La Cina spera nella sconfitta di Trump, ma i rapporti bilaterali potranno avere poche variazioni

Nel paese cinese è in corso un dibattito su come saranno i risultati delle elezioni presidenziali statunitensi. Gli analisti politici e la pubblica opinione della Cina sembrano concordi nel preferire non tanto la vittoria di Biden, quanto la sconfitta di Trump; se le due cose sono intimamente legate, ed una è la conseguenza dell’altra, per i cinesi sembra essenziale che Trump non venga rieletto e poco importa che la vittoria vada allo sfidante del partito democratico, perché ritengono qualsiasi alternativa migliore dell’attuale inquilino della Casa Bianca. In realtà, come si vedrà più avanti, le cose per la Cina, sostanzialmente cambieranno poco. Pechino ritiene Trump un politico troppo imprevedibile, difficilmente gestibile nella consuetudine dei normali rapporti internazionali. Trump, che, peraltro, ha un’ottima impressione del presidente cinese, non possiede un ragionamento politico lineare, si lascia troppo guidare dai sentimenti del momento ed è circondato da consiglieri inesperti e troppo inclini a non contraddirlo. Certamente la sua visione internazionale ha provocato nel paese americano, un odio verso la Cina, che, però, è stato facile sviluppare grazie alla precedente politica di Obama. Il predecessore di Trump, pur con modi differenti, ha messo al primo posto la questione della supremazia delle vie di comunicazioni marine, fondamentali per il trasporto delle merci, presenti nei mari cinesi, che Pechino ritiene facenti parte della sua zona di influenza esclusiva. Inoltre la questione della crescente volontà cinese di competere, non solo più a livello economico, ma anche geopolitico e quindi militare, con gli USA, per diventare la prima potenza mondiale, ha provocato una reazione trasversale negativa in entrambi gli schieramenti politici. L’azione, certo dissestata, di Trump si può collocare nella continuità della politica inaugurata da Obama. Certamente i modi di Trump non hanno certo facilitato il dialogo tra i due paesi, che, anzi si sono allontanati come non mai. Un cambio alla Casa Bianca è ritenuto preferibile, almeno per quanto riguarda le possibilità e le modalità di un dialogo che appare comunque difficile per i presupposti contingenti presenti. Quello che la Cina può aspettarsi da una vittoria di Biden è soltanto un atteggiamento più diplomatico nelle relazioni bilaterali, ma sui temi generali di discussione i margini per delle convergenze sono pochi. Sicuramente si potranno trovare delle intese sul cambiamento climatico ed anche sulla questione del nucleare iraniano, ciò potrà favorire una distensione, ma oltre sarà praticamente impossibile andare. C’è un indizio molto indicativo di come il partito democratico intende affrontare la Cina, infatti dal suo programma elettorale è scomparso il principio di una sola Cina: ne consegue che l’appoggio a Taiwan, peraltro fondamentale per gli USA dal punto di vista strategico, continuerà; così come quello ad Hong Kong, la cui opposizione è stata praticamente cancellata dalla legge liberticida. Avere un antagonista appartenente al Partito Democratico, anzi, potrebbe essere peggiore di fronteggiare Trump sulla questione dei diritti civili negati dal governo cinese; l’attuale presidente non si è mai mostrato troppo sensibile a questo tema al quale gran parte della sua formazione politica non pare interessata, viceversa la base elettorale di Biden potrebbe esigere una posizione ferma dal suo candidato nel caso venisse eletto. Una impressione è che Biden possa sembrare ai cinesi più arrendevole, ma questa impressione, sempre che sia vera, appare totalmente errata, perché la via dei rapporti tra USA e Cina nell’immediato futuro non potrà cambiare dagli standard attuali. Se ci sono margini per riprendere i negoziati sull’Accordo di cooperazione economica trans-pacifica e l’Associazione transatlantica per il commercio e gli investimenti, questo non vuole dire che Biden, se eletto, potrà transigere sul tema dei diritti, che, anzi, potrebbe diventare centrale nel rapporto con la Cina. Soprattutto la questione delle vie marittime e dell’appoggio agli alleati americani dell’area non potrà essere negoziabile e questo aspetto promette di continuare ad essere un grande ostacolo nei rapporti bilaterali, un ostacolo che resterà di tipo sostanziale nonostante la previsione di un possibile miglioramento dei rapporti formali.   

