Putin favorito dall’inconsistenza dell’Occidente

Alla fine i peggiori presagi si sono verificati: Putin ha mantenuto la sua condotta, basata su bugie e menzogne ed ha attaccato militarmente il paese ucraino, potendo contare su di una reazione occidentale, che definire timida è usare una espressione di cautela. Tutti le minacce di ritorsioni si sono rivelate ben poca cosa di fronte alla determinazione del Cremlino, che ha alzato ancora di più il livello delle minacce proprio contro le democrazie occidentali. Le condanne dei leader occidentali sono state parole di circostanza ed hanno rassicurato la Russia con la rassicurazione che alcun soldato occidentale opererà sul suolo ucraino, abbandonando, di fatto, Kiev al suo destino. Si tratta della logica conclusione dell’impegno americano sul fronte europeo, già ridotto a partire da Obama, una scelta legittima, ma che danneggia i principali alleati degli Stati Uniti, forse sul breve ma sicuramente nel medio periodo ed inficia la stessa leadership americana, non solo politica ma anche economica. La Russia ha agito in questa maniera perché non vuole l’Alleanza Atlantica sui suoi confini, ma conquistando l’Ucraina i confini si spostano fino alla Polonia ed ai paesi baltici, dove la presenza militare occidentale è ormai radicata. Il Cremlino sopporterà questa presenza o non la tollererà, come, peraltro Putin ha fatto capire più volte? Difendere materialmente l’Ucraina con una presenza preventiva dell’Alleanza Atlantica, dopo averla accolta al suo interno, poteva essere una azione di dissuasione, che poteva permettere negoziati in grado di trovare una convergenza, anche se basata probabilmente su di una sorta di equilibrio del terrore. Al contrario si è voluto scegliere la strada della cautela, che ha sconfinato nella pavidità e nella tutela degli interessi commerciali dell’Europa, che non ha mai voluto impegnarsi in una difesa attiva di sé stessa. Gli Stati Uniti, dopo l’errore enorme dell’Afghanistan, ripetono lo sbaglio di lasciare il campo ad avversari più agguerriti e determinati, scegliendo un disimpegno i cui effetti negativi si vedranno del tutto sul lungo periodo. Biden cancella tutte le impressioni positive che lo accompagnavano alla sua elezione e ripete, sebbene nei comportamenti in maniera più discreta, tutti gli insuccessi in politica estera del suo predecessore e passerà alla storia come uno dei peggiori presidenti americani, proprio al pari di Trump. Questo andamento viene da lontano ed è cominciato fin da Obama, ma un punto così basso, costituito dalla somma del caso afghano con quello ucraino, non era mai stato toccato dalla prima superpotenza mondiale. Il comportamento americano ha lasciato impreparata l’Europa e ciò non doveva accadere, ancora senza una politica estera ed una difesa comune, divisa al suo interno da stati non consoni di essere stati inclusi dentro l’Unione e divisa da interessi commerciali contrastanti tra i suoi membri; tra l’altro uno degli obiettivi collaterali di Putin, perseguiti con la guerra ucraina è proprio quello di aumentare le divisioni europee e contribuire alla creazione immediata di nuovi problemi tra gli stati membri, il primo dei quali sarà alimentato dal flusso crescente dei profughi provenienti dall’Ucraina. La Gran Bretagna, se possibile si è comportata ancora peggio, il premier inglese sembrava che volesse procedere a sanzioni oltremodo pesanti contro la Russia, ma poi ha deciso per una serie di misure che non colpiscono gli oligarchi presenti sul suo territorio perché portatori di ingente liquidità nell’economica britannica. Ora Putin ha ottenuto una vittoria prima di tutto politica, mettendo in mostra l’inconsistenza dell’Occidente, che potrebbe autorizzarlo verso obiettivi più elevati dell’Ucraina e non per niente il timore nelle repubbliche Baltiche ed in Polonia si è alzato di molto: le sanzioni elaborate colpiscono solo il 70% dell’economia russa e non la sua potenza militare e le minacce contro eventuali interventi al fianco di Kiev, sembra che hanno avuto gli effetti desiderati dal Cremlino   ed hanno evidenziato come il problema è certamente prima di tutto geopolitico ma immediatamente dopo investe i valori democratici, la sovranità degli stati, l’autodeterminazione dei popoli ed il rispetto del diritto internazionale, base minima di convivenza tra le nazioni. L’impegno per questi valori deve essere diretto e la loro difesa deve riguardare tutti gli stati che si fondano su di essi, per non incorrere loro stessi nella perdita di queste prerogative. Il contrario significherebbe tornare nella dittatura e nella negazione della democrazia, come sta accadendo all’Ucraina.

Le reazioni alla decisione di Putin di schierare le truppe nell’Ucraina orientale

