La situazione politica statunitense

Recenti sondaggi dicono che il 91% della popolazione di colore appoggia Barack Obama, questo risultato tiene a galla il presidente USA nella valutazione della popolarità globale nel paese, ma fa anche da contraltare all’opposizione ultraconservatrice in netta avanzata grazie al movimento del Tea-party. Quella che appare, ad un esame superficiale, è una netta spaccatura razziale che si profila nella società americana, senza generalizzare troppo è anche da dire che nella parte più povera del paese la maggioranza numerica è costituita dalla popolazione di colore che vede in Obama una possibilità di riscatto ed anche tra gli ispanici il gradimento arriva al 55%, proprio per questa ragione non paiono azzeccate le critiche che vedono in questo plebiscito un razzismo alla rovescia; del resto il  totale del gradimento per la massima carica USA è attestato ad un buon 45%, che, ovviamente, comprende anche una buona fetta della popolazione bianca. Per Obama rimane il problema del fronte interno costituito dall’america più profonda, l’america più tradizionalista che crede ovuole credere che il presidente sia un musulmano neanche nato negli stati uniti. E’ da qui che è ripartito il partito repubblicano che anzi è stato scavalcato a destra con l’ultraconservatore movimento dei Tea party. Non è cosa da sottovalutare, si è scelto di parlare direttamente alla pancia degli americani facendo leva sulle paure ataviche della parte di popolazione  più arretrata, quella che viaggia costantemente con la pistola e si identifica con le posizioni dell’estremismo religioso. Ci si muove in un sottobosco di avversione all’interventismo statale, seppure mitigato come quello americano, dove ogni mossa del governo centrale è vista come un’invasione della sfera privata; cavalcare questa tigre per ora è stato agevole da parte della Pallin e del suo alleato intrattenitore di Fox news e per ora anche il Partito Repubblicano, pur facendo buon viso a cattivo gioco, non ha difatto incanalato il fenomeno verso una gestione più decisa, anche in funzione delle imminenti elezioni di mediotermine, ma per le elezioni presidenziali i nodi verranno al pettine ed chiaro che cercare di vincere le elezioni più importanti parlando ad una sola parte della nazione è molto difficile se non impossibile.

La politica estera di Obama

Barack Obama ha tenuto il suo primo discorso all’ONU cercando di portare sulla scena delle nazioni unite il suo credo diplomatico , la sua teoria del mondo come visione globale. Tale politica è una sorta di novità rispetto alle concezioni di chi lo ha preceduto, come ad esempio i due Bush, che vedevano gli USA posizionati all’interno dell’assemblea dell’ONU come una sorta di “primus inter pares”, un membro sostanzialmente di maggiore importanza e maggior peso nelle decisioni e nell’indirizzo della politica della massima organizzazione internazionale. Obama pare voglia contraddistinguersi per un profilo più basso e coinvolgere maggiormente sia l’ONU che gli altri paesi nella gestione dei problemi e conflitti internazionali, è chiaro che questa nuova rotta è dovuta non solo all’esclusiva visione di Obama ma anche alla situazione interna contingente degli USA. Il presidente americano infatti, nonostante i successi ottenuti con la riforma della sanità ed il rispetto del rimpatrio dei primi contingenti dall’Iraq, deve combattere con una accanita opposizione interna che non permette una sostanziosa distrazione delle forze verso scenari internazionali. Obama usa anche argomenti pesanti per coinvolgere maggiormente gli altri paesi nell’azione comune, in special modo l’Unione Europea, sostenendo che la risoluzione del problema afgano, proprio per la contiguità territoriale è un problema più importante per il vecchio continente che per otlreoceano.  Con le altre superpotenze l’amministazione americana ha intrapreso un politica di dialogo che rinnega lo scontro: con la Russia sono stati intrapresi rapporti più distesi ed anche con la Cina, malgrado le differenze in materia economica si vanno cercando intese sempre più proficue. Resta il nodo Iran, anche alla luce dell’atteggiamento di Turchia e Brasile, storici alleati USA, che non hanno condannato il regime di Teheran, anche in virtù di intensi accordi commerciali che intercorrono tra questi paesi. Comunque la politica americana pare ora tendere alla ricerca di una pacificazione condivisa tra i componenti del mondo, certo affermarlo non basta ma è già un grosso passo avanti.