Biden scelto per mediare tra repubblicani pentiti e sinistra democratica

Aldilà della largamente prevista conferma di Joe Biden come candidato Presidente dei Democratici, che sfiderà Trump nella corsa per la Casa Bianca, sono emersi due punti di rilievo nella convention democratica, che non devono essere sottovalutati perché indicano una linea politica in evoluzione all’interno del partito: un necessario dialogo tra destra e sinistra che dovrà evolversi necessariamente, sia in fase di campagna elettorale, ma, soprattutto, in caso di vittoria. Biden, politicamente è uomo di centro e la sua scelta alla candidatura presidenziale è dovuta principalmente a questa caratteristica: una posizione mediana capace di addensare attorno alla propria figura posizioni politiche anche distanti ma accomunate dall’esigenza di cambiare il vertice della Casa Bianca. La presenza di diversi oratori repubblicani alla convention democratica, indica un malessere di buona parte del partito di Trump, insofferente alla sua scarsa attitudine alla politica, ai cambi di rotta repentini ed anche alla sua inesperienza ed inadeguatezza. I repubblicani che sostengono Biden, sono parte della tradizione del partito, forse ormai una minoranza, quella sconfitta dal tea party e che male hanno digerito le caratteristiche di un capo di stato così anomalo. Il loro appoggio appare sincero ed è un appoggio che non avrebbero mai assicurato per Sanders; Biden, malgrado alcune differenze, probabilmente è più vicino ai repubblicani tradizionali di quanto non lo sia Trump, ma questo appoggio non sarà gratis, cioè non basterà sconfiggere Trump e cambiare presidente, oltre ad una nuova condotta in campo nazionale ed internazionale, Biden dovrà accontentare i repubblicani che lo appoggeranno con decisioni vicine alle loro posizioni. Potrebbe essere un ritorno al passato, quando le differenze tra democratici e repubblicani non erano molte, tuttavia i tempi recenti della politica statunitense ha visto una radicalizzazione delle posizioni politiche, che si sono evolute verso una maggiore polarizzazione tipica dello scontro destra sinistra. Se nei repubblicani hanno prevalso i sostenitori del tea party, nel partito democratico non si è verificata una situazione analoga, la componente di centro ha ancora la prevalenza, ma è pur vero che la sinistra sia cresciuta a livelli elevati, soprattutto tra i più giovani, ponendo una ipoteca sui futuri indirizzi del partito, cosa che però appare ancora lontana. In ogni caso il successo di Bernie Sanders, malgrado la sconfitta, evidenzia una sostanziosa rilevanza della sinistra nel partito democratico, una parte che rivendica riforme sociali certamente in contrasto con i repubblicani che sostengono Biden. Per ora la grande esigenza di sconfiggere Trump obbliga la sinistra ad adattarsi ad uno schema che non gradisce (parte degli elettori di Sanders non gradiscono Biden, ma probabilmente non vorranno ripetere l’errore fatto con la Clinton), ma dopo quale potranno essere i rapporti tra queste diverse componenti dell’alleanza? La percezione è che ogni problematica di questo tipo sia rinviata dopo l’eventuale successo di Biden, lasciando intravvedere un percorso a piccoli passi, che potrebbe rivelare una debolezza di fondo sui programmi di governo: un fattore capace di sovvertire il pronostico, per ora favorevole al candidato democratico. Forse questo ha decretato la necessità di creare una base elettorale più estesa possibile: il reclutamento dei repubblicani deve servire per prendere i voti dei delusi da Trump, ma anche per prevenire la ripetizione di un possibile effetto Clinton, che ha provocato la vittoria del presidente in carica grazie all’astensionismo della sinistra democratica. In ogni caso l’avversione alle politiche ed ai modi unito alla consapevolezza di potere fare meglio dell’attuale inquilino della Casa Bianca resta il programma elettorale principale, capace di unire anime politiche così differenti. In caso di vittoria mediare tra queste parti, quasi opposte, rappresenterà la difficoltà maggiore per Biden, che dovrà fare ricorso a tutta la sua esperienza politica e di mediazione per avere la guida del paese: ma, in fondo, è stato scelto proprio per questo.   