Dopo la dichiarazione di Putin, che ha riconosciuto come indipendenti la Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, dichiaratamente filorusse e quindi formalmente sottratte alla sovranità di Kiev, l’Ucraina ha richiesto una riunione di urgenza del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, che per una curiosa coincidenza è stata presieduta proprio dalla Russia. La maggior parte dei membri del Consiglio hanno condannato sia il riconoscimento, che la successiva decisione di schierare truppe nell’area, che costituisce il primo passo dell’invasione del territorio ucraino, sebbene sia quello conteso tra Mosca e Kiev. Dal punto di vista di Putin il riconoscimento ufficiale autorizza l’appoggio dei militari russi agli insorti filorussi ed alle loro milizie, ma dal punto di vista del diritto internazionale costituisce una evidente violazione, che, peraltro, non è la prima operata dal Cremlino. Il fatto che Mosca definisca i propri soldati come peacekeeper aggrava il giudizio sulla Russia, che si nasconde in modo maldestro dietro a definizioni ipocrite, che oltrepassano l’ambiguità ed il buon gusto. La seguente dichiarazione di Washington apre ad una serie di sanzioni senza precedenti, che coinvolgerà tutti gli alleati degli USA e le cui conseguenze si annunciano molto pesanti per l’economia mondiale e gli equilibri generali. Nell’immediato la volontà di Putin è quella di assicurarsi una zona cuscinetto tra la Russia e l’Ucraina, per evitare di avere sull’immediato confine russo la presenza dell’Alleanza Atlantica, anche se l’ingresso di Kiev è stato più volte smentito da Bruxelles, tuttavia l’accelerata del Cremlino potrebbe cambiare la situazione: fino ad ora l’Alleanza Atlantica ha smentito di avere in programma di accettare il paese ucraino tra i suoi membri, ma questa evoluzione apre ad ogni possibile sviluppo. L’azzardo di Putin minaccia, però, la consistenza economica del paese russo, che difficilmente potrebbe resistere alle sanzioni preventivate, aprendo scenari che potrebbero consistere in un drastico calo della sua popolarità in Russia. Abbastanza prevedibili le posizioni degli alleati degli Stati Uniti, concordi della concreta possibilità che si stiano creando le condizioni per un conflitto quasi globale; la quasi totalità ha espresso giudizi di condanna sulla violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina e per la violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite. Il rappresentante della Russia alle Nazioni Unite, al contrario, ha sostenuto la decisione di Mosca per tutelare l’etnia russa dei territori riconosciuti e di come il riconoscimento sia stato a lungo ponderato ed ha invitato le potenze occidentali a non abbandonare la soluzione diplomatica. L’Ucraina, da parte sua, ha ribadito la sovranità sui propri territori ed ha praticamente sfidato la Russia, in uno scontro che non pare in grado di sostenere. Molto più attenuata la posizione della Cina, che malgrado la vicinanza più volte espressa alla Russia, non deroga dai propri principi in politica estera, scegliendo una sorta di equidistanza e raccomandando alle parti in causa la massima prudenza e l’intensificazione dell’azione diplomatica. Aldilà dell’avversione agli Stati Uniti ed il gradimento della politica russa, Pechino dimostra di temere maggiormente i contraccolpi di una crisi economica a livello globale, che potrebbe mettere in pericolo la crescita cinese; tuttavia la scelta di non recitare un ruolo da protagonista, soprattutto per incrementare una azione pacificatrice, da parte di Pechino, rivela come la Cina sia ancora ben lontana da diventare quella grande potenza a livello globale, che dice di volere diventare. L’occasione di recitare un ruolo da protagonista, senza essere al fianco di una delle due parti, ma soltanto in favore della pace, poteva costituire una prova vista con favore da tutte le angolazioni, anche nel caso di mancata riuscita, viceversa questo atteggiamento pavido rivela tutta l’inesperienza e la mancanza di capacità di rischio del governo di Pechino, che resta troppo legato agli aspetti economici a discapito di quelli di politica internazionale. Il presidente Biden ha espressamente ordinato di vietare ogni tipo di finanziamenti, investimenti e transazioni commerciali con le aree invase dalla Russia e ciò rappresenta, senz’altro, la prima soluzione che precederà le ben più pesanti sanzioni già minacciate e previste per l’atteggiamento deciso dalla Russia. Di seguito cosa possa accadere è difficilmente pronosticabile.