Il problema interno degli USA

Gli Stati Uniti, che da sempre ambiscono ad essere il gendarme del mondo, sono la più grande superpotenza ad esporsi nello scenario mondiale, con quali risultati è sotto gli ochi di tutti, ma quello che ora preme rilevare  è la loro situazione interna ed ancora di più il proprio background democratico. Il caso del pastore di una chiesa praticamente inesistente che mette sotto scacco oltre che l’intera nazione, ma anche i suoi concittadini impegnati in missioni pericolose nel mondo è emblematico ma anche la punta di un iceberg che non deve fare restare tranquilli. E’ vero che ci sono strumenti all’interno dell’ordinamento USA che possono fare da anticorpi, ma talvolta ciò non basta. Negli USA è sancito il diritto a manifestare qualunque opinione e di fatti esiste un partito nazista regolarmente registrato ed accettato; la domanda quindi è può un paese di tale potenza ma che al suo interno contiene pulsioni di ogni genere essere affidabile per essere il poliziotto del pianeta? L’America profonda che non ha la sensibilità delle sue metropoli ma costituisce sacche molto grandi di arretratezza non rischia per troppa ed incompresa libertà di mettere a repentaglio tutto il lavorio diplomatico e militare che parte da Washington? Come si può volere esportare democrazia senza quella autoanalisi che apparentemente manca agli USA, senza cioè un lavoro di introspezione politica che analizzi e curi le cause dei pochi o tanti che ora vogliono bruciare il corano e domani inventeranno qualcosa d’altro che con pochi mezzi riesca a danneggiare un lavoro enorme e complesso? Obama pare bravo sul piano internazionale, le sue dichiarazioni sono sempre precise ed appropriate, ma sul piano interno trova difficoltà a rinnovare la sua supremazia politica e le elezioni di medio termine paiono non volgere a suo vantaggio.  Ma Obama pur importante è pur sempre un attore passeggero, quello che resta ma non sempre appare, è la vera condizione Statunitense: una superpotenza che mantiene al suo interno tanta parte di popolazione arretrata, di un arretratezza non lontana dall’arretratezza dei popoli dove gli USA vogliono esportare democrazia.

Da che parte pende il cammino verso la pace?

Qual’è lo scopo di bruciare corani nella ricorrenza dell’undici settembre? E’ un fatto localistico dove una piccola chiesa ultraconservatrice e di estrema destra cerca, tra l’altro, di dissuadere la costruzione della moschea a Ground Zero e continuare a gettare cattiva luce sugli islamici americani, anche quelli integrati e che contribuiscono al sogno americano, oppure fa parte di un piano più ampio volto a rendere ancora più difficile il lavoro di Obama ordito neanche troppo velatamente da quegli ambienti e gruppi di pressione antagonisti che non hanno digerito la nuova politic estera statunitense ed il ritiro dall’Iran? In ogni caso la portata provocatoria del gesto, oltre che  inutile rischia di fare degenerare le cose prima di tutto in quegli scenari di guerra dove i contingenti americani sono presenti e che combattono con maggiori difficoltà le loro battaglie. La facile previsione dei comandi americani su cosa seguirà al falò del corano prevede attentati e kamikaze verso non solo le truppe a stelle e strisce ma anche verso gli alleati presenti sui teatri di guerra, forse sarebbe opportuno un’intervento interno forte e chiaro che metta fine a questa storia, ma di questi tempi muoversi all’interno del perimetro USA sembra altrettanto difficile, seppure in maniera diversa, che sulle montagne del’Afghanistan. Da chi soffia sul fuoco a chi tenta di smorzare i toni: sono significativi gli interventi a breve distanza di Fidel Castro e Chavez verso una riconsiderazione del problema israeliano, il primo ha parlato di considerare in maniera diversa, e più benevola, la storia del popolo israelitico ammonendo l’Iran contro la celta di un’opzione nucleare, il secondo, di fronte agli attentati contro la comunità israelitica venezuelana ha condannato pubblicamente i fatti e con un discorso più ampio ha indicato la via dei negoziati per risolvere la questione palestinese, entrambi cioè hanno capito l’urgenza della risoluzione del problema ergendosi a protagonisti internazionali nell’area latino americana. Quello che appare è che si stanno creando tendenze nuove ma anche inaspettate sulla scena mondiale che risulta in completa evoluzione, sta ora alle organizzazioni internazionali il coordinamento (ma anche lavorare per stroncare le opzioni negative con una maggiore e più incisiva azione diplomatica volta anche alle questioni nazionali dei singoli paesi, siano la piccola come la grande potenza) di queste tendenze per massimizzare il risultato.