Gli USA inviano il Segretario della sanità a Taiwan

Dal 1979 gli Stati Uniti non inviano un funzionario di rango elevato a Taiwan, con cui non intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali, ma la decisione di Trump di inviare il Segretario alla salute degli USA, crea un nuovo punto di attrito nel già difficile rapporto con la Cina. L’atteggiamento ufficiale americano è molto cauto con Taiwan, tuttavia esistono sull’isola uffici di istituzioni americane che operano formalmente come vere e proprie rappresentanze diplomatiche. Per ora la volontà di Washington, che è stata una costante nelle varie amministrazioni succedute, anche di segno politico diverso, è stata improntata alla cautela per non urtare la Cina, con la quale si voleva comunque intrattenere un rapporto cordiale. La svolta nazionalista della Cina e la volontà di affermarsi come potenza mondiale, ma soprattutto avendo come obiettivo la riunificazione territoriale per esercitare la sua influenza nelle vie marittime, sta cambiando forzatamente le intenzioni statunitensi. Al programma americano di supremazia economica e commerciale, che ha anche portato alle sanzioni verso Pechino, si aggiungono le esigenze elettorali di Trump, in questo momento dato sfavorito dai sondaggi. Per l’inquilino della Casa Bianca è importante mettere Biden in una sorta di posizione di debolezza nei confronti della Cina, come fattore pericoloso per gli USA in caso di vittoria del candidato democratico. Risulta anche vero che dopo l’atteggiamento cinese verso Hong Kong, le minacce già fatte verso Taiwan, assumono una valenza particolare. Ad una eventuale invasione militare cinese dell’isola di Formosa gli Stati Uniti non potrebbero restare inerti; tenendo presente questa riflessione l’invio di un membro di alto rango del governo americano, rientrerebbe in una azione diplomatica preventiva: una sorta di avvertimento alla Cina ed alle sue eventuali intenzioni circa azioni militari. Un’altra causa della decisione americana, certamente non in contrasto con le precedenti, è quella di sottolineare l’atteggiamento di Taiwan e le differenze con la Cina riguardo alla pandemia, così da sotto intendere la cattiva gestione, ed anche oltre, della diffusione del virus. Questo aspetto è funzionale a Trump per cercare di allontanare la sua cattiva gestione della pandemia negli Stati Uniti, facendo ricadere sulla Cina la responsabilità iniziale della crisi medica. Ora la pessima gestione del presidente americano sulla diffusione del virus è più che un dato di fatto a prescindere da dove è venuto il virus e pur essendo presenti molti dubbi sui silenzi cinesi all’inizio della pandemia. Una volontà di tutelare Taiwan è certamente condivisibile, sia per il mantenimento dei diritti democratici, soprattutto dopo che sono cancellati da Hong Kong, sia per limitare l’azione cinese in campo internazionale e sia per preservare la possibilità della percorrenza delle vie marittime commerciali, però sono i tempi di questa azione ad essere sospetti, perché coincidono con uno dei momenti di massima difficoltà di Trump in patria: sia dal punto dell’immagine interna, sia per le difficoltà elettorali. Quanto all’obiezione di una possibile debolezza di Biden nei confronti della Cina, questa non sembra possibile perché la strada dei rapporti con la Cina sembra segnata a prescindere da quale sarà il prossimo presidente americano ed a quale partito apparterrà. Certamente potranno esserci modalità differenti circa il rapporto con la Cina, ma ormai la contrapposizione è troppo elevata e gli interessi troppo contrastanti per arrivare, almeno nel medio periodo, a rapporti più distesi. Per altro i rapporti distesi sono rimasti tali finché la Cina non ha espresso la volontà di aumentare le proprie ambizioni da grande potenza, quindi la possibilità di un atteggiamento differente da parte degli USA, semplicemente non può essere contemplata. Una delle riflessioni che si impone ancora una volta su questa vicenda è la conferma della inadeguatezza di Trump a ricoprire la carica politica più importante del mondo, perché la sua visione è troppo limitata agli interessi interni americani, senza contemplare i benefici indiretti di una corretta gestione della diplomazia della prima potenza mondiale, ma non solo, oltre ad una visione politica così limitata c’è anche un chiaro elemento di interesse personale che sembra essere in grado di essere messo in primo piano rispetto alla sua stessa politica governativa: una pessima qualità per chi è il presidente degli Stati Uniti.

