un referendum per l’autodeterminazione delle popolazioni del Sahara occidentale. Ciò potrebbe aggravare una situazione di crisi ripresa dallo scorso 12 novembre, con un confronto tra l’esercito marocchino e gli attivisti per l’indipendenza, dopo ventinove anni di tregua. Occorre ricordare che il Sahara occidentale è il territorio non indipendente più grande del pianeta e la autoproclamata Repubblica araba Sahrawi ha il riconoscimento di 76 nazioni e dell’Unione Africana e detiene lo status di osservatore alle Nazioni Unite. Si comprende come la tattica di Trump miri a dividere l’Unione Africana e lasciare a Biden una grave responsabilità, anche perché la decisione a favore del Marocco interrompe una linea che gli USA mantenevano da tempo bei confronti della questione. Se Biden decidesse di avvallare la decisione di Trump andrebbe contro agli ambienti diplomatici americani al contrario una revoca del riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, implicherebbe un raffreddamento nei rapporti tra Rabat e Tel Aviv. La prova che l’incertezza regni anche in Marocco, aldilà delle dichiarazioni di soddisfazione, è che per ora Rabat non intende aprire alcuna rappresentanza diplomatica in Israele, quasi ad attendere gli sviluppi della nuova politica estera americana. Una ragione ulteriore, poi, è l’atteggiamento da tenere con i palestinesi, apparsi da subito molto adirati. Il Marocco ha specificato da subito che non intende mutare il proprio atteggiamento favorevole sulla soluzione di un territorio e due stati, incompatibile con la visione di Netanyahu. Il premier israeliano al momento sembra essere il vero vincitore, portando un nuovo accordo con uno stato arabo come sua personale vittoria, in un momento molto difficile sul fronte interno, dove il paese rischia la quarta elezione politica in poco tempo. Trump continua a giocare per sé stesso, sacrificando per i propri scopi la politica estera statunitense in un momento di passaggio di consegne: quella che il presidente uscente ritiene vincente è la tattica di lasciare una situazione molto difficile da gestire per quella che dovrà essere la politica estera democratica, con l’atteggiamento di diversi stati alleati potenzialmente negativo con il nuovo presidente. Il disegno è ampio e mira, innanzitutto a creare una rete di stati legati al vecchio presidente in vista di una possibile ricandidatura tra quattro anni, lasciando situazioni di difficile soluzione per il nuovo inquilino della Casa Bianca, che presuppongono il fatto di lasciare inalterate le decisioni in essere, con la contrarietà del partito democratico, o viceversa di ribaltarle, ma dovendo affrontare l’avversione di chi dovrà subire queste decisioni contrarie. Un tranello che appare creato ad arte per delegittimare il nuovo presidente o di fronte agli alleati stranieri o di fronte al proprio elettorato. In conclusione bisogna ricordare che Trump non ha ancora formalmente riconosciuto la sconfitta e minaccia di portare il paese più importante del mondo verso un caos istituzionale, che potrebbe avere ripercussioni molto gravi per il mondo intero.  

Angola: situazione sempre piu' difficile

La situazione in Angola sta precipitando, l’impasse del dopo elezioni non si sblocca quindi Laurent Gbagbo cerca di aprire un fronte esterno, accusando USA e Francia di essere dietro all’opposizione risultata vincente dalla tornata elettorale. La prima mossa e’ stata della CEDEAO, l’organizzazione economica dei paesi dell’Africa dell’ovest, che ha minacciato il ricorso alla forza militare per ristabilire la pace nel paese. Questo ipotetico intervento e’ diretto contro lo sconfitto delle elezioni, che rifiuta il verdetto del voto denunciando brogli, per Gbagbo dietro a questa minaccia vi e’ l’azione concordata di USA e Francia per favorire il suo avversario. La Francia, dal canto suo, e’ presente con 900 uomini sul territorio ivoriano, mentre sono 15.000 i cittadini francesi ivi residenti. Il ministro della difesa francese Juppe’ ha sottolineato che l’uso della forza spetta alla decisione delle Nazioni Unite, ma che i cittadini francesi presenti sul suolo della nazione africana saranno difesi militarmente in caso di bisogno.

