La direzione della Turchia

La vittoria dei SI nel referendum turco pone la questione all’ordine del giorno per l’Europa e per la scena internazionale. Le modifiche che verranno introdotte sono in gran parte in linea con i principi del diritto occidentale ed è buona cosa l’affrancarsi da una sempre incombente “tutela” di tipo militare, tuttavia esiste l’introduzione di una norma che porta sotto il controllo dell’esecutivo il potere giudiziario, tale norma, denuncia l’opposizione, potrebbe indirizzare le sentenze verso direzioni obbligate e con un partito islamico al potere la laicità del paese sarebbe in pericolo. A questo punto è lecito domandarsi se la Turchia è veramente più vicina all’Europa o se, se ne sia allontanata ulteriormente. E’ chiaro che il paese sarà ancora di più sotto la lente della UE ed i prossimi atti saranno determinanti per l’ingresso nell’unione. Ma intanto la Turchia, in campo economico si muove in modo vivace verso oriente, si è  infatti creata una sorta di economia ottomana, come è stata chiamata, che vede larghe intese commerciali di Ankara con Iran, Iraq e Siria, gli scambi coinvolgono ogni sorta di merce ed hanno dato alla Turchia un forte impulso alla propria crescita. Per l’europa potrebbe trattarsi di una porta su territori non ancora troppo battuti ma caratterizzati da una buona fase di sviluppo; ma tutto è in mano alla politica ed alla società turca, se manterranno una forte connotazione laica potranno ambire ad essere membri di quell’europa  che tanto desiderano.

Dove va l'Unione Europea?

La recente relazione di Barroso sullo stato della UE pone diverse considerazioni sugli sviluppi del ruolo e delle potenzialità che il fututo potrà riservare all’unione nel suo complesso e quindi anche alla sorte dei paesi membri. E’ stato rilevato, sostanzialmente, che, sul piano internazionale l’Unione è di fatto incompiuta mancando una politica diplomatica comune al posto della quale ci sono 27, tante quanti sono i paesi membri, politiche internazionali diverse che nella migliore delle ipotesi trovano solo alcuni punti di contatto e nella peggiori sono ddirittura antitetiche; è chiaro che così la UE fa la figura del nano politico imbrigliato in esteuanti trattative delle trattative, ne consegue che il prestigio è solo di facciata ma non ha alcun peso effettivo sulle questioni inernazionali. Questa lacuna deriva prima di tutto da un buco normativo che non si è saputo colmare creando all’interno della UE apparati autonomi e liberi di manovra, cioè figure anche collegiali capaci di imporre una visione ed una capacità di azione comunitaria in barba alle istanze periferiche, sia pure provenienti dai paesi più importanti. Tale lacuna è stata chiaramente voluta grazie ale ragioni più disparate: la gelosia della propria libertà di azione di paesi di grande tradizione diplomatica, le tendenze elettorali provenienti a quei paesi che usciti dai blocchi sovietici vedevano o vedono l’esistenza di una struttura sovranazionale anzichè come una opportunità come un pericolo alla riacquistata autonomia e non ultime le tendenze localistiche che percepiscono come mancanza di autonomia l’azione comunitaria dotata di visione dall’alto che trascurerebbe le esigenze particolaristiche. Questa debolezza internazionale, che potrebbe avere dei benefici indotti, ha invece delle ricadute (costi per mancati benefici) negative direttamente sulle economie continentali. Occorre qui considerare che l’azione della politica internazionale non è solo un mero esercizio diplomatico fine a se stesso, che cioè non conferisce soltanto prestigio da spendere in congressi e relazioni, ma può costituire un vlano economico fin troppo rilevante, il corollario di contratti e convenzioni economiche che stanno dietro ad accordi internazionali è il motore che muove la moderna diplomazia e quindi non è ammissibile che un soggetto importante come la UE resti al palo, l’urgenza di dotarsi di una politica internazionale univoca è un’esigenza improcrastinabile sopratutto se giunta alla determinazione più volte sottolineata da Barroso della necessità di passare dalla fase di unione monetaria, ormai metabolizzata, alla fase di unione economica e finanziaria per aumentare in modo sostanziale il benessere sociale ed economico dei cittadini del’unione e pesare finalmente con il livello che gli compete sullo scenario internazionale.

La mancata visibilità del problema basco

La decisone dell’ETA di sospendere le azioni armate pone domande circa le condizioni nelle quali è maturatala proposta, infatti il movimento indipendentista basco non versa più in ottime condizioni, l’appoggio popolare pare essere  venuto meno per l’efficace azione di Zapatero che ha saputo mettere in campo una doppia strategia tesa a limitare l’azione militare contenendola preventivamente giunta ad una politica amministrativa che ha permesso ai baschi una maggiore indipendenza, pur sempre nell’ambito statale spagnolo. Quindi la decisione appare quasi una sconfitta essendo una dichiarazione unilaterale non proveniente da accordi ufficiali. Inoltre la richiesta di coinvolgere la comunità internazionale per negoziati alla luce del sole che risolvano appunto con la via diplomatica (se di questo è corretto parlare per un territorio che  non è stato sovrano ufficilamente riconosciuto) mette in chiara luce la necessità di portare di nuovo sulla scena mondiale un conflitto che pareva ormai dimenticato proprio grazie all’azione del governo di Madrid e di cui si parlava prima. Pare la carta della disperazione per evitare una sconfitta che cancelli il problema basco, almeno nella visione dell’ETA.