USA e Cina verso la nuova guerra fredda

Dunque il destino del mondo è quello di vivere una nuova guerra fredda, che rischia di protrarsi molti anni. Però le analogie con il conflitto a distanza tra USA ed URSS sono molto poche, a parte il confronto tra una democrazia ed un regime non democratico. Dal punto di vista economico tra la Pechino attuale e la Mosca degli anni che vanno dal secondo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino, non ci sono similitudini. Ora la Cina sta giocando un ruolo praticamente paritario con gli USA sulla scena economica, ed anzi questa competizione è ritenuta la vera causa del confronto a distanza. Certamente esistono i problemi legati alla svolta sempre più autoritaria di Pechino, con l’intensificazione della repressione dei musulmani, la sempre maggiore negazione dei diritti civili ed umanitari e la lotta con il dissenso ingaggiata ad Hong Kong, effettuata, tra l’altro, con il mancato rispetto di un trattato internazionale. Ma se la controparte è rappresentata da Trump e dalla sua politica di supremazia americana, soprattutto in economia, questi argomenti, seppure validi e condivisibili, paiono una sorta di pretesto per inasprire il rapporto con Pechino. Sicuramente il comportamento cinese è deprecabile, fatto di provocazioni, di un uso sempre più consistente dello spionaggio industriale, di comportamenti equivoci, come nel caso della pandemia partita proprio dai territori della Cina. Washington ha sfruttato tutto questo contesto, non agendo da prima potenza mondiale, cercando di coinvolgere gli alleati sul piano politico per un contrasto efficace, basato su programmi e principi, ma ha dato l’impressione di volere tutelare la sua supremazia economica per esclusivi vantaggi nazionali. Trump invidia al presidente cinese la grande autonomia e la capacità decisionale praticamente illimitata e questo non ne fa il campione degli interessi del campo occidentale, anche perché predilige i risultati economici rispetto a quelli politici, come il rispetto dei diritti, proprio come succede a Pechino. Questa è anche la ragione del timido atteggiamento degli europei verso l’attuale amministrazione della Casa Bianca, che, inoltre, sono lontani in senso geografico, dalle dispute che hanno maggiormente coinvolto paesi del campo occidentale, come Giappone, Australia o anche l’India nei confronti di Pechino. Al contrario nelle popolazioni di USA e Cina esiste un dato comune molto sconfortante: in entrambi i popoli ed in maniera simmetrica vi è una avversione verso l’altro paese (66% degli americani hanno una opinione sfavorevole sulla Cina, bilanciata dal 62% dei cinesi che hanno la medesima opinione verso gli USA), che rappresenta un elemento che non può essere tenuto in considerazione ed anche sfruttato dalle rispettive amministrazioni. Una prova è che il concorrente di Trump alle prossime elezioni presidenziali americane, Joe Biden, ha già espresso tutta la sua contrarietà alla politica cinese; l’unica speranza è che sposti l’attenzione dall’economia a temi politici di più ampio respiro. Tuttavia il problema contingente è che le due economie sono fortemente interconnesse, infatti da entrambe le parti vi è bisogno di materie prime e prodotti lavorati che sono prodotte dal paese avversario; Trump ha adottato la strategia dei dazi commerciali (peraltro imposti anche agli alleati) per ridurre il divario della bilancia commerciale con la Cina, una strategia miope, che non ha tenuto conto della bilancia commerciale globale degli Stati Uniti e che ha innescato analoghe contromisure cinesi. Procedere su questa strada non conviene a nessuno dei due contendenti, ma restano le incognite militari legate agli aspetti geopolitici, che sono in stretta relazione con le vie di comunicazioni marittime delle merci nei mari del Pacifico e del confronto sulla crescita degli armamenti. La situazione attuale, pur con un livello di pericolosità elevato, non sembra potere trasformarsi in un conflitto armato, anche se le occasioni potenziali di scontri non mancano, quanto assestarsi su di un conflitto non tradizionale basato sull’uso delle tecnologie per influenzare le rispettive opinioni pubbliche, un incremento dello spionaggio ed, eventualmente, lo sfruttamento di conflitti locali a bassa intensità. Se questo può sembrare un buon segnale per la pace mondiale, ma non per tutti, è anche vero che è la situazione migliore per mantenere alto il livello di una guerra che si può definire fredda, con tutti i rischi del caso: dal ritorno dell’equilibrio del terrore e della proliferazione nucleare, fino a pesanti ripercussioni mondiali sull’economia, con aumento dei prezzi e limitazione della circolazione di prodotti e servizi e quindi ritorno di fenomeni come quello dell’inflazione.  Non è facile dirimere questa situazione, soprattutto pensando alla costante mancanza di diritti nel paese cinese e nella volontà di Pechino di esportare il proprio modello, un pericolo dal quale l’Europa deve assolutamente preservarsi.