L'impasse della Costa d'Avorio

Nella Costa d’Avorio situazione difficile, continua l’impasse politica provocata dal capo di stato uscente, Gbabo, perdente alle elezioni. Sconfitto dal rivale Ouattara forte della vittoria elettorale e dell’appoggio della comunità internazionale, Gbabo, è già stato protagonista della guerra civile che sconvolto il paese tra il 2002 ed il 2004, quando fu accusato di regime dittatoriale dall’allora avversario Soro. La strategia di Gbabo per il mantenimento del potere  è il temporeggiamento attraverso la richiesta dell’istituzione di una commissione di valutazione della crisi post elettorale comprendente le Nazioni Unite e dell’Unione Africana, peraltro organismi che riconoscono la vittoria di Outtara. Lo scenario induce preoccupazione nei vertici ONU, Ban Ki-moon ha espresso il timore che i caschi blu presenti nel paese vengano coinvolti in una situazione critica per la possibilità  di scontri tra le opposte fazioni.

Verso l'accordo UE-Libia per l'emigrazione

La Ue e la Libia hanno emanato un comunicato congiunto che annuncia la probabilità di una cooperazione per una fattiva soluzione del problema dell’emigrazione clandestina transitante dalle coste libiche. Il problema è spinoso quanto risaputo, da un lato la Libia usa la regolazione del flusso migratorio clandestino con l’intento di fare pressione sui paesi europei per strappare contratti e consenso internazionale, dall’altro lato del mediterraneo l’Europa si trova ad affrontare per provare a regolamentarlo, se non proprio a limitarlo, l’ormai principale canale via mare attraverso il quale i clandestini sbarcano sul vecchio continente. Le implicazioni sociali che ruotano agli accordi con la Libia sono più di una: innazitutto il trattamento riservato alla popolazione clandestina riservato dalle forze di Tripoli, è infatti risaputo con quali metodi vengono trattati i migranti e quindi la domanda che si deve fare la UE è se è moralmente lecito trattare da pari a pari con un governo che, perlomeno non usa metodi ortodossi, come più volte provato? E’ chiaro che si guarda la questione soltanto da questo punto di vista la risposta non può che essere negativa, ma esiste la questione pratica del rischio di essere inondati da carrette del mare con il povero carico di esseri umani allo sbaraglio. Gli stati devono governare questa questione anche perchè gli esecutivi sono sempre più sottoposti a pressioni da parte di gruppi certamente non disposti bene verso l’emigrazione clandestina, il problema è un serbatoio di voti potenziale e quindi la soluzione migliore è una gestione almeno regolata se non del tutto almeno nelle parti fondamentali direttamente dalla UE. Quello che viene previsto però prevede un piano che cerca di andare alla fonte dell’emigrazione, infatti lo stanziamento iniziale di 5 miliardi di euro per i paesi africani è destinato ad iniziare un programma di sviluppo che cerchi di favorire concrete possibilità di lavoro per i possibili migranti nei loro stessi paesi, questa via è l’unica percorribile anche se occorrerà controllarela destinazione effettiva dei finaziamenti. Per quanto riguarda la richiesta di Gheddati di 5 miliardi per stoppare i clandestini, è definitivamente tramontata, la Libia si accontenterà di 50 milioni di euro con l’impegno di un trattamento più umano dei migranti. Le premesse sono buone vedremo gli sviluppi.

