L'Africa alla ricerca dell'indipendenza alimentare

Il recente vertice presieduto da Kofi Annan nella sua nuova veste di presidente del consiglio dell’Alleanza per la rivoluzione verde in Africa svoltosi ad Accra in Ghana lo scorso 4 settembre ha delineato il progetto, nelle sue linee guida, che ambisce a garantire l’autosufficienza alimentare del continente nero. Il problema è annoso e quello che è mancato fino ad ora, oltre sostanziosi investimenti  stata una linea guida comune che gestisca questo sforzo immane; immane perchè coinvolge secolari divisioni da superare, implica affrancarsi da presenze non africane con interessi diversi dal progetto o convertire posizione di leader continentali spesso asserviti alle posizioni di cui sopra; e questi sono solo gli ostacoli politici poi ci sono gli ostacoli tecnici: la mancanza di infrastrutture per attuare i piani, uno dei quali prevede anche il cosidetto consumo a chilometri zero, la maualità degli operatori e la progettazione di più reti idriche che consentano di guadagnare territorio alla desertificazione per incrementare le aree coltivabili. Poi c’è la questione non secondaria in un’ottica di economia mondiale sulla decisione di usare o meno gli OGM, sulla quale si prevede un dibattito combattuto.  E’ chiaro che il raggiungimento dell’obiettivo dell’autosufficienza economica passa dgli aiuti internazionali e dalla propensione o meno ad elargirli e sopratutto in cambio di cosa, il pericolo di nuove forme di colonialismo pare già dietro l’angolo: la ricchezza di materie prime del continente africano è cosa fin troppo ovvia da ricordare, ma in cosa potrebbe trasformarsi un continente così ricco senza più il flagello della fame e delle carestie? Quale investimento e  punto di partenza migliore per creare ricchezza per la popolazione africana finalmente da autogestire? Sono queste le domande che i paesi ricchi devono farsi se nel futuro intendono avere partner del continente nero al proprio livello, non più da sfruttare ma da intendere come opportunità economica perchè trasformati in consumatori, attori protagonisti di un nuovo sterminato mercato.

Da che parte pende il cammino verso la pace?

Qual’è lo scopo di bruciare corani nella ricorrenza dell’undici settembre? E’ un fatto localistico dove una piccola chiesa ultraconservatrice e di estrema destra cerca, tra l’altro, di dissuadere la costruzione della moschea a Ground Zero e continuare a gettare cattiva luce sugli islamici americani, anche quelli integrati e che contribuiscono al sogno americano, oppure fa parte di un piano più ampio volto a rendere ancora più difficile il lavoro di Obama ordito neanche troppo velatamente da quegli ambienti e gruppi di pressione antagonisti che non hanno digerito la nuova politic estera statunitense ed il ritiro dall’Iran? In ogni caso la portata provocatoria del gesto, oltre che  inutile rischia di fare degenerare le cose prima di tutto in quegli scenari di guerra dove i contingenti americani sono presenti e che combattono con maggiori difficoltà le loro battaglie. La facile previsione dei comandi americani su cosa seguirà al falò del corano prevede attentati e kamikaze verso non solo le truppe a stelle e strisce ma anche verso gli alleati presenti sui teatri di guerra, forse sarebbe opportuno un’intervento interno forte e chiaro che metta fine a questa storia, ma di questi tempi muoversi all’interno del perimetro USA sembra altrettanto difficile, seppure in maniera diversa, che sulle montagne del’Afghanistan. Da chi soffia sul fuoco a chi tenta di smorzare i toni: sono significativi gli interventi a breve distanza di Fidel Castro e Chavez verso una riconsiderazione del problema israeliano, il primo ha parlato di considerare in maniera diversa, e più benevola, la storia del popolo israelitico ammonendo l’Iran contro la celta di un’opzione nucleare, il secondo, di fronte agli attentati contro la comunità israelitica venezuelana ha condannato pubblicamente i fatti e con un discorso più ampio ha indicato la via dei negoziati per risolvere la questione palestinese, entrambi cioè hanno capito l’urgenza della risoluzione del problema ergendosi a protagonisti internazionali nell’area latino americana. Quello che appare è che si stanno creando tendenze nuove ma anche inaspettate sulla scena mondiale che risulta in completa evoluzione, sta ora alle organizzazioni internazionali il coordinamento (ma anche lavorare per stroncare le opzioni negative con una maggiore e più incisiva azione diplomatica volta anche alle questioni nazionali dei singoli paesi, siano la piccola come la grande potenza) di queste tendenze per massimizzare il risultato.