Crisi di Hong Kong, Cina, USA ed Europa

L’evoluzione dei fatti che riguardano la Cina, relativi non solo alla questione del dissenso interno e la relativa repressione, ma anche quelli di Hong Kong, che hanno ottenuto maggiore rilevanza dalla stampa mondiale ed il complicato rapporto con Taiwan e le relative implicazioni internazionali, pongono delle questioni pericolose per la stabilità mondiale, a cominciare dai rapporti tra Pechino e Washington, che hanno subito un netto peggioramento. Se sul fronte interno cinese, il mancato rispetto dei diritti civili è maggiormente tollerato, perfino per quanto riguarda la repressione dei musulmani cinesi, il problema di Hong Kong sembra essere più sentito in occidente. L’atteggiamento cinese di avversione al teorema di un paese due sistemi (politici) deve essere inquadrato proprio nella necessità di stroncare il dissenso interno, togliendo l’esempio di pluralismo sul suolo cinese. Questo obiettivo è ora considerato prioritario anche rispetto ai risultati economici ed alle relazioni internazionali. Gli USA valutano sanzioni contro il sistema finanziario di Hong Kong, che sul breve periodo potranno avere effetti pesanti sulla possibilità di operare sul fronte della finanza, all’interno del mercato americano, tuttavia il governo cinese ha avviato da tempo un depotenziamento di Hong Kong nel quadro generale dell’importanza finanziaria a favore di altre piazze che sono maggiormente sotto il controllo del governo centrale. L’ostinazione che Pechino percorre nell’atteggiamento contro Hong Kong rivela che, ormai, ne ha sacrificato la capacità operativa all’interno del mondo finanziario per esercitare il maggiore controllo possibile. Ciò significa anche che Pechino è disposta a valutare un potenziale impatto negativo sulla sua economia da parte dell’occidente. Per il rischio è calcolato: soltanto gli USA di Trump, che è in campagna elettorale, possono cercare di esercitare una pressione sulla Cina, mentre dall’Europa, per ora non è arrivato altro che un silenzio colpevole ed irresponsabile. Tuttavia la questione di Hong Kong, pur in tutta la sua gravità, è di minore impatto rispetto a ciò che può diventare Taiwan. La Cina considera Formosa parte integrante del suo territorio e non ha mai fatto mistero di potere considerare anche di arrivare all’opzione militare per affermare il suo potere in maniera concreta. Gli USA hanno sempre mantenuto un legame con Taiwan in maniera non ufficiale, ma negli ultimi tempi, considerando il paese strategico per i traffici navali ed essenziale dal punto di vista geopolitico, hanno aumentato i contatti, suscitando più volte l’irritazione della Cina. Washington per quanto riguarda Hong Kong ha scelto un approccio impostato sulle sanzioni economiche, ma un analogo comportamento di Pechino a Taiwan non potrebbe consentire un approccio simile; ad una prova di forza cinese gli Stati Uniti non potrebbero essere passivi. Per ora la situazione è di stallo ma quelli che si confrontano sono due leader simili, che hanno fatto del sovranismo e del nazionalismo i propri punti di forza ed entrambi non sembrano volere cedere. Ci sarebbe un terzo attore che potrebbe incidere sull’economia del dialogo, se avesse la forza di una propria politica estera e la convinzione di volere difendere i diritti a qualunque costo. L’azione americana, infatti, non si muove a garanzia dei diritti universali non rispettati dall’azione e dall’ordinamento cinese, ma da una esclusiva tutela degli interessi statunitensi: un atteggiamento che squalifica rende meno rilevante il ruolo di Washington nell’arena mondiale. Questo vuoto, se non a livello militare, potrebbe essere riempito a livello politico dall’Europa, che potrebbe investire in