Dal Nagorno Karabakh possibilità di allargamento del conflitto da locale in regionale

Nella guerra del Nagorno Karabakh l’Armenia sembra essere in posizione sfavorevole rispetto all’Azerbaigian, che può godere dell’alleanza di una Turchia determinata a recitare il suo ruolo di nuovo protagonista ottomano. Il Nagorno Karabakh ha una popolazione di circa 150.000 abitanti, la cui maggioranza è di etnia armena e proprio per questo motivo è alla ricerca dell’autodeterminazione.  Per la Turchia non si tratta di essere scesa in guerra soltanto per appoggiare il paese turcofono dell’Azerbaigian, quanto di ribadire, soprattutto per l’opinione pubblica interna, la volontà di giocare un ruolo che oltrepassa quello della potenza regionale, ma anche di testare la reazione della Russia ad una invasione del suo spazio vitale o della zona di influenza che Mosca ritiene di sua esclusiva competenza. Occorre ricordare che la Russia è legata all’Armenia da una alleanza molto stretta, che potrebbe obbligarla ad intervenire in prima persona nel conflitto. La strategia di Erdogan appare quella di provocare le intenzioni di Mosca nell’ambito delle questioni regionali, soprattutto in ragione del fatto che la Russia vende armi all’Armenia, ma, contemporaneamente, le vende anche all’Azerbaigian, elemento che pare stia effettivamente considerando il comportamento russo. Il Cremlino, infatti, ha scelto molto responsabilmente, la via diplomatica ottenendo una tregua, che, però, non sembra del tutto rispettata. Le accuse di violazione sono reciproche, anche perché avvengono in una situazione fortemente condizionata da reciproca avversione che si è concretizzato in trenta anni di scontri. L’entrata in campo della Turchia sembra essere una provocazione apparentemente incomprensibile verso Mosca, perché il teatro dei combattimenti è contiguo ad una zona attraversata dal gasdotto turco costruito per il trasporto del gas russo verso il ricco mercato europeo. Oltre i motivi geopolitici, esiste una volontà di Ankara di incidere sui rapporti economici con Mosca per condizionare il ricco mercato del gas? La domanda è legittima per una economia in fase di recessione, come quella turca, che deve risollevare il gradimento del governo nel suo mercato politico interno, ma anche sostenere le spese per la sua politica estera espansionista. A sua volta, la Russia ha problemi di ordine interno non meno gravi, con il calo dei consensi di Putin, che ha registrato per la prima volta cali preoccupanti, oltre che i difficili rapporti con una opposizione sempre più crescente. In politica estera la questione bielorussa preoccupa non poco il Cremlino, già provato dall’impegno in Siria che non ha suscitato entusiasmi tra la popolazione e la questione dei territori russi in Ucraina, che minaccia contraccolpi diplomatici sempre più rilevanti. Considerando questi elementi la scelta della Turchia di appoggiare, se non di iniziare, il conflitto nel Nagorno Karabakh, può essere identificato come un elemento strategico all’interno di una dialettica non sempre univoca, ma che sembra volere verificare le reali intenzioni russe nella regione. Occorre non dimenticare che i rapporti trai due paesi attraversano sempre più spesso delle fasi di avvicinamento ed allontanamento repentine, secondo le reciproche convenienze, che spesso appaiono in contrasto. Risulta verificato che la Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica, ha acquistato, contro il volere della stessa Alleanza Atlantica, apparati di difesa russa in aperto contrasto con la politica e le direttive di Bruxelles; ma poi si è schierata contro il regime siriano sostenuto dai russi, perché sciita, ma non solo, appoggiando gli integralisti islamici sunniti, usati anche contro i curdi, principali alleati degli americani contro lo Stato islamico. Le ripetute violazioni agli interessi dell’Alleanza Atlantica non hanno comunque prodotto alcuna reazione contro Ankara, che si è sentita legittimata a procedere sulla strada dell’arroganza e della violazione del diritto internazionale, praticamente senza sanzioni da parte della comunità internazionale. Attualmente il teatro di scontro del Nagorno Karabakh evidenzia ancora una volta come sia necessario fermare la Turchia, incominciando da sanzioni economiche molto pesanti per limitarne il raggio d’azione, anche perché le conseguenze, già pur gravi dell’attuale conflitto, possono diventare ancora peggiori, se la guerra potrà diventare uno scontro regionale alle porte dell’Europa, ma anche sul confine iraniano, con un impegno diretto che la Russia non potrà rinviare ancora per molto se la situazione non sarà stabilizzata, anche attraverso l’abbandono della presenza di Ankara.  