Dove va l'Unione Europea?

La recente relazione di Barroso sullo stato della UE pone diverse considerazioni sugli sviluppi del ruolo e delle potenzialità che il fututo potrà riservare all’unione nel suo complesso e quindi anche alla sorte dei paesi membri. E’ stato rilevato, sostanzialmente, che, sul piano internazionale l’Unione è di fatto incompiuta mancando una politica diplomatica comune al posto della quale ci sono 27, tante quanti sono i paesi membri, politiche internazionali diverse che nella migliore delle ipotesi trovano solo alcuni punti di contatto e nella peggiori sono ddirittura antitetiche; è chiaro che così la UE fa la figura del nano politico imbrigliato in esteuanti trattative delle trattative, ne consegue che il prestigio è solo di facciata ma non ha alcun peso effettivo sulle questioni inernazionali. Questa lacuna deriva prima di tutto da un buco normativo che non si è saputo colmare creando all’interno della UE apparati autonomi e liberi di manovra, cioè figure anche collegiali capaci di imporre una visione ed una capacità di azione comunitaria in barba alle istanze periferiche, sia pure provenienti dai paesi più importanti. Tale lacuna è stata chiaramente voluta grazie ale ragioni più disparate: la gelosia della propria libertà di azione di paesi di grande tradizione diplomatica, le tendenze elettorali provenienti a quei paesi che usciti dai blocchi sovietici vedevano o vedono l’esistenza di una struttura sovranazionale anzichè come una opportunità come un pericolo alla riacquistata autonomia e non ultime le tendenze localistiche che percepiscono come mancanza di autonomia l’azione comunitaria dotata di visione dall’alto che trascurerebbe le esigenze particolaristiche. Questa debolezza internazionale, che potrebbe avere dei benefici indotti, ha invece delle ricadute (costi per mancati benefici) negative direttamente sulle economie continentali. Occorre qui considerare che l’azione della politica internazionale non è solo un mero esercizio diplomatico fine a se stesso, che cioè non conferisce soltanto prestigio da spendere in congressi e relazioni, ma può costituire un vlano economico fin troppo rilevante, il corollario di contratti e convenzioni economiche che stanno dietro ad accordi internazionali è il motore che muove la moderna diplomazia e quindi non è ammissibile che un soggetto importante come la UE resti al palo, l’urgenza di dotarsi di una politica internazionale univoca è un’esigenza improcrastinabile sopratutto se giunta alla determinazione più volte sottolineata da Barroso della necessità di passare dalla fase di unione monetaria, ormai metabolizzata, alla fase di unione economica e finanziaria per aumentare in modo sostanziale il benessere sociale ed economico dei cittadini del’unione e pesare finalmente con il livello che gli compete sullo scenario internazionale.

Cosa farà l'Iran della bomba nucleare?

L’impennata della produzione di uranio in Iran accertata e dichiarata con dati ufficiali dall’agenzia internazionale per lo sviluppo atomico, organizzazione ONU, evidenzia la preoccupazione del mondo internazi0nale di fronte all’unica strada che pare possibile: la creazione di ordigno nucleare nella mani della teocrazia di Teheran. Se ciò è vero e se si arrivasse alla costruzione materiale della bomba atomica islamica, quali saranno gli scenari che si presenteranno una volta che Ahmadinejad avrà materialmente in mano la valigetta con i codici di lancio? Intenderà usare veramente il missile nuclare contro Israele trascinando il pianeta in una catastrofe? Oppure userà la minaccia pe rintraprendere un gioco di ricatti ugualmente pericoloso? Per prima cosa occorre chiedersi quale è il bisogno e la convenienza di diventare una potenza nucleare in questa fase storica. Quello che pare evidente è che l’Iran così come è messo in questo momento debba in qualche modo uscire dall’isolamento in cui si è gettato, non potendo cercare modi convenzionali per i paletti che la teocrazia si è autoimposta prova, mostrando i muscoli, a catalizzare tutti quei paesi, sopratutto arabi, ma non solo, che non rientrano, per i più svariati motivi sotto alcuna zona di aggregazione internazionale. E’ la risposta contro quello che una volta si chiamava imperialismo americano che con Israele resta il primo nemico, ma non unico, infatti anche l’Europa è sovente presa di mira. Quello che si prova a catalizzare è un blocco di paesi, tra l’altro produttore e fornitore di materie prime che possa fare pesare sulla bilancia oltre il potere economico anche quello militare, ma sono alleanze pericolose perchè eterogenee ed proprio su questo punto che la diplomazia internazionle deve dispiegare il proprio lavoro per isolare il regime iraniano affinchè resti sempre più nel proprio isolamento, ma la cosa più ardua sarà  sconfiggere il regime dal’interno dato che, nonostante le sommosse di piazza dovute solo ad elites più istruite, il grosso del popolo iraniano o almeno una parte considerevole sta con il dittatore.  