Europa sotto scacco

Tralasciando le prediche coraniche, i berberi con i loro cavalli, le hostess, la tenda, insomma tutto quello che non è stato e tutto quello che è stato definito folklore il punto cruciale della visita del leader libico è stato, di fatto, il prezzo richiesto all’Unione Europea per bloccare il traffico di migranti che hanno proprio in Libia una delle basi di partenza principali per raggiungere il lato meridionale dell’europa; mai in un caso come questo è appropriato parlare di prezzo, d’altronde gli arabi sono ottimi mercanti, dato che anche l’importo finale è già stato deciso: 5 miliardi di euro affinchè l’Europa non diventi nera, non dalla rabbia, come probabilmente è già successo, ma nera nei suoi abitanti che dovrebbero diventare la maggioranza se la Libia aprisse i suoi cancelli. A parte la portata culturale della minaccia, che finirà per alimentare le parti politiche più retrive con tutte le conseguenze possibili e facilmente immaginabili, il ricatto ha un suo perchè: il movimento migratorio è stimato attualmente nel tre percento  della popolazione mondiale ed è un numero destinato probabilmente a crescere data la crisi mondiale ed il sempre crescente fattore di destabilizzazione politica e sociale della maggior parte delle aree interessate al fenomeno. Va detto che la UE ha già avviato progetti pilota proprio con la Libia per contrastare l’emigrazione clandestina del valore di 50 milioni di euro annui, ma ora Gheddafi alza il prezzo per fermare quella che sembra una vera e propria bomba ad orologeria puntata verso l’Europa, che deve prendere al più presto iniziative tese a non restare sotto scacco del capo di stato libico. Difficile dire cosa si potrà fare, già è difficile dover ammettere solo di trattare con un regime che non tiene in alcuna considerazione i più elementari diritti dei migranti, come più volte accertato, ma la realpolitik la fa da padrona, tenendo conto che si deve trattare anche con uno dei maggiori fornitori di energia (da cui l’Italia dipende e con cui giocoforza deve fare i conti), l’impressione è che la sparata sia stata alta per ricavare ancora qualcosa da mettere nel budget degli investimenti interni di cui la Libia ha bisogno per accrescere le sue infrastrutture, tuttavia la prossima riunione UE dovrà per forza mettere in conto strategie e soldi per fronteggiare il problema.

La tattica francese

Accerchiata sulla scena europea per la questione dei rimpatri dei rom, la Francia passa al contrattacco sul piano internazionale con una manovra avvolgente contro la stessa UE che la contrasta, seppur blandamente, sullo spinoso caso dei gitani. Infatti l’ultima mossa del ministero degli esteri francese è quello di sollecitare l’Unione Europea ad un maggiore attivismo nella ripresa dei negoziati rilanciati da Obama. La Francia si fa forza anche del suo ruolo di maggiore finanziatore degli aiuti ai Palestinesi per fare leva su di un maggiore coinvolgimento della UE, infatti tale ruolo sembra dare ai francesi una maggiore responsabilità morale, quasi di guida nel nuovo processo di distensione, almeno dal lato europeo dell’oceano; il tempismo della manovra è quanto meno singolare in un momento che il prestigio internazionale è sottozero ed anche in patria numerosi sondaggi sono negativi per Sarkozy proprio a causa dei rimpatri dei rom. La mossa che doveva fare rialzare l’apprezzamento nella nazione della politica presidenziale si è rivelata un boomerang trasformandosi in un flop interno ed esterno; quindi l’azione diplomatica attuale deve leggersi in una duplice chiave: recuperare consenso sulla scena internazionale e distogliere lo sguardo dalle vicende interne, impresa improba.

Francia-Romania, e la UE?