La Turchia impiega mercenari musulmani in Nagorno Karabakh

La Turchia, in appoggio all’Azerbaigian, cerca di connotare il conflitto in atto anche come guerra di religione; infatti potrebbe essere interpretata in questo senso la presenza di mercenari islamici provenienti dal nord del paese settentrionale. Questo elemento religioso potrebbe avere una doppia valenza: da una parte di ordine pratico e militare per impiegare mercenari già addestrati alla guerriglia e determinati contro il nemico cristiano, dall’all’altra parte darebbero un significato alla presenza turca di una sorta di rappresentanza islamica nel conflitto, funzionale alle intenzioni di Ankara di accreditarsi come rappresentante e difensore della religione islamica. Il contingente siriano sarebbe composto da circa 4000 uomini, che starebbero già combattendo al fianco degli effettivi azerbaigiani. Questa presenza potrebbe essere letta anche in contrapposizione alla volontà egiziana di schierarsi con l’Armenia ed aprire una competizione dal significato religioso come fattore geopolitico; tuttavia l’appoggio turco prevede anche l’impiego di effettivi dell’esercito di Ankara e l’utilizzo di droni ed aerei militari.  L’intenzione di Erdogan è quella di ottenere la vittoria dell’Azerbaigian e di conseguenza occupare la regione e favorire il ritorno del circa milione di azeri che sono stati costretti ad abbandonare il territorio a maggioranza armena. Con questa vittoria il presidente turco cerca di ottenere un argomento spendibile a suo favore, sia sul piano nazionale, che in quello internazionale, per risollevare il suo progetto di rendere la Turchia una protagonista regionale. L’allargamento in territori che la Russia reputa di sua influenza, indica che la Russia sia diventata il bersaglio da colpire approfittando delle difficoltà interne di Mosca e dei suoi difficili impegni negli scenari internazionali. Il fatto che        Erdogan voglia sfruttare il conflitto, sempre latente e mai definito, del Nagorno Karabakh, significa che la Turchia vuole estendere la sua influenza in una zona islamica, seppure a maggioranza sciita, dove viene parlata una lingua molto affine al turco; quindi un carattere culturale, oltre che religioso. La visione turca prevede una stabilità della zona raggiunta a danno dell’Armenia, alleata di Mosca. Il rischio di Erdogan, appare tutt’altro che calcolato, anzi sembra un azzardo quasi disperato, che rivela come la sua gestione del potere non sia così salda come vuole fare credere. L’ingresso diretto sulla scena della Russia è un evento che ha molte probabilità di verificarsi e che provocherebbe un conflitto tra Mosca ed Ankara; le possibilità di successo di Erdogan possono verificarsi soltanto se questa eventualità non si verificasse e perché ciò accada l’Azerbaigian deve riportare al più presto sotto il suo controllo il Nagorno Karabakh terminando le ostilità. Un possibile intervento russo a conflitto terminato non avrebbe la giustificazione di difendere gli armeni e sarebbe più complicato dal punto di vista operativo. Le prossime ore saranno decisive per lo sviluppo dei combattimenti; intanto questa situazione dimostra ancora una volta come Erdogan sia un politico inaffidabile e spregiudicato, pronto ad inserire la religione per favorire i suoi scopi, senza tenere conto delle implicazioni possibili. Un bene che un paese così non sia entrato in Europa.  

Gli USA vogliono imporre le sanzioni all’Iran e si isolano dalla scena diplomatica