La mancata visibilità del problema basco

La decisone dell’ETA di sospendere le azioni armate pone domande circa le condizioni nelle quali è maturatala proposta, infatti il movimento indipendentista basco non versa più in ottime condizioni, l’appoggio popolare pare essere  venuto meno per l’efficace azione di Zapatero che ha saputo mettere in campo una doppia strategia tesa a limitare l’azione militare contenendola preventivamente giunta ad una politica amministrativa che ha permesso ai baschi una maggiore indipendenza, pur sempre nell’ambito statale spagnolo. Quindi la decisione appare quasi una sconfitta essendo una dichiarazione unilaterale non proveniente da accordi ufficiali. Inoltre la richiesta di coinvolgere la comunità internazionale per negoziati alla luce del sole che risolvano appunto con la via diplomatica (se di questo è corretto parlare per un territorio che  non è stato sovrano ufficilamente riconosciuto) mette in chiara luce la necessità di portare di nuovo sulla scena mondiale un conflitto che pareva ormai dimenticato proprio grazie all’azione del governo di Madrid e di cui si parlava prima. Pare la carta della disperazione per evitare una sconfitta che cancelli il problema basco, almeno nella visione dell’ETA.

Il regime iraniano condannato da Mazen

La svolta dei governanti palestinesi nei rapporti con l’Iran è una chiara presa di posizione con molteplici implicazioni; dichiarare, come ha fatto, Mazen, che il governo è illegittimo in quanto eletto in una consultazione truccata, vuole dire, prima di tutto, prendere le distanze da un nemico di Israele, nonostante abbia perorato, a parole, più volte la causa palestinese, e nel contempo prendere le distanze da un amico dei gruppi estremisti arabi che non vogliono la pace. Non è cosa da poco, con questo passo si afferma la volontà che il processo di pace inaugurato i giorni scorsi vada avanti in modo chiaro, si dice cioè, che l’autorità palestinese, non intende prendere eventuali vantaggi derivanti da un possibile scontro Israele-Iran, è quindi una posizione chiara e leale verso l’interlocutore israeliano ed anche verso il promotore statunitense. L’Iran dal canto suo procede nella sua strada di isolamento, anche l’Egitto ha manifestato contrarietà al regime di Teheran cancellando una visita diplomatica prevista, ed anche il fatto di riproporsi come sede dei negoziati non è ben visto dall’Iran che imputa al paese dei faraoni il tradimento del popolo palestinese ed in un’ottica più ampia del popolo arabo.

Verso lo stato palestinese

Nonostante le difficoltà i colloqui Israele-Palestina sono partiti da una novità enorme nella storia dei processi di pace: la constatazione di entrambi gli stati della necessità del riconoscimento reciproco della dignità di stati, questo implica, giacchè Israele è già comunque uno stato (anche senza il riconoscimento palestinese), che Israele vede come unica opportunità di pacificazione la creazione di uno stato sovrano Palestinese; va detto che questa soluzione era oramai l’unica possibile, come individuato già da tempo da numerosi esperti della questione mediorientale, ma è la prima volta che Israele esplicita in modo anche formale questa soluzione. E’ chiaro che il processo dovrà avvenire anche in senso inverso, quindi con il ricnonscimento formale dello stato israeliano da parte dei palestinesi, tutti quegli atti di guerra e verso lo stato ebraico rientreranno, in sostanza, come atti terroristici verso uno stato straniero. Si dirà che già succede ma attualmente il labile confine del mancato riconoscimento reciproco non fa rientrare gli atti terroristici e le ritorsioni militari israeliane tra atti di guerra tra due paesi sovrani, con tutto il corollario che ne consegue governato dal diritto internazionale. Ma a parte le questioni giuridiche l’importante è il comune riconoscimento della necessità della pace nella regione, fatto che sembra scontato, ma ammesso pubblicamente da due avversari di tale caratura è sicuramente un progresso. Non tutto però è rose e fiori, i gruppi estremisti palestinesi hanno già annunciato in centro comune di organizzazione per contrastare il processo di pacificazione e con quali mezzi è facile da immaginare; in questa fase oltre all’azione diplomatica, necessaria ma non sufficiente è auspicabile un aiuto internazionale ai palestinesi che intendono portare avanti la pacificazione per isolare i gruppi estremisti.