Crisi ucraina: l’Unione Europea mantiene un atteggiamento di attesa

L’atteggiamento dell’Europa, di fronte alla crisi ucraina, rimane improntato al massimo utilizzo della diplomazia, anche dopo che l’aumento della presenza dei militari russi al confine tra i due paesi. I segnali, che Bruxelles ha inviato verso il Cremlino sono di sostegno ad una soluzione negoziata tra le parti, che deve escludere ogni soluzione militare, ma, nel contempo, è stata ribadita la ferma volontà di procedere con sanzioni particolarmente dure, se Mosca opererà una aggressione contro Kiev. Il presidente del Consiglio europeo ha ribadito al presidente ucraino la solidarietà dell’Unione Europea, assicurando la reazione di Bruxelles per continuare a garantire la pace, la stabilità mondiale e la sicurezza comune, concetti che coincidono con i valori europei; tuttavia occorrerà verificare se a queste dichiarazioni seguiranno passi concreti, che si annunciano necessari anche prima di una eventuale invasione del paese ucraino. La situazione, infatti, dopo la speranza di un epilogo positivo, sembra essersi di nuovo aggravata in una zona del confine lunga circa 200 chilometri. Numerose esplosioni, si parla di circa 500, segnalano l’inizio di bombardamenti nei territori contesi, dove si sarebbero verificati anche combattimenti che hanno avuto come protagoniste le forze non regolari che fiancheggiano la Russia. Più volte l’Alleanza Atlantica ha avvertito della possibilità che la Russia possa prendere a pretesto qualsiasi occasione per giustificare l’invasione, fino a prospettare la costruzione di falsi attacchi contro i propri militari. L’attuale contesto di combattimenti al confine, seppure con truppe non regolari, potrebbe essere il pretesto decisivo per portare a compimento l’invasione dell’Ucraina, anche per superare il problema dell’innalzamento delle temperature, che costituisce un ostacolo di notevole gravità per i movimenti dei mezzi pesanti e corazzati del Cremlino. Al momento, comunque, l’Unione Europea non ha giudicato la situazione dei combattimenti registrati, tale da alzare il livello dello scontro diplomatico e quindi di non attivare sanzioni contro Mosca, sanzioni, che per il regolamento vigente, dovranno essere approvate all’unanimità e malgrado le convinzioni dell’Alto rappresentante della politica estera europea circa la compattezza della risposta di Bruxelles, questo risultato non appare così scontato. I dubbi potrebbero riguardare il paese ungherese e la stessa Germania non è apparsa troppo convinta a prendere posizioni nette contro Putin. Le armi che l’Unione intende usare riguardano sanzioni in grado di colpire settori finanziari e tecnologici, oltre al blocco di movimento di uomini d’affari russi, che operano solitamente all’interno del territorio dell’Unione. Resta da verificare se la convinzione dei dirigenti europei, di essere in grado di colpire in maniera molto dura la Russia, sia veritiera; certamente l’economia russa appare in difficoltà, ma occorre valutare attentamente quali sono le attese di Putin circa ad un risultato che possa garantire di fermare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica fino ai confini del territorio di Mosca: è più importante una vittoria politica, seppure grazie ad una affermazione militare, o non compromettere ancora la situazione di una economia in stato di crisi; importante sarà vedere come potrebbe reagire l’opinione pubblica del paese, comunque sensibile agli aspetti nazionalistici, ma provata da difficoltà di ordine finanziario ed economico. Risulta chiaro che la leadership europea punti la sua strategia su questo secondo punto, ma ciò non sembra bastare per una azione efficace; ancora prima di questa strategia delle sanzioni occorre offrire una soluzione che comprenda una via di uscita onorevole per Putin, senza che questa sia percepita come sconfitta politica. Trovare una soluzione soddisfacente per tutte le parti in causa non appare agevole: Putin, che come al solito ha agito alzando troppo il livello dello scontro con richieste francamente irricevibili, si è infilato da solo in una situazione senza apparente via di uscita, dove il risultato, aldilà di ogni possibile risultato finale, potrà comunque essere deleterio per il capo del Cremlino. Se l’adesione dell’Ucraina al momento non rientra nei piani dell’Alleanza Atlantica, potrebbe essere un punto che, quanto meno, potrebbe allentare la tensione, anche solo momentaneamente e rappresentare il punto di partenza per trattative senza l’incombenza della minaccia militare, tuttavia ciò potrebbe non bastare, come potrebbero non bastare le sanzioni ed, a quel punto, occorrerebbe essere già pronti alle conseguenze di un conflitto che riguarderà tutto l’Europa geografica.   

La Commissione europea sanziona la Polonia

La Polonia finalmente paga il proprio atteggiamento arrogante ed il disprezzo delle regole nei confronti delle istituzioni europee. L’antefatto è costituito dall’ostinazione allo sfruttamento di una miniera di carbone, situato nel territorio della Repubblica Ceca, da parte di una società statale polacca, che ha generato un contenzioso tra Praga e Varsavia; contenzioso regolato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea in Lussemburgo. Il tribunale dell’Unione ha condannato la Polonia a non continuare l’opera di sfruttamento del giacimento della Repubblica Ceca; il rifiuto di Varsavia di conformarsi a questa sentenza ha generato una multa pari a 500.000 euro al giorno, che sommati per tutte le giornate di inadempienza sono arrivati a costituire una somma pari a 70 milioni di euro a carico dello stato polacco. Nonostante l’accordo raggiunto successivamente tra i due paesi, Ursula Von der Layen ha confermato la sanzione, mettendo in chiaro che ad alcuno paese membro dell’Unione è consentito violare le norme comunitarie. Ad aggravare la situazione è stato anche l’atteggiamento sprezzante del governo di Varsavia contro la corte lussemburghese , accusata di volere imporre le proprie regole in maniera arbitraria. Non è escluso che senza questi attacchi la multa potesse essere ridotta o, addirittura non applicata, ma i comportamenti del governo nazionalista della Polonia sono da tempo sotto l’esame delle istituzioni europee, soprattutto per l’atteggiamento anti liberale ed anti garantista nei confronti dei diritti civili. La soluzione della Commissione europea sarà, quindi, quella di sottrarre una quota dei fondi destinati alla Polonia pari all’ammontare totale della multa, i già citati 70 milioni di euro. Dal punto di vista tecnico non si tratta più di una decisione legale, perché a seguito dell’accordo tra Praga e Varsavia, la sentenza della corte del Lussemburgo diviene sorpassata, ma del mantenimento della sanzione amministrativa come puro atto politico, che segna un precedente di indirizzo della politica comunitaria, tanto è vero che il caso costituisce una novità, essendo la prima volta che la Commissione europea agisce trattenendo dei fondi in seguito al mancato rispetto di una sentenza. Inoltre la Polonia dovrà versare anche 45 milioni di euro alla Repubblica Ceca per i danni conseguenti alla mancata sospensione dell’attività estrattiva. Il paradosso della dichiarazione del governo polacco di avere dichiarato che si opporrà in tutte le sedi appropriate contro la decisione della Commissione è che l’unica sede dove appellarsi è proprio quella Corte di giustizia europea che ha sede in Lussemburgo e che è stata praticamente disconosciuta dal governo polacco. Varsavia appare così in un vicolo cieco nei confronti della Commissione, anche perché resta aperta la questione del tribunale disciplinare che minaccia l’indipendenza della magistratura polacca; anche in questo caso la Corte lussemburghese ha provveduto a dichiarare illegale la nuova istituzione, che comunque continua ad esercitare la sua funzione in aperto contrasto con le disposizioni dell’Unione. La tensione tra Varsavia e Bruxelles è quindi arrivata ad un punto molto elevato, malgrado le speranze dell’esecutivo populista della Polonia, che sperava in una sorta di distrazione delle istituzioni europee, maggiormente concentrate sulla questione ucraina e dei profughi provenienti dalla Bielorussa. La scelta della Commissione, al contrario, ha privilegiato una azione sanzionatoria per ribadire l’indirizzo politico che si è voluto intraprendere: quello di evitare la ripetizione, come spesso accaduto troppo spesso in passato, di tollerare il comportamento di alcuni stati membri in aperto contrasto con i principi in vigore ed ispiratori della casa comune europea. L’atteggiamento utilitaristico a senso unico, cioè a solo proprio vantaggio, di troppi membri europei non è più tollerabile in una associazione di stati la cui adesione è libera ma vincolata a norme specifiche, che devono essere universalmente accettate una volta diventati membri dell’Unione. Stati come la Polonia iscrivono nel loro bilancio somme sostanziose, che spesso rappresentano la maggior parte del loro budget, direttamente provenienti dall’Unione, senza fornire il contributo richiesto in materia di collaborazione con gli le altre nazioni ed applicazione e rispetto del diritto europeo; si tratta sostanzialmente di paesi non affidabili, verso i quali la sanzione della mancata corresponsione dei fondi deve costituire soltanto il primo avvertimento, propedeutico a sanzioni ben più gravi e definitive. La politica del superamento dell’unanimità non potrà che favorire questa direzione e forse resteranno soltanto gli stati fortemente convinti dell’idea di Unione, con i loro vantaggi ma anche i loro obblighi, certamente rispettati e non messi in discussione.     