La questioni delle sanzioni all’Iran è sempre stato un punto fermo del programma politico di Trump, ora, alla vigilia delle elezioni presidenziali, quando la campagna elettorale si sta intensificando, il presidente statunitense rimette al centro del dibattito internazionale l’intenzione di ripristinare in maniera completa le sanzioni contro Teheran. Questa volontà è stata annunciata dal Segretario di stato americano, giustificandola con la risoluzione numero 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo l’interpretazione americana, l’Iran non avrebbe rispettato gli impegni presi con la firma dell’accordo sul nucleare, accordo dal quale gli USA si sono ritirati in maniera unilaterale. La notifica alle Nazioni Unite, avvenuta il 20 agosto scorso, della volontà statunitense avrebbe, secondo la Casa Bianca, attivato il processo di ripristino delle sanzioni con effetto dal 19 settembre 2020. La coincidenza con la campagna elettorale appare evidente, tuttavia questa intenzione pone gli Stati Uniti in un ulteriore stato di isolamento, che aggrava la posizione americana all’interno del panorama diplomatico. La reazione più eloquente è quella dell’Unione Europea, che denuncia l’illegittimità degli USA nel volere riapplicare le sanzioni. Si tratta di una illegittimità in contraddizione con il diritto internazionale, in quanto gli americani non possono riapplicare le sanzioni di un trattato dal quale si sono ritirati e, quindi, di cui non sono più sottoscrittori. Il dispregio del diritto, piegato alle necessità contingenti di politica interna, peraltro di una sola parte del paese, evidenzia come l’atteggiamento dell’amministrazione in carica sia un misto di imperizia e dilettantismo, dai quali, per l’ennesima volta, il paese ne esce malissimo. Infatti, se le reazioni di Cina, Russia e dello stesso Iran sono contrarie per ragioni di interessi politici nazionali, la posizione dell’Europa si distingue come un progressivo allontanamento dagli Stati Uniti per lo meno se al comando resterà questo presidente. Lo scontro non è solo sul provvedimento dell’applicazione delle sanzioni sulla base di un accordo dal quale Washington si è ritirato in modo unilaterale, ma anche sulla minaccia americana di applicare sanzioni a quelli stati che non si adegueranno alla decisione della Casa Bianca. L’atteggiamento americano è anche una sfida alle Nazioni Unite, uno scontro frontale che può avere conseguenze pesanti sugli equilibri della politica internazionale; infatti le minacce di sanzionare gli altri stati, che non vorranno adeguarsi alla decisione degli USA è una potenziale conseguenza della quasi certa decisione delle Nazioni Unite di non volere adempiere all’attuazione delle sanzioni. Si capisce che una diplomazia ormai costituita solo da minacce e che rifiuta ogni dialogo ed anche l’applicazione delle normali norme di comportamento rappresenta un segnale di debolezza, sia sul breve che sul medio periodo. Ma si tratta anche dell’abdicazione formale al ruolo di grande potenza da parte di un paese che si sta ripiegando sempre di più su se stesso in un momento dove il bisogno di fare fronte comune delle democrazie occidentali contro Cina e Russia appare una esigenza non più rinviabile. Non solo anche il programma “Prima l’America”, lo slogan che accompagna l’azione politica di Trump, sembra essere tradito da questo eccesso di protagonismo che è certamente contro gli interessi degli Stati Uniti. Washington non può proporsi contro l’espansionismo cinese o l’attivismo russo in maniera singolare, perché ha bisogno dell’azione congiunta dell’Europa, che, viene data sempre come sicura, ma a torto: infatti non si può pretendere che il maggiore alleato americano, già insofferente per l’azione di Trump, subisca in maniera passiva queste imposizioni; dal punto di vista commerciale l’Unione Europea non può tollerare di essere sottoposta a sanzioni in maniera illegale e la conseguenza non potrà che essere un irrigidimento dei rapporti anche su temi dove gli interessi americani avevano trovato un’intesa con l’Europa, come gli scenari degli sviluppi delle telecomunicazioni, con l’esclusione della tecnologia cinese. Questo caso mette ancora una volta in risalto come l’Europa debba trovare una modalità per essere sempre più indipendente dagli altri attori internazionali; se nei confronti di Cina e Russia c’è una distanza enorme su temi come i diritti umani, le violazioni informatiche ed anche i rapporti commerciali, che li pone sempre più come interlocutori inaffidabili; gli Stati Uniti, malgrado le politiche di Trump, restavano ancora gli interlocutori naturali, tuttavia la Casa Bianca sembra volere esercitare un ruolo sempre più egemone, che non può essere tollerato dall’Europa. Se le elezioni presidenziali americane non daranno un risultato diverso da quello prodotto quattro anni prima, le distanze con Trump sono destinate ad aumentare: a quel punto Washington potrebbe diventare non tanto diversa da Pechino o da Mosca.