Europa sotto scacco

Tralasciando le prediche coraniche, i berberi con i loro cavalli, le hostess, la tenda, insomma tutto quello che non è stato e tutto quello che è stato definito folklore il punto cruciale della visita del leader libico è stato, di fatto, il prezzo richiesto all’Unione Europea per bloccare il traffico di migranti che hanno proprio in Libia una delle basi di partenza principali per raggiungere il lato meridionale dell’europa; mai in un caso come questo è appropriato parlare di prezzo, d’altronde gli arabi sono ottimi mercanti, dato che anche l’importo finale è già stato deciso: 5 miliardi di euro affinchè l’Europa non diventi nera, non dalla rabbia, come probabilmente è già successo, ma nera nei suoi abitanti che dovrebbero diventare la maggioranza se la Libia aprisse i suoi cancelli. A parte la portata culturale della minaccia, che finirà per alimentare le parti politiche più retrive con tutte le conseguenze possibili e facilmente immaginabili, il ricatto ha un suo perchè: il movimento migratorio è stimato attualmente nel tre percento  della popolazione mondiale ed è un numero destinato probabilmente a crescere data la crisi mondiale ed il sempre crescente fattore di destabilizzazione politica e sociale della maggior parte delle aree interessate al fenomeno. Va detto che la UE ha già avviato progetti pilota proprio con la Libia per contrastare l’emigrazione clandestina del valore di 50 milioni di euro annui, ma ora Gheddafi alza il prezzo per fermare quella che sembra una vera e propria bomba ad orologeria puntata verso l’Europa, che deve prendere al più presto iniziative tese a non restare sotto scacco del capo di stato libico. Difficile dire cosa si potrà fare, già è difficile dover ammettere solo di trattare con un regime che non tiene in alcuna considerazione i più elementari diritti dei migranti, come più volte accertato, ma la realpolitik la fa da padrona, tenendo conto che si deve trattare anche con uno dei maggiori fornitori di energia (da cui l’Italia dipende e con cui giocoforza deve fare i conti), l’impressione è che la sparata sia stata alta per ricavare ancora qualcosa da mettere nel budget degli investimenti interni di cui la Libia ha bisogno per accrescere le sue infrastrutture, tuttavia la prossima riunione UE dovrà per forza mettere in conto strategie e soldi per fronteggiare il problema.

In attesa dei negoziati

Il grave attentato sulla strada di Hebron ai danni di civili israeliani getta da subito una luce sinistra sui negoziati di pace ancora da aprire. La condanna unanime da parte delle autorità israeliana e palestinese appare un qualcosa di più di un atto dovuto, la sintonia delle dichiarazioni ed il subitaneo intervento dei servizi di sicurezza dell’ANP concretizzatosi con l’arresto di numerosi membri di Hamas nella zona dell’attentato dimostrano che nella regione esiste effettivamente una volontà comune per almeno cercare una via che porti alla pacificazione. Il problema è ancora una volta un’altro, capire cioè a chi non interessa raggiungere una situazione di normalità nella zona. Come al solito gli estremisti di entrambi i campi hanno gli stessi interessi: mantenere una forte destabilizzazione sul territorio fondata sul terrore, esasperando gli animi e tirando per la giacca i loro governanti; questa tattica, peraltro comune, si fonda sull’attesa degli sviluppi futuri che potrebbe avere l’escalation israeliana contro l’Iran con tutto quello che ne potrebbe conseguire. Mettere ora dei punti fermi con accordi ratificati potrebbe escludere vantaggi contingenti e sopratutto maggiori che potrebbero presentarsi per l’una o per l’altra parte. Mettere i bastoni tra le ruote ai negoziati in questo momento significa questo, aspettare e vedere che cosa succederà. Purtroppo ne consegue una facile previsione: gli atti intimidatori, da ambo le parti, in questa ottica non potranno che aumentare.