Continua il braccio di ferro tra la Francia e la Romania per il rimpatrio dei cittadini rom e gli sviluppi del caso sono la richiesta francese all’Unione Europea di impegnarsi affinchè Bucarest usi i fondi destinati a all’inserimento ed all’aiuto della popolazione più disagiata. La Francia tenta  un’ingerenza negli affari interni romeni attraverso la UE? La minaccia di limitare gli accordi di Schengen per la popolazione romena verso la Francia è concreta, d’altra parte la politica oltralpe pare volere colmare anche una lacuna non tanto normativa, quanto “governativa” e di intervento dell’Unione Europea che fino ad ora si distinta con un comportamento pilatesco. D’altra parte il problema della popolazione rom appare difficilmente risolvibile senza intervento super partes: la Francia è determinata nell’eliminare i campi abusivi, trincerandosi dietro anche a ragioni umanitarie condivisibili quali il traffico di esseri umani preda di organizzazioni malavitose e pratiche per la politica del governo Sarkozy che punta, oltre ad eliminare una criminalità indiscutibile, ad accrescere il proprio consenso con operazioni tutto sommato facili (e che consentono anche risparmi economici da gettare sul piatto della bilancia in un momento come questo); in Romania, invece, i rom non sono ben visti e pare di capire che il governo di quel paese preferisca avere i suoi cittadini gitani all’estero ed occuparsi di altre questioni investendo in maniera diversa i fondi che arrivano. In questo quadro l’azione diretta della UE pare doverosa, non solo per assumere il mero ruolo di arbitro della questione, quanto per dirigere e governare in maniera fattiva il problema, banco di prova per problematiche emergenti sempre più simili.

I costi sociali dell'unione europea

I recenti fatti connessi alle “espulsioni volontarie” operate dalla Francia verso i cittadini europei rom romeni e bulgari riportano alla ribalta la presenza di vari livelli di cittadinanza nell’unione europea.  E’ un fatto ormai acclarato che alla serie “A” appartengano i soci fondatori che hanno dato vita alla CECA più i membri più anziani, l’europa dei 12 per intenderci, nella serie “B” i paesi dell’ex blocco sovietico con maggiori capacità produttive ed infine nella serie “C” i paesi più poveri proveninenti dal COMECON e non allineati; ma nella serie “C” ci sono livelli ancora più bassi dove rientrano  appunto i rom.  Non è questa la sede per un eventuale giudizio morale o di opportunità, ma può essere la sede per una riflessione sul processo di unificazione europeo; tali fatti devono infatti fare riflettere sui tempi e sul metodo di unificazione scelto. Certamente il sogno di un’Europa unita il più possibile allargata sia dal punto di vista storico che economico è una prospettiva a lungo e giustamente inseguita da più generazioni, tuttavia le profonde diseguaglianze tra i paesi hanno fatto emergere situazioni al limite della tolleranza; questa dell’espulsione dei rom, che in una certa ottica può anche essere considerata corretta (come peraltro ammesso dal governo bulgaro), è comunque un segnale, una spia di processi malpensati ed ancor peggio governati, ed a questo proposito le dichiarazioni di facciata di Bruxelles non fanno che confermare queste sensazioni. Quello che appare che, per adesso l’unificazione sia stata funzionale a gruppi industriali di ogni grandezza, che hanno usato i vantaggi dell’europa unita per delocalizzare la propria produzione in quei paesi che garantivano oltre salari minori (molto minori) anche una deregolamentazione normativa non certo frutto di direttive comunitarie, semmai la colpa degli organismi centrali è stata proprio quella di non governare queste situazioni. Purtroppo l’impressione per il futuro è che queste patologie si acuiscano, la crisi economica impone tagli che i governi locali girano sulla spesa sociale ed anche una certa tendenza dovuta all’affermazione di partiti localistici  o comunque basati su ristrette porzioni di territorio non pare invertire queste tendenze; d’altra parte è pur vero che detrminati problemi siano reali purtroppo quello che manca è una visione ed un indirizzo comune di azione.

La tattica di Israele con la Turchia

Dopo il deterioramento dei rapporti tra Israele e Turchia dovuti ai tragici fatti connessi al tentativo di forzare il blocco della striscia di Gaza, lo stato d’Israele ha puntato a rafforzare le relazioni con la repubblica Greca, tradizionale avversario della Turchia.  La mossa costituisce un classico delle relazioni internazionali, si avvicina il nemico del proprio nemico per rafforzare un legame verso un comune avversario.  Siamo nell’area immediatamente contigua al medio oriente, zona calda per definizione, il nuovo asse tra Israele e  Grecia (che ha riconosciuto Israele solo dal 1991)  rappresenta una novità nel panorama delle relazioni internazionali, sopratutto per il tradizionale rapporto di fiducia che lega Atene ai paesi arabi, i quali hanno già mosso le loro diplomazie per capire cosa sta succedendo.  D’altra parte il momento economico molto difficile della Grecia non permette di trascurare ogni strada possibile che permetta nuove opportunità, in questa ottica l’alleanza con Israele può aprire nuove ed ulteriori prospettive economiche con un nuovo partner. Israele, dal canto suo, guadagna un nuovo alleato alla sua causa e visibilità positiva in campo internazionale grazie, appunto, ad un nuovo accordo diplomatico di amicizia che rompe un isolamento relativo costituito da rapporti internazionali consolidati con sempre gli stessi partner. La Turchia per ora nono commenta questa nuova alleanza che sembra rivolta contro di lei.