Le implicazioni dell’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti

Il principale significato dell’accordo, che formalizza una situazione già esistente ma ufficiosa, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, è quello di anticipare la possibile sconfitta di Trump e prevenire un nuovo accordo sul nucleare iraniano, che potrebbe rientrare nei piani di Biden nel ruolo di nuovo presidente degli Stati Uniti. La sicurezza nazionale israeliana vale molto di più che l’espansione in Cisgiordania, peraltro solo momentaneamente sospesa. L’interesse di prepararsi ad una possibile ritorno dell’Iran sulla scena diplomatica è condiviso con gli stati sunniti del golfo già da tempo, ma un accordo ufficiale rappresenta una novità di rilievo. Intanto perché rappresenta, probabilmente, solo un primo episodio al quale ne seguiranno altri: infatti ci sono grandi possibilità che Tel Aviv stringerà relazioni diplomatiche anche con l’Oman e con il Bahrain, dove è presente la sede della quinta flotta degli USA; i due paesi hanno espresso le loro congratulazioni con gli Emirati Arabi Uniti per l’accordo che rappresenta un rafforzamento della stabilità regionale. Lo stesso Netanyahu ha definito come circolo della pace della regione quella alleanza informale che sta diventando ufficiale tra Israele e monarchie del Golfo. In effetti la sorpresa per questi accordi non è giustificata perché rappresenta la naturale evoluzione di rapporti che si sono instaurati e sviluppati con il denominatore comune di creare un’alleanza in ottica anti iraniana. Al momento Teheran subisce le sanzioni americane ed è anche in difficoltà per la questione libanese, che vede Hezbollah, suo principale alleato, in netto calo di consensi anche tra gli stessi sciiti del Libano. Un cambio al vertice della Casa Bianca potrebbe migliorare la condizione iraniana, anche se non è scontato, con una direzione diversa della politica estera degli Stati Uniti: questo scenario obbliga Israele e gli stati del Golfo ad ufficializzare i rispettivi rapporti per facilitare la velocità e la coordinazione di eventuali risposte diplomatiche che si dovessero rendere necessarie. Apparentemente ad avere i maggiori svantaggi, perlomeno nell’immediato, sarebbero i palestinesi che vedono rompersi ufficialmente l’ostilità contro gli israeliani da parte del mondo arabo; in realtà Tel Aviv ha già accordi con Egitto e Giordania e da tempo i leader sunniti del Golfo mantengono soltanto un atteggiamento di facciata nei confronti della questione palestinese, a favore, appunto, di una condotta più pragmatica e funzionale ai propri interessi più immediati e diretti. Un ulteriore obiettivo degli accordi, oltre al già citato Iran, sarebbe anche la Turchia, che si sta proponendo come alternativa sunnita alle monarchie del Golfo, per guidare politicamente i fedeli islamici sunniti. Non è un mistero che Erdogan stia da tempo tentando di allargare l’influenza turca, cercando di replicare in versione moderna l’esperienza dell’impero ottomano. Ankara, infatti, non ha accolto bene la notizia dell’accordo, ma la sua reazione, basata sul tradimento della causa palestinese, ne scopre l’ipocrisia e le scarse argomentazioni a disposizione; la Turchia, un tempo vicina ad Israele, vede aumentare il peso politico delle diplomazie del Golfo capaci di portare, certamente per un vantaggio comune, il paese israeliano dalla propria parte. Ma internamente ai protagonisti di questo accordo non tutto è senza problemi: sul lato arabo il protagonismo del principe degli Emirati Arabi Uniti, segnala la crescita di un nuovo protagonista politico rispetto alla posizione del principe ereditario dell’Arabia Saudita, compromesso in varie vicende lesive del proprio prestigio, tuttavia questa contrapposizione potrebbe complicare i legami con Israele della totalità dei paesi del Golfo, anche se è più probabile che gli interessi geopolitici comuni avranno la meglio. Dal lato israeliano, a parte i problemi con i palestinesi, si deve registrare la contrarietà dei coloni e dei partiti che li sostengono per avere interrotto il processo di annessione delle colonie, il solo programma elettorale che ha consentito a Netanyahu la sua longevità politica, nonostante i diversi problemi giudiziari. Tuttavia i partiti di destra che sostengono i coloni, sembrano diventare più marginali nell’ottica degli interessi della sicurezza nazionale e l’apparente voltafaccia del presidente israeliano sembra essere l’ennesima mossa di grande esperienza politica.