L'Iraq lasciato solo

Il ritiro puntuale e come promesso da Obama dei soldati USA dall’Iraq pone dinanzi al mondo gravi scenari per la nascente democrazia di Bagdad. Quella lasciata da soldati USA è un’impresa fallita, un’abbozzo di democrazia, un parto malriuscito. La mossa di Obama è comprensibile, oltre la promessa elettorale, si è trovato ad affrontare una guerra non sua ne più del paese, tuttavia appare lo stesso pilatesca, l’Iraq attuale non è nemmeno definibile come democrazia incompiuta, invero la reale forma di stato presente nel paese non è neppure definibile, siamo in un paese dove le elezioni non hanno raggiunto il loro scopo di garantire una minima governabilità, un paese lacerato da guerre intestine di clan, un paese diviso dalla religione e sopratutto un paese arretrato dove non esiste alcuna classe dirigente nemmeno potenziale. Se il lavoro americano, e senz’altro per l’amministrazione Bush lo era, doveva essere l’eliminazione di Saddam Hussein, allora la missione è stata compiuta, ma se si doveva esportare democrazia, come più volte proclamato, allora il fallimento è totale.  Intanto è da chiedersi se gli iraqeni erano pronti ad un processo così sconvolgente del loro modo di vita, vista la situazione sociale presente nel paese, il processo non è stato graduale, la popolazione è stata tenuta per troppo tempo in uno stato di arretratezza e la mancanza di strutture adeguate ha fatto il resto. D’altra parte lo sforzo anche economico, oltre che di vite umane, non era più sostenibile in un quadro mondiale di depressione, tuttavia quello che appare è che sia stato consumato un pasto gigantesco e che una volta finito si levi il disturbo.  La necessità ora è di ripensare tutta l’azione ed il modo di riaggiustare almeno la situazione, in quest’ottica è impossibile non pensare ad un ruolo più determinante da parte delle organizzazioni internazionali che devono guidare ed indirizzare il processo troncato dael reitnro USA.

Cominciamo

Inauguriamo questo blog, che si pone come una ulteriore voce nel dibattito della politica e delle relazioni internazionali, con i venti di crisi che arrivano dall’area mediorientale, un classico, si dirà.
L’ambasciatore israeliano in Italia ha detto pubblicamente di temere la terza guerra mondiale (e sappiamo che la quarta sarà combattuta con le pietre) per l’escalation che si sta producendo in Iran; l’affermazione, di per se già grave, ha avuto precedenti supporti con le analisi USA e con l’atteggiamento del regime iraniano. La querelle delle centrali atomiche di Teheran pare un espediente che vale da ambo le parti, ma se da un lato è innegabile il diritto di cercare fonti alternative nel solco dell’autodeterminazione di ogni singolo paese, dall’altro è legittimo il timore del possibile ed alternativo uso del minerale atomico; va detto che qui non siamo in presenza di dossier costruiti, come nel caso iraqeno, qui le centrali sono effettivamente in costruzione e non basta al blocco NATO la soluzione dell’intermediario russo che si prenderebbe in carico le barre esauste ma riconvertibili.Inoltre l’armamento degli ayatollah pare registrare un sensibile incremento in termini di razzi a grande gittata con una portata ben superiore per colpire il paese della stella di Davide.
Quale la soluzione, ovviamente non quella delle armi e nemmeno l’arte diplomatica di soffiare sul fuoco, può sbloccare la situazione è difficile dire ci auguriamo il dialogo costruttivo.