credibilità, una dote da spendere successivamente anche su altri piani. Occorrerebbe, però una capacità di coraggio in grado di andare contro la potenza economica cinese, ma partendo dal punto di forza di avere la consapevolezza di essere il maggiore mercato mondiale. Una politica di sanzione verso i prodotti cinesi, praticata per contrastare il mancato rispetto dei diritti civili e le repressioni operate ad Hong Kong, potrebbe costituire un freno all’attuale politica di Pechino. Ciò potrebbe anche servire per ottenere, grazie politiche fiscali europee mirate, un’autonomia da una vasta serie di prodotti cinesi la cui produzione potrebbe essere riportata sul suolo continentale favorendo un nuovo sviluppo industriale. Risulta chiaro che nella fase iniziale occorrerebbe rinunciare a vantaggi economici immediati, che potrebbero essere recuperati dalle ricadute degli effetti dell’assunzione di un nuovo ruolo politico da protagonista a livello mondiale. Sarebbe uno sviluppo molto interessante.  

Gli USA allertano le ambasciate

Gli Stati Uniti dimostrano di prendere sul serio la minaccia bombe alle ambasciate italiane dopo i recenti casi occorsi alle rappresentanze diplomatiche di Cile e Svizzera. Intensificata la vigilanza e messe in campo nuove procedure per evitare possibili attentati anche dopo i falsi allarmi registrati per le sedi delle ambasciate presso la Santa Sede di Albania e Finlandia. La pista principalmente indicata dagli inquirenti italiani riguarda il movimento anarco-insurrezionalista ed andrebbe inquadrata nel non facile momento legato all’approvazione della legge di riforma del sistema universitario, anche in funzione dei numerosi cortei che hanno percorso le maggiori città italiane. Tuttavia con l’approvazione della legge ed anche in concomitanza delle festività di fine anno l’ipotesi non sembra reggere per l’allentamento delle manifestazioni da parte dei gruppi studenteschi, che di fatto, non hanno raggiunto il loro proposito. In Italia, spesso la pista anarchica storicamente è andata bene per tutte le stagioni, salvo poi scoprire l’innocenza degli indagati. E’ vero che non siamo in presenza di attentati particolarmente gravi, come quelli che hanno segnato tristemente la storia italiana dove l’anarchismo ha costituito il capro espiatorio di ben altri colpevoli; qui siamo in presenza, in definitiva di atti poco più gravi  della pura dimostrazione contro obiettivi ben definiti, come la Svizzera, colpita per ritorsione a causa dell’estradizione di un componente del movimento anarchico. In quest’ottica la tesi del governo italiano potrebbe anche essere azzeccata, ma la domanda è perchè le bombe sono state inviate in questo momento? E perchè  insistere con questa strategia mantenendo sulla corda le legazioni diplomatiche anche con falsi allarmi? Lo scacchiere degli obiettivi colpiti o soltanto minacciati non sembra essere unito da un legame, ed il momento non è che un episodio tra i tanti di difficoltà vissuto dal paese italiano e sullo sfondo le grandi crisi mondiali appaiono molto lontane, ma lo stato di emergenza applicato dagli USA pone altre domande: è solo routine o si pensa che dietro questi attentati vi sia qualcosa di più taciuto o sconosciuto dalle autorità italiane? La galassia dei destabilizzatori è talmente vasta di possibilità che ogni ipotesi è aperta, ma il fatto è che lo stato di allerta non riguarda la sola sede di Roma, ma tutte le rappresentanze USA presenti nel pianeta; se Washington pensa di essere sotto attacco probabilmente pensa anche di esserlo per qualcosa di definito. In questo momento i punti caldi sono la Corea, l’Iran, la Palestina, i rapporti con la Cina, qualcuno di questi motivi può essere legato allo stato di allerta?