La decisione su Santa Sofia, segnale di difficoltà per Erdogan

La decisione del presidente turco Erdogan sull’edificio di Santa Sofia, pur se sancita dagli organi costituzionali del paese, ha tutte le sembianze di un mezzo per risolvere problemi interni, piuttosto che prediligere la politica estera ed il dialogo interconfessionale. Intanto il segnale è unicamente a favore della parte più estrema del radicalismo turco e delinea la direzione che Erdogan intende mantenere, sia nella politica interna, che in quella estera. La questione è fondamentale se inquadrata nella reale posizione della Turchia nel campo occidentale, sia dal punto di vista militare, con il riferimento al rapporto conflittuale con l’Alleanza Atlantica prima di tutto, ma anche dal punto di vista politico in generale, rispetto agli interessi occidentali. Ankara ha patito il rifiuto dell’Unione Europea ad essere ammessa come membro, ma la motivazione appare sempre più giustificata e giusta da parte di Bruxelles; la Turchia, occorre ricordarlo, non è stata ammessa per la mancanza dei requisiti essenziali in materia di rispetto dei diritti, ma, pur lamentando l’iniquità di questa decisione, non si è avvicinata agli standard europei. Al contrario ha iniziato un processo di graduale islamizzazione della vita politica, che ha ulteriormente compresso i diritti civili ed ha impostato sulla persona del presidente la centralità del potere. Un paese sostanzialmente corrotto, che patisce una crisi economica (arrivata dopo un periodo di sviluppo) importante e dove il potere usa uno schema classico quando gli affari interni vanno male: distogliere l’opinione pubblica con temi alternativi e di politica estera. Non per niente Erdogan si è concentrato sulla lotta ai curdi, appoggiando anche milizie islamiche radicali, che combattevano con lo Stato islamico ed aggravando il rapporto con gli Stati Uniti, da ultimo l’avventura libica ha posto la Turchia in aperto contrasto con l’Unione Europea. La questione di Santa Sofia sembra inserirsi in questo quadro ed in questa strategia, tuttavia il contrasto, almeno direttamente, non è con una o più nazioni, ma con autorità religiose che hanno rilevanza ed importanza da non sottovalutare. L’aperta ostilità degli ortodossi può avere delle ripercussioni con i rapporti non proprio cordiali con la Russia è stata integrata dalla dichiarazione di Papa Francesco, che ha espresso dolore personale. Il Vaticano aveva optato per una condotta ispirata alla cautela, in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale turca e per questo era stato fatto oggetto di pesanti critiche proprio dalle chiese ortodosse. Probabilmente l’azione del Papa è stata rimandata fino all’ultimo per preservare il dialogo con Erdogan sulle questioni legate all’accoglienza dei migranti, la gestione del terrorismo, lo status di Gerusalemme, i conflitti in Medio Oriente ed anche il dialogo interreligioso, strumento ritenuto fondamentale per i contatti tra i popoli. Il contatto tra Vaticano e Turchia finora è sopravvissuto perfino alle critiche per il genocidio armeno che il Papa ha espresso più volte, tuttavia la questione di Santa Sofia investe non solo il cattolicesimo ma tutti gli appartenenti alla religione cristiana e le conseguenze potrebbero essere negative nel proseguimento degli stessi rapporti tra cristianità ed islam, che superano, per le loro ricadute, di gran lunga i contatti tra Erdogan e Papa Francesco. Non per niente la trasformazione in moschea di Santa Sofia è vista con preoccupazione anche dai musulmani più moderati, che vivono in Europa. Il fattore interreligioso dovrebbe essere quello di maggiore preoccupazione per Erdogan, dato che ufficialmente non vi sono state critiche da parte di USA, Russia (fattore da valutare con attenzione per l’importanza della comunità ortodossa nel paese e nell’appoggio a Putin) ed Unione Europea. La sensazione è che ciò sia stato dettato dalla volontà di non incrinare ulteriormente il rapporto con la Turchia, malgrado tutto ancora considerata fondamentale negli equilibri geopolitici regionali. Tuttavia la mossa di Santa Sofia sembra essere l’ultima trovata a disposizione di Erdogan per potere usare la religione come strumento di propaganda politica nei confronti di una opinione pubblica che non sembra più appoggiare la sua politica neo-ottomana, a causa di una spesa pubblica sempre più ingente, soprattutto nella spesa militare, ma che non porta miglioramenti sensibili in campo economico alla popolazione turca. Se viene a mancare il sostegno dell’economia, anche a causa di una inflazione in costante aumento, può essere possibile che i settori scontenti per la crescente povertà si saldino con quella parte della società che non condivide politicamente la direzione intrapresa dal presidente turco, ed anzi la contesta apertamente, aprendo uno stato di crisi politica difficilmente di nuovo gestibile con la sola repressione.