Cina e Russia verso una alleanza contro gli USA

Russia e Cina sembrano sempre più vicini ed il loro legame si rinsalda grazie al nemico comune, gli Stati Uniti. Se Mosca evitare l’allargamento dell’Alleanza Atlantica è diventato una esigenza nazionale, per Pechino il contenimento di Washington sul piano internazionale diventa un programma ancora più ambizioso, perché è il chiaro segnale di contenere gli USA, utilizzando anche una questione apparentemente lontana e senza importanza strategica per gli interessi cinesi. Sembra che la direzione intrapresa sia quella di una alleanza sempre più stretta tra le due superpotenze, che hanno interessi coincidenti per unirsi contro gli americani. Appare particolarmente significativo che il primo incontro in presenza, da oltre due anni, con un leader straniero, Xi Jingping lo abbia riservato proprio a Putin nel momento di massima tensione della Russia con gli Stati Uniti e forse alla vigilia di una possibile invasione dei militari di Mosca in Ucraina. Alla base di questa collaborazione sempre più intensa, non vi è solo l’avversione agli Stati Uniti, ma anche una più ampia convergenza contro i moti popolari in nome di maggiori garanzie a favore dei diritti, che hanno contraddistinto i due paesi. Una visione nettamente opposta agli ideali democratici occidentali, che si pone come un vero e proprio scontro di civiltà, capace di portare grande instabilità nel mondo. Sia Mosca che Pechino, sono stati condannati più volte dall’occidente, per il loro atteggiamento antidemocratico, che hanno perpetrato con repressioni di massa e lotta violenta contro il dissenso: per questo comune atteggiamento nella politica interna verso gli oppositori, un reciproco sostegno, inquadrato come legame internazionale, serve a giustificare il loro operato proprio sulla scena mondiale. Per la Cina la vicinanza della Russia riveste anche un particolare significato, perché Mosca riconosce il diritto cinese a rivendicare una sola Cina, contro quindi le aspirazioni di Taiwan, peraltro sempre più vicino agli Stati Uniti per ovvi motivi di necessità. La versione ufficiale del progressivo avvicinamento dei due paesi è la realizzazione del vero multilateralismo, cioè una collaborazione paritaria dei due paesi ad una alleanza più stretta, che sembra sempre più prossima; tuttavia l’alleanza tra Cina e Russia non potrà che essere asimmetrica più il tempo andrà avanti. Esiste un evidente vantaggio di posizioni tra Pechino e Mosca, a tutto vantaggio per la prima, sia dal punto di vista economico, dove Mosca non può competere con la differenziazione produttiva cinese, perché ha ancora una economia basata esclusivamente sulle risorse naturali, sia dal punto di vista militare, che da quello geopolitico. L’impressione è che Mosca sia ben conscia di questa differenza, che nel futuro potrà creare attriti non da poco, ma, al momento, abbia la necessità di avere al suo fianco il maggiore paese in grado di contrastare gli Stati Uniti, soprattutto nel caso di un effettivo intervento militare nel paese ucraino. Certo anche economicamente Mosca deve garantirsi mercati alternativi di fronte alla possibilità di incorrere in sanzioni economiche ed a questo scopo ha aperto all’aumento della quantità di gas destinato proprio alla fornitura della Cina. Sebbene questa possibile alleanza apra a scenari di forte preoccupazione, si può leggere anche come una necessità dei due stati di sorreggersi simultaneamente e di evitare una sorta di isolamento, che stanno già patendo per le loro azioni repressive all’interno delle loro nazioni. La riprovazione internazionale, maggiormente proveniente dalla parte occidentale, ma non solo, è una fonte di grande preoccupazione, soprattutto per la Cina e le ricadute economiche che l’ostracismo verso Pechino può produrre. Per la Russia è molto sentita la necessità di potere contare su alleanze con altri paesi e la prossima tappa potrebbe essere rappresentata dall’Iran, tuttavia si tratta di una tattica che accentua il legame con stati dove la repressione è la politica di comune esercizio e ciò non fa che allontanare Mosca dall’Europa il partner economico di cui ha maggiore bisogno, per risollevare la propria economia disastrata, anche se il legame energetico con i paesi dell’Unione appare di difficile dissoluzione, per le reciproche necessità. Più preoccupante sarà vedere la reazione degli Stati Uniti: le conseguenze che si rischiano di generare sono fortemente preoccupanti, non solo per dossier ucraino, ma anche per quello di Taiwan e per lo stesso nucleare iraniano.   