Il sud del mondo nuovo motore economico del pianeta

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale annunciano l’avvento dei nuovi ricchi: infatti, secondo le recenti statistiche dei due enti, il motore economico del pianeta si sposta verso sud. Complice la recente crisi finanziaria che ha favorito la stagnazione economica dei paesi cosidetti ricchi sono sempre più i paesi emergenti ad interpretare il ruolo di locomotiva economica, sono loro a trainare il pianeta. Le cause che hanno generato la crescita economica sono un mix di fattori tecnologici, sociali e politici  infatti il progresso tecnologico giunto alla crescita numerica della classe media ha generato un circolo economico virtuoso tra produzione e consumi, politicamente, poi, si è cercato una maggiore integrazione tra i sud del mondo, favorita anche da politiche del credito in grado di sostenere la crescita infrastrutturale, volano essenziale per la produzione e la circolazione delle merci. E’ chiaro che questi aspetti genereranno ulteriore ricchezza favorendo una maggiore diffusione del benessere facendo intravedere l’inizio della fine della povertà nelle nazioni meno sviluppate. Si deve tenere presente che ci sono diversi aspetti da mitigare come le varie e pesanti differenze sia sociali che economiche presenti negli strati sociali di questi paesi, queste discrepanze favoriscono un mercato del lavoro eccessivamente deregolamentato che non tiene conto delle esigenze di sicurezza dei lavoratori e generano, in un quadro di mercato globale, fenomeni di concorrenza sleale verso la produzione di quei  paesi  dove le leggi sul lavoro sono molto più ferree. Un’altro aspetto riguarda la qualità della vita in relazione ai fenomeni di inquinamento favoriti dalle legislazioni vigenti nei paesi in via di sviluppo per favorire la spinta dell’industrializzazione; i governanti di questi paesi dovranno studiare metodi di allineamento agli standard occidentali per rendere migliore l’ambiente anche tenendo conto di una sempre maggiore integrazione della totalità degli stati mondiali; il fenomeno è ineludibile ma un governo sopra le parti che ne gestisca lo sviluppo potrebbe accelerare questo processo ed è in quest’ottica che deve auspicarsi un coinvolgimento più massiccio di organizzazioni come l’ONU, che potrebbero cogliere l’occasione per aumentare concretamente il proprio prestigio.

L'Africa alla ricerca dell'indipendenza alimentare

Il recente vertice presieduto da Kofi Annan nella sua nuova veste di presidente del consiglio dell’Alleanza per la rivoluzione verde in Africa svoltosi ad Accra in Ghana lo scorso 4 settembre ha delineato il progetto, nelle sue linee guida, che ambisce a garantire l’autosufficienza alimentare del continente nero. Il problema è annoso e quello che è mancato fino ad ora, oltre sostanziosi investimenti  stata una linea guida comune che gestisca questo sforzo immane; immane perchè coinvolge secolari divisioni da superare, implica affrancarsi da presenze non africane con interessi diversi dal progetto o convertire posizione di leader continentali spesso asserviti alle posizioni di cui sopra; e questi sono solo gli ostacoli politici poi ci sono gli ostacoli tecnici: la mancanza di infrastrutture per attuare i piani, uno dei quali prevede anche il cosidetto consumo a chilometri zero, la maualità degli operatori e la progettazione di più reti idriche che consentano di guadagnare territorio alla desertificazione per incrementare le aree coltivabili. Poi c’è la questione non secondaria in un’ottica di economia mondiale sulla decisione di usare o meno gli OGM, sulla quale si prevede un dibattito combattuto.  E’ chiaro che il raggiungimento dell’obiettivo dell’autosufficienza economica passa dgli aiuti internazionali e dalla propensione o meno ad elargirli e sopratutto in cambio di cosa, il pericolo di nuove forme di colonialismo pare già dietro l’angolo: la ricchezza di materie prime del continente africano è cosa fin troppo ovvia da ricordare, ma in cosa potrebbe trasformarsi un continente così ricco senza più il flagello della fame e delle carestie? Quale investimento e  punto di partenza migliore per creare ricchezza per la popolazione africana finalmente da autogestire? Sono queste le domande che i paesi ricchi devono farsi se nel futuro intendono avere partner del continente nero al proprio livello, non più da sfruttare ma da intendere come opportunità economica perchè trasformati in consumatori, attori protagonisti di un nuovo sterminato mercato.