Attacchi informatici contro l’Iran

Il confronto militare tra l’Iran e Israele e quindi gli Stati Uniti, starebbe continuando, seppure non in maniera tradizionale, ma sotto forma di guerra cibernetica. Gli ultimi incidenti accaduti nella Repubblica islamica sono sembrati più sabotaggi, che fatti fortuiti. Sono quattro i gravi fatti che si sono susseguiti e che hanno alzato il livello di allarme in Iran: esplosioni nei depositi di gas all’interno di un’area militare della capitale, un incidente in una struttura sanitaria, che ha provocato 19 vittime, dovuto allo scoppio di bombole di ossigeno, un incendio in una centrale termoelettrica nella zona sud occidentale del paese, preceduta da un ulteriore incendio avvenuto in centro di assemblaggio di una centrifuga nucleare. Se, nei primi momenti, gli apparati di sicurezza iraniani propendevano per incidenti, gli ultimi sviluppi potrebbero avere cambiato le impressioni degli inquirenti, lasciando alle cause di cattiva manutenzione soltanto l’incidente avvenuto nella clinica. Il governo di Teheran ha scelto la via della cautela e della prudenza, ma alcuni organi di stampa hanno già insinuato la possibilità di attacchi informatici di provenienza israeliana. I precedenti esistono e sono inquadrati nello sviluppo del virus che danneggiò il programma nucleare iraniano.  Teheran è uno dei firmatari del programma di non proliferazione nucleare, abbandonato da Trump, e secondo l’Organizzazione internazionale dell’energia atomica l’Iran non è vicino all’arma nucleare, nonostante la decisione di riattivare alcune centrifughe e di progettarne di nuove a seguito del ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano, firmato con l’Unione Europea, la Cina e la Russia. Ci sono particolari misteriosi relativamente all’incendio del sito che ospita le officine di assemblaggio delle centrifughe: infatti alcuni giornalisti sarebbero stati avvisati preventivamente che una organizzazione dissidente, forse composta da militari all’interno degli apparati di sicurezza iraniani, avrebbe effettuato un attacco. La presenza di una tale organizzazione all’interno delle forze armate iraniane, appare però poco probabile, proprio per il livello di controllo presente nella società iraniana ed ancora di più nelle sue strutture militari. Ad usare questo stratagemma potrebbero essere state potenze straniere, non per nascondersi al paese iraniano, ma per celarsi all’opinione pubblica internazionale e non subire condanne pubbliche. D’altronde è concretamente possibile che la Repubblica islamica stia cercando di arrivare all’arma atomica, sia per bilanciare l’alleanza ufficiosa tra paesi sunniti ed israeliani, sia per avere uno strumento concreto da esibire all’interno della sua politica di espansione come potenza regionale. Le azioni di sabotaggio andrebbero allora inquadrate in una sorta di pressione psicologica per ridurre la possibilità della presenza di una nuova potenza nucleare nella regione mediorientale, con questa spiegazione si comprenderebbe una potenziale azione israeliana come azione ulteriore in uno scambio di ostilità con Teheran che sta andando avanti da tempo. Allo stesso modo la provocazione verso l’Iran potrebbe favorire una risposta, che consentirebbe agli Stati Uniti di Trump una azione eclatante in periodo elettorale. In ogni caso non si tratta di azioni a senso unico, ancora due mesi prima gli israeliani hanno accusato l’Iran per il sabotaggio di acquedotti, alterati attraverso il mezzo informatico, nel controllo dei flussi e dei sistemi di purificazione e depurazione. Si tratta comunque di un conflitto combattuto in maniera nascosta, per sfuggire agli avversari ed al biasimo internazionale, che resta altamente pericoloso per gli sviluppi negativi che può provocare, ma contro il quale sembra inutile fare appello a favore di un senso di moderazione e di cautela, che non esiste nella pratica e negli obiettivi di alcuni governi.