La strategia russa di espansione è anche in Africa

La strategia russa di presidiare le zone che ritiene funzionali ai propri interessi non riguarda solamente  i territori posti sul proprio confine, dove intende applicare la sua influenza in maniera esclusiva, ma anche altre zone del mondo, che hanno assunto particolare rilevanza internazionale; è il caso dell’Africa, sempre al centro dell’attenzione, non solo per la ricchezza delle sue risorse, ma, anche per la crescente importanza geostrategica nel teatro globale. Questa volta la questione riguarda la presenza di mercenari russi, che hanno il sicuro benestare del Cremlino e, probabilmente, agiscono per suo conto, nei paesi africani di Mali, Libia, Sudan, Repubblica Centrafricana, Mozambico e Burkina Faso. Questa presenza, sempre più ingombrante, desta molta preoccupazione in Europa e specialmente in Francia, da sempre impegnata direttamente in queste zone. Il territorio dove sono presenti i mercenari russi è quello del Sahel, dove si concentrano milizie ed aderenti allo Stato islamico, che costituiscono una minaccia quasi diretta per il continente europeo ed il Mediterraneo. Controllare questa zona significa regolare anche i traffici migratori ed usare il terrorismo e lo stesso flusso dei migranti come mezzi di pressione sull’Unione  Europea. Si comprende, così, come la presenza russa sia funzionale ad esercitare una pressione sugli alleati degli USA, sia in generale, che in questo momento particolare, dove la questione ucraina è al centro della scena. L’evoluzione dei rapporti tra la giunta golpista del Mali e la Francia ha assunto connotati particolarmente negativi, culminati con l’espulsione del massimo rappresentanti di Parigi, l’ambasciatore francese. La presenza francese nel Mali è consistente: sono circa cinquemila i soldati direttamente impegnati a combattere la presenza delle milizie dello stato islamico e questa presenza è considerata strategica sia dalla Francia, che dalla stessa Unione Europea. La Francia ha più volte avvertito il Mali della necessità di una maggiore attenzione verso la presenza degli aderenti allo Stato islamico, tuttavia il governo militare, che si è insediato dopo il golpe, ha dimostrato di non gradire affatto la politica francese, percependola come una ingerenza nei propri affari interni, circostanza che ha fatto sospettare, se no una commistione con le milizie radicali, almeno la volontà di usarle come mezzo per contrastare l’azione francese, perché in contrasto con la presenza del governo golpista. Inoltre l’utilizzo di milizie russe, controllate da persone vicine al presidente Putin, da parte del nuovo governo maliano, rappresenta un chiaro segnale di dove vuole dirigersi la politica estera del nuovo esecutivo del paese africano. Anche nel Burkina Faso, dove un golpe ha permesso il cambio di governo da poco tempo, pare che si registri la presenza dei mercenari russi appartenenti alla stessa compagnia presente in Mali. Questa strategia russa completa l’azione degli stessi mercenari presenti in da più tempo in Libia, Sudan e Centrafrica, che svolgono missioni per garantire gli interessi di Mosca nella regione attraverso la fornitura di armi, addestramento e presidio militare ai governi ed anche al sostegno di fazioni politiche extra governative, ma che possono essere funzionali agli scopi della federazione russa. Questa situazione pone interrogativi sostanziali sulla efficacia della sola azione diplomatica scelta dall’Europa e che, ormai, appare insufficiente per proteggere i propri interessi nella regione africana di fronte all’insorgenza di soggetti internazionali, come Russia e Cina, sempre più presenti e pronti, non solo a rimpiazzare l’Unione , ma anche a d esercitare pressioni dirette per condizionarne l’atteggiamento internazionale. La necessità di una forza militare europea e di una zione politica estera comune si fa sempre più impellente e necessaria: non è più il tempo di indugiare, pena un ridimensionamento politico, ma anche economico dell’Unione sullo scacchiere internazionale.