Angola: situazione sempre piu' difficile

La situazione in Angola sta precipitando, l’impasse del dopo elezioni non si sblocca quindi Laurent Gbagbo cerca di aprire un fronte esterno, accusando USA e Francia di essere dietro all’opposizione risultata vincente dalla tornata elettorale. La prima mossa e’ stata della CEDEAO, l’organizzazione economica dei paesi dell’Africa dell’ovest, che ha minacciato il ricorso alla forza militare per ristabilire la pace nel paese. Questo ipotetico intervento e’ diretto contro lo sconfitto delle elezioni, che rifiuta il verdetto del voto denunciando brogli, per Gbagbo dietro a questa minaccia vi e’ l’azione concordata di USA e Francia per favorire il suo avversario. La Francia, dal canto suo, e’ presente con 900 uomini sul territorio ivoriano, mentre sono 15.000 i cittadini francesi ivi residenti. Il ministro della difesa francese Juppe’ ha sottolineato che l’uso della forza spetta alla decisione delle Nazioni Unite, ma che i cittadini francesi presenti sul suolo della nazione africana saranno difesi militarmente in caso di bisogno.

Coree fine dell'incubo?

La Corea del Nord rompe il preoccupante  silenzio dall’inizio delle esercitazioni della Corea del Sud e dichiara, attraverso l’agenzia KCNA, che alle manovre militari di Seul non vale la pena di reagire. Sembra così concludersi positivamente il pericoloso tira e molla seguito al bombardamento dell’isola sudcoreana sul confine dei due stati effettuato da Pyongyang. Evidentemente si tratta di una vittoria della diplomazia che ha operato alacremente al di fuori dei riflettori, tutto il mondo tira un sospiro di sollievo ma le questioni di fondo risultano ancora sul tappeto. L’atomica nordcoreana, il sempre maggiore peso cinese, il controllo delle vie di comunicazione e trasporto marine, il tutto inquadrato nella contrapposizione di alleanze ed equlibri che ruota intorno al rapporto conflittuale tra USA e Cina, con la UE spettatore interessato. La fine della vicenda, se vera fine è stata, segna un punto a favore della collaborazione tra gli stati e l’ONU, che hanno fattivamente collaborato per scongiurare il pericolo di un conflitto sui cui esiti non si potevano prevedere le conseguenze. Molto importante l’azione della Russia, che pur non essendo coinvolta in modo diretto, come USA e Cina, ha voluto assumere un ruolo di protagonista nella soluzione della questione. Probabilmente la molla che ha fatto scattare un impegno tanto fattivo è stato anche il pericolo che l’ago della bilancia si spostasse a favore di uno dei contendenti maggiori che stavano dietro le due Coree, compromettendo così l’equilibrio attuale. In questo momento storico così particolare se lo status quo subisce variazioni di così grande portata, come sarebbe potuto accadere in uno scenario possibile, rischia di innescare una reazione a catena sullo scenario