La minaccia atomica in Corea

La tensione tra le due Coree è tutt’altro che superata, siamo in presenza di una continua gara a superarsi nelle provocazioni. Nei giorni scorsi la Corea del Nord aveva espresso una dichiarazione distaccata ma che sembrava chiudere la diatriba; la Corea del Sud non ha desistito dalle manovre ma, anzi ha intensificato l’attività militare con l’uso di missili anticarro, proprio sul confine conteso. A Pyongyang questi ultimi sviluppi sono stati vissuti come una ulteriore provocazione e ne è scaturita la dichiarazione più pericolosa dall’inizio della vicenda: la Corea del Sud, ha minacciato ufficialmente l’uso dell’arma nucleare come strumento di dissuasione a possibili nuove esercitazioni. Sia gli USA che la Corea del Sud, ufficialmente non hanno dato grande peso alla possibilità di ritorsione nucleare, giustificando le esercitazioni militari come normale routine compiuta da uno stato sovrano nell’ambito dei propri confini. Tuttavia c’è da credere che la minaccia nucleare non sia affatto sottovalutata a nessuna latitudine del pianeta, mai come ora dalla fine della guerra fredda, ma senza le garanzie di allora, siamo stati così vicini ad uno scoppio di guerra non convenzionale che contempli l’uso dell’arma atomica.  Sottovalutare la minaccia non è salutare, Pyonyang è governata da un sistema fuori da ogni logica, forse solo la Cina può esercitare la sua influenza ma nel frattempo sarebbe bene che le parti avverse mantenessero un profilo il più basso possibile. L’ONU deve ora giocare un ruolo fondamentale crecando al più presto soluzione che permetta un’uscita onorevole per tutti gli attori, intavolare delle trattative che definiscano in modo definitivo la questione dei confini deve essere la prima priorità da percorrere come anticamera al problema nucleare.

Per Europa e Cina accordi sui temi economici

La Cina si adopererà per mantenere in buona salute uno dei suoi migliori clienti: l’Unione Europea. In occasione dell’apertura dei colloqui bilaterali sinoeuropei attraverso la dichiarazione ufficiale del vicepremier cinese ha affermato di appoggiare le azioni intraprese da UE e FMI per fronteggiare il debito di alcuni paesi particolarmente in difficoltà, mentre il ministro del commercio estero di Pechino ha dichiarato di prestare grande attenzione al fatto che la crisi del debito europeo sia costantemente sotto controllo. Le preoccupazioni cinesi sono legittime e duplici, la Cina ha come clienti pregiati i paesi europei, che però sono anche investitori e portatori di know-how essenziale per la crescita costante e per l’innalzamento della qualità dei prodotti locali, ma è anche creditrice in quanto detentrice di titoli emessi da tutti i paesi UE. Una situazione  di difficoltà più o meno grave dei paesi europei fa subito scattare il segnale di allarme per l’economia cinese, quindi le istituzioni devono subito attivarsi per bloccare o almeno sedare le crisi sopraggiunte. Già in passato la Cina è intervenuta direttamente per sostenere l’euro, il caso greco è solo quello più eclatante, ma in questa occasione si assiste ad una vera e propria dichiarazione di intenti, non certo disinteressata. Nel vertice bilaterale gli accordi raggiunti prevedono una collaborazione per una crescita sostenibile ma sopratutto per un approccio non protezionistico ai commerci internazionali, eventualità molto temuta dalla Cina e più volte minacciata dagli USA; guadagnare questo impegno dall’Europa significa molto per Pechino, perchè vuole dire che con la UE non si dovrebbe aprire un fronte di mancato accordo sulle tematiche del commercio estero, permettendo maggiore concentrazione sulla battaglia per l’apprezzamento della moneta cinese attualmente combattuta con Washington.

Coree fine dell'incubo?