Nella questione ucraina, l’Europa è marginale

All’interno della situazione ucraina, l’Unione Europea non sta interpretando un ruolo da protagonista a causa dell’esclusione dei colloqui che Putin tiene regolarmente con gli USA e l’Alleanza Atlantica. Questa di situazione di emarginazione è comprensibile se si considerano le ragioni di Putin, che non vuole intenzionalmente altri protagonisti vicini agli Stati Uniti al tavolo delle trattative e, nel contempo, continua nella sua opera di divisione degli alleati occidentali, ma il mancato coinvolgimento da parte di Washington, che doveva esigere la presenza di Bruxelles ai negoziati, appare molto grave. Sulla questione si possono fare delle ipotesi, che se vere potrebbero portare ad una situazione difficile tra le due parti. Innanzitutto è singolare che ne gli USA e neppure l’Alleanza Atlantica abbiano sentito il bisogno della presenza europea: non si può non pensare al risentimento di entrambi i soggetti per la volontà di creare una forza armata direttamente costituita dall’Unione Europea, che è stata interpretata oltre oceano come una alternativa all’Alleanza Atlantica e quindi alla influenza americana, sia dal punto di vista strategico, che politico ed anche economico, visto la grande partita delle commesse militari che è in gioco; tuttavia la Germania cerca comunque di rientrare nella partita diplomatica, approfittando dello scalo del Segretario di stato americano e coinvolgendo anche Francia e Regno Unito. Berlino, con questa manovra, gioca, però, una partita singola, sganciata da una auspicabile azione europea. Certo riconoscere che la questione centrale è il mantenimento dell’ordine e della pace è una questione essenziale per l’Europa, appare un fatto scontato, che non fa altro che rinnovare la marginalità dell’Unione. Sebbene l’Europa abbia l’aspirazione di un ruolo di rilievo, la strategia tedesca è apparsa una via di mezzo tra tentativo dilettantesco e manovra azzardata. La Francia avrebbe l’intenzione di fare intraprendere una propria azione diplomatica all’Unione nei confronti di Mosca, ma il timore è che gli Stati Uniti non gradiscano questa iniziativa alternativa e che la scarsa forza contrattuale europea di fronte alla Russia, determini una iniziativa con scarse conseguenze pratiche ma con ricadute politiche molto negative. D’altra parte le intenzioni nei confronti della Russia, in caso di invasione dell’Ucraina, sono molto differenti: se Washington arriva a propendere addirittura per una risposta militare, anche se preceduta da forniture di armi verso Kiev e pesanti sanzioni economiche, l’Europa punta esclusivamente sul dialogo, perché troppo coinvolta da eventuali sanzioni contro Mosca a causa dei legami economici e della dipendenza delle forniture energetiche che arrivano dal paese russo. L’Europa si trova in una situazione di stallo a causa della mancanza cronica di una politica estera ed economica, specialmente insufficiente sul tema degli approvvigionamenti energetici, che ne condizionano ogni possibile mossa. Gli stessi Stati Uniti si stanno muovendo con la massima cautela, atteggiamento che potrebbe essere scambiato per debolezza da Putin, che continua ad avvicinarsi in modo preoccupante allo scontro. Alla Russia è stata lasciata troppa libertà di manovra, rivendicare la propria area di influenza sui territori che appartenevano all’ex impero sovietico può essere comprensibile, ma non è tollerabile costringere stati e popoli che non gradiscono questa soluzione; intanto il fine ultimo di Putin è quello di non avere stati democratici sui propri confini per evitare pericolosi contagi con la popolazione russa, già molto insoddisfatta dello stato di cose, questo è l’obiettivo primario, il secondo, quello ufficiale, di rifiutare la presenza dell’Alleanza Atlantica sui propri confini può avere giustificazioni strategiche che non si conciliano con l’autodeterminazione delle nazioni sovrane. Basterebbe solo questo per superare perplessità di ordine economico da parte degli europei: l’avanzata russa, quella si, ai confini dell’Unione è un fattore di pericolosa destabilizzazione dell’assetto europeo, soprattutto con stati all’interno dell’Unione dove spirano sentimenti antidemocratici, che Bruxelles non dovrebbe più tollerare. Pur con tutti i dubbi legittimi, l’Europa dovrebbe affiancare in maniera convinta gli Stati Uniti per contenere Putin e proprio la mancanza di questa convinzione ne determina la marginalità, che non potrà essere superata finché verranno mantenute queste posizioni troppo timide e moderate contro la prevaricazione della democrazia.

Le migrazioni come fattore di impatto sugli equilibri geopolitici e come dinamica europea

Uno degli effetti della pandemia, strettamente connessa all’aumento della miseria, è l’incremento delle migrazioni di persone con modalità irregolari, verso l’Europa; gli ultimi dati segnalano livelli numerici preoccupanti e tali da rendere sempre di maggiore difficoltà la gestione del fenomeno. Questi dati, inoltre, indicano che la tendenza della pressione migratoria non potrà che essere in aumento nel futuro, sia prossimo che di medio e lungo periodo, proprio per gli squilibri della diseguaglianza generati dalla pandemia, che vanno ad unirsi alle ragioni pregresse delle migrazioni: conflitti, carestie e fenomeni atmosferici causati dal riscaldamento globale. Queste cause sono ben conosciute dagli analisti e dai politici, ma presso l’Unione Europea resta un atteggiamento quasi passivo, caratterizzato dall’assenza di una visione comune, per la mancanza di strumenti efficaci da parte di Bruxelles e per interessi ed impostazioni politiche contrastanti, che, di fatto, impediscono un approccio unitario e risolutivo del problema. Il 2021 ha segnato un aumento di circa il 57% di arrivi, rispetto all’anno precedente, segnato dall’insorgere dalla pandemia, ma proprio gli effetti del covid hanno provocato una maggiore concentrazione della ricchezza a svantaggio dei paesi poveri ed è una delle cause dell’aumento della povertà estrema di oltre 800 milioni di persone, che generano sempre maggiori bisogni di cercare alternative al proprio stato di indigenza. A contribuire alle migrazioni vi è anche l’uso della pressione sull’Unione Europea proprio attraverso l’utilizzo delle rotte migratorie come fattore di ricatto ai paesi occidentali e come strumento per aumentare la divisione dei contrasti tra i membri di Bruxelles. Per ultimo è stato il dittatore bielorusso ad utilizzare questi metodi, rifacendosi a quanto già fatto dai libici e dagli egiziani, tra gli altri. L’impressione è che questo uso politico sfrutti la quantità delle migrazioni indirizzandole, ma non incida più di tanto sul dato numerico complessivo quanto sull’utilizzo di rotte migratorie piuttosto che altre; tuttavia si tratta di una insorgenza che a livello politico dovrebbe stimolare una maggiore compattezza tra i membri europei ed invece sortisce l’effetto opposto. Si tratta di un elemento da non sottovalutare affinché l’Europa non diventi vittima passiva di strumenti che sono vere e proprie sanzioni di tipo asimmetrico, contro le quali il sentimento di identità nazionale di sovranisti o della condotta dei paesi dell’est Europeo, alla lunga, possono poco, proprio perché vanno a compromettere la convivenza tra i membri dell’Unione. Certamente il fatto di usare esseri umani in grande difficoltà pone questioni su come intrattenere rapporti con chi usa questi strumenti, ma anche con chi rifiuta un aiuto umanitario che pare innegabile ed improrogabile. Ciò, quindi, evidenzia la necessità, sempre più impellente, di creare percorsi protetti per i profughi e condizioni e regole che possano favorire una migrazione regolare, sia per ragioni umanitarie, che pratiche e cioè governare il fenomeno senza subirne le conseguenze ed i ricatti; in questo modo si può disinnescare la strumentalizzazione da parte delle dittature e dei trafficanti di uomini. Per arrivare a questa determinazione occorre costruire un progetto condiviso o agire sulla regola dell’unanimità che da troppo tempo condiziona le decisioni dell’Unione, anche perché ragioni pratiche sono sempre più urgenti per combattere l’invecchiamento progressivo della popolazione e la conseguente mancanza di manodopera necessaria alle industrie europee. Prendere atto di questa esigenza armonizzandola dal punto di vista legale per assicurare legalità e sicurezza ai cittadini europei, potrebbe essere un buon motivo per convincere i movimenti più scettici e più propensi ad un atteggiamento di chiusura. Aldilà delle ovvie ragioni umanitarie, regolare autonomamente da parte dell’Unione il fenomeno migratorio avrebbe solo dei vantaggi per Bruxelles e potrebbe contribuire alla consapevolezza europea di grande potenza, necessaria per esercitare il ruolo da protagonista che l’Unione deve recitare sullo scenario globale, come soggetto indipendente, ma anche come punto di equilibrio tra concorrenti sempre più in grado di mettere in pericolo la pace mondiale. I fenomeni migratori sono molto di più che emergenze umanitarie, e basterebbe solo questa ragione per cercare di risolverle, ma sono diventate strumento geopolitico e sono intimamente connesse con temi di portata generale come la necessaria riduzione delle diseguaglianze e la lotta ai cambiamenti climatici. Quindi affrontare singolarmente questo tema è una urgenza da trattare soltanto nel breve periodo, ma nel medio e nel lungo occorre un progetto globale, anche per prevenire lo spopolamento e l’ulteriore impoverimento di intere nazioni ed in questo solo l’Europa è in grado di essere il soggetto protagonista, anche perché è l’unico.

Il ritiro dei russi dal Kazakistan non è troppo sicuro

L’attuale presidente del Kazakistan ha affermato che la situazione del paese è ritornata ad essere normale ed ha nominato un nuovo primo ministro, che non ricade sotto l’influenza del precedente presidente. La stabilizzazione del paese dovrebbe portare al ritiro delle truppe straniere presenti sul territorio kazako, facenti parte dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, a cui aderiscono: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan. Le proteste erano iniziate il 2 Gennaio per l’aumento dei combustibili ed avevano svelato lo stato di profonda crisi sociale, politica ed economica del paese, sintomo di un malcontento generalizzato che si è manifestato in grandi proteste, stroncate violentemente dalle forze di polizia, a cui era stato concesso di sparare direttamente sulla folla. Le manifestazioni erano state derubricate in episodi di terrorismo su mandato di non bene individuate potenze straniere e sono state funzionali all’azione russa di ribadire che il paese kazako non poteva allontanarsi dall’influenza di Mosca, che, peraltro, temeva una ripetizione del caso ucraino. La repressione dei manifestanti è stata benedetta da Pechino, come mezzo per eliminare le proteste, forse un tentativo di giustificare per analogia, la propria azione ad Hong Kong e contro la popolazione musulmana cinese. Il presidente del Kazakistan ha evidenziato la necessità dell’intervento delle truppe russe e degli altri paesi alleati, per ristabilire l’ordine nel paese contro la pericolosa minaccia terroristica, non bene identificata, che minacciava di conquistare il centro economico principale del paese, Almaty; cosa che avrebbe provocato, come conseguenza, la perdita del controllo dell’intero Kazakistan. Secondo il presidente kazako le truppe straniere alleate dovrebbero abbandonare il paese entro dieci giorni. In realtà sarà interessante verificare se queste tempistiche saranno rispettate: il timore russo di una deriva del paese verso l’occidente non sembra collimare con un ritiro repentino delle truppe di Mosca, soprattutto dopo lo sforzo profuso per la repressione della protesta kazaka; una permanenza di soli dieci giorni non permetterebbe un efficace controllo dell’evoluzione di una situazione di malcontento che rappresenta ben più di una insoddisfazione economica. Definire la protesta come una emanazione studiata di un piano terroristico, senza indicarne espressamente i mandanti, significa definirla come una sorta di tentativo di sovvertimento del paese dall’interno. Che queste pulsioni siano del tutto vere ha poca importanza per la Russia, che deve ribadire il controllo pressoché totale su quella che viene ormai definita la propria area di influenza, ben delimitata e assolutamente non più soggetta a variazioni negative. Del resto lo stesso Putin ha avvallato la teoria terroristica del presidente kazako, come giustificazione all’intervento armato da lui stesso progettato. Sul totale dei 2.300 soldati impiegati, il fatto che la maggioranza fosse russa appare alquanto significativo; tuttavia le reali esigenze del paese sono ben presenti al nuovo governo del Kazakistan, che intende promuovere programmi tesi a favorire l’incremento dei redditi ed a rendere più equo un sistema fiscale dove sono presenti pesanti diseguaglianze; però di pari passo con questi propositi, viene programmato un aumento degli effettivi di polizia ed esercito per tutelare maggiormente la sicurezza del paese. Questi propositi sembrano smentire l’ipotesi terroristica, usata soltanto per la conservazione del regime e l’intervento russo, ma ammettono la presenza delle difficoltà di ordine interno, difficoltà che potrebbero, potenzialmente, rendere possibile l’allontanamento dall’area di influenza russa, soprattutto in presenza di una svolta democratica, tentativo in precedenza più volte represso a livello locale senza interventi esterni. La necessità dell’aiuto russo dimostra quanto il paese abbia le capacità e la volontà di cercare una alternativa alla situazione presente. Queste premesse pongono il paese kazako al centro dell’attenzione non solo dello scontato interesse russo, ma anche dell’occidente e del mondo intero, perché può destabilizzare la regione ed il controllo russo; ciò implica un nuovo fronte di possibile attrito con gli USA, non certo disposti ad accogliere il monito di Mosca in chiave anti ucraina, dove la tensione è destinata, anche per questo precedente, ad arrivare ad una situazione limite.

Ribellione nel partito conservatore inglese per le misure contro la pandemia

Il governo britannico di Boris Johnson segnala una debolezza intrinseca, che rischia di destabilizzare il paese in una fase difficile a causa della pressione del Covid. I nuovi sacrifici per limitare la pandemia, aumentata grazie alla nuova variante, richiesti dall’esecutivo di Londra ai suoi cittadini hanno causato un profondo dissenso nello stesso partito del premier, che si è manifestato con un voto contrario di ben cento parlamentari conservatori. La sensazione è che i sentimenti molto libertari, soprattutto verso la tutela delle libertà individuali, dei conservatori inglesi siano stati traditi non solo da misure ritenute profondamente anti libertarie, ma anche dalla confusione e contraddizione degli annunci che hanno contrassegnato la comunicazione di queste soluzioni. Le maggiori provocazioni sono state avvertite circa l’adozione di certificati per accedere a locali pubblici e ciò ha determinato il voto contrario dei conservatori; il governo, pur contando su di una maggioranza di ben 79 voti è dovuto ricorrere all’aiuto dell’opposizione laburista per fare approvare i provvedimenti anti Covid. Politicamente si tratta di una vera e propria umiliazione che segnala un calo nella leadership di Johnson sia all’interno del governo, che dentro al partito conservatore, aprendo alla possibilità di nuovi scenari ed equilibri: infatti, se la tenuta del governo non sembra troppo in pericolo, l’autorevolezza del premier, anche come capo del partito, ne esce abbastanza compromessa. Analisi dei politologi britannici parlano della più grande ribellione che ha dovuto soffrire un primo ministro inglese; del resto il voto contrario di circa 100 deputati del partito di governo rappresentano un segnale inequivocabile. Il segnale verso Johnson è chiaramente politico, perché sia la provvisorietà, che la volontà meno invasiva rispetto ad altri paesi, del provvedimento per contrastare il Covid non avevano le caratteristiche di perentorietà e cogenza troppo esasperate, proprio per non offendere la sensibilità conservatrice sui temi delle libertà individuali. Anche il fatto che il dissenso sia partito dal gruppo conservatore dei deputati che non hanno responsabilità di governo, segnala una frattura del premier con la base del partito; infatti proprio da questa ala dei conservatori arriva la richiesta di un maggiore coinvolgimento sia di tutti i deputati conservatori, che dell’intera organizzazione del partito; proprio a questo proposito l’accusa maggiore è che i provvedimenti andranno a complicare i settori del commercio e del turismo, molto vicini al partito di governo, nel periodo natalizio, quello dove si registra una parte considerevole degli incassi dell’intero anno.  Un ulteriore pericolo segnalato dai ribelli conservatori è che il previsto obbligo del vaccino per i lavoratori dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale potrebbe provocare un esodo dal lavoro, quantificato nella previsione di circa 60.000 dipendenti, che metterebbe in grande difficoltà il sistema sanitario inglese. Tutti questi segnali causano un futuro difficile per il premier, soprattutto nella continuazione della lotta alla pandemia, che è tutt’altro che sconfitta: la necessità di prendere decisioni, anche drastiche, dovrà essere mitigata dalla contrarietà, ormai chiara e palese, della base del partito ed un esito possibile sarà un’azione di governo troppo prudente, con una conseguente salita dei contagi o, in alternativa una situazione di crisi continua che potrebbe sfociare in una ingovernabilità del paese; appare impensabile che l’esecutivo possa portare avanti la sua azione di governo con il sostegno dell’opposizione, che, oltre tutto, si accredita come forza responsabile del paese sostenendo provvedimenti, che, seppur condivisi, provengono dal maggiore avversario politico. Tuttavia i problemi non sono solo di Johnson, anche nel campo laburista ci sono state critiche per il sostegno ai provvedimenti anti Covid, provenienti dal precedente leader Corbyn, che sostiene, al pari dei ribelli conservatori, come le soluzioni adottate siano contrarie alla coesione nazionale e generino profonde divisioni che impediscono la cooperazione delle forze politiche e sociali. Corbyn ha votato in aperto contrasto con quanto indicato dal partito, cioè di sostenere i provvedimenti anti covid, seppure provenienti dal governo, aprendo un caso analogo a quello dei conservatori, anche nel partito laburista, dove appare però, ancora una volta in minoranza. Non si sa se la posizione del vecchio leader è dettata da reali considerazioni o da una tattica utilizzata per delegittimare il gruppo dirigente dei laburisti, contrario alla sua linea politica, ma in ogni caso appare una posizione perdente. Il Regno Unito, quindi, denuncia una situazione politica preoccupante per il suo futuro, con i due partiti maggiori divisi al loro interno, anche se quella conservatrice, al momento, appare la situazione più complicata.