La Corea del Nord rompe il preoccupante  silenzio dall’inizio delle esercitazioni della Corea del Sud e dichiara, attraverso l’agenzia KCNA, che alle manovre militari di Seul non vale la pena di reagire. Sembra così concludersi positivamente il pericoloso tira e molla seguito al bombardamento dell’isola sudcoreana sul confine dei due stati effettuato da Pyongyang. Evidentemente si tratta di una vittoria della diplomazia che ha operato alacremente al di fuori dei riflettori, tutto il mondo tira un sospiro di sollievo ma le questioni di fondo risultano ancora sul tappeto. L’atomica nordcoreana, il sempre maggiore peso cinese, il controllo delle vie di comunicazione e trasporto marine, il tutto inquadrato nella contrapposizione di alleanze ed equlibri che ruota intorno al rapporto conflittuale tra USA e Cina, con la UE spettatore interessato. La fine della vicenda, se vera fine è stata, segna un punto a favore della collaborazione tra gli stati e l’ONU, che hanno fattivamente collaborato per scongiurare il pericolo di un conflitto sui cui esiti non si potevano prevedere le conseguenze. Molto importante l’azione della Russia, che pur non essendo coinvolta in modo diretto, come USA e Cina, ha voluto assumere un ruolo di protagonista nella soluzione della questione. Probabilmente la molla che ha fatto scattare un impegno tanto fattivo è stato anche il pericolo che l’ago della bilancia si spostasse a favore di uno dei contendenti maggiori che stavano dietro le due Coree, compromettendo così l’equilibrio attuale. In questo momento storico così particolare se lo status quo subisce variazioni di così grande portata, come sarebbe potuto accadere in uno scenario possibile, rischia di innescare una reazione a catena sullo scenario internazionale di portata non facilmente quantificabile. Più defilata la posizione della UE, che ha assunto un ruolo quasi subalterno nella questione, d’accordo che le due Coree sono lontane, ma uno scenario globale come l’attuale richiede un impegno ed una presenza di maggiore peso in tutti i punti caldi ed i nodi cruciali del panorama complessivo.

Israele si sente accerchiato e teme sempre di più l'atomica iraniana

La politica estera Israeliana ha cercato di attivare una sorta di cintura di sicurezza intessendo buone relazioni con i governi di Turchia, Egitto e Giordania, tuttavia gli analisti rilevano che questi buoni rapporti si fermano al livello istituzionale senza incontrare il favore delle rispettive popolazioni. Si tratta di un problema non da poco per il paese della stella di David, giacchè l’intensificarsi della delaicizzazione di questi paesi favorisce partiti e movimenti di stampo religioso. La questione palestinese ha una grande presa su società sempre più islamizzate, dalle più tiepide fino a quelle più integraliste. Con la Turchia, unico paese di religione islamica con il quale esiste un accordo di mutua cooperazione per la difesa, il nocciolo della questione è l’esercito della mezzaluna che sta perdendo quote consistenti di potere all’interno delle istituzioni turche. Le forze armate di Ankara sono tradizionalmente laiche e vedono di buon occhio la collaborazione con Israele anche per gli avanzati strumenti e metodi che l’esercito israeliano condivide con loro, ma il crescente peso politico di partiti a componente religiosa sta rosicchiando sempre più peso specifico nell’importanza politica generale. In Libano la fazione dei cristiano maroniti sembra propendere verso un’alleanza non strategica ma tattica con gli Hezbollah, questo determinerebbe la fine dei rapporti con . Sono tutti segnali che innervosiscono Tel Aviv e contribuiscono a generare un pericoloso senso di accerchiamento in una fase molto difficile contrassegnata dal pericolo nucleare iraniano. Il rischio di conflitto aleggia sempre, la situazione iraniana non si sblocca nonostante le sanzioni ONU e la condanna internazionale, Israele teme concretamente l’atomica iraniana ed un possibile uso contro i suoi territori, ciò rende pericolosamente instabile il suo atteggiamento combatutto tra cautela e voglia di intervento. Fino ad ora si è preferito esercitare mezzi di contrasto alternativi come la guerra elettronica ed il sostegno agli oppositori del regime degli Ayatollah, ma l’accumulo di armamenti pesanti alla frontiera insieme all’esercito USA è un fatto concreto. D’altra parte proprio gli USA pensano di dotare uno scudo nucleare per i paesi arabi propri alleati in caso di avvenuta costruzione dell’atomica di Teheran. Dunque in mancanza di successo, come pare, della soluzione diplomatica si passa alla fase della minaccia militare, è un passo rischioso che si gioca su equlibrismi fortemente instabili, meglio sarebbe avesse successo la carta dell’opposizione interna che, però al momento non pare in grado di rovesciare un regime che gode di grande capacità di controllo interno ed anche di consistente appoggio popolare. La vicenda è ora aperta a tutte le soluzioni speriamo prevalga l’equilibrio e la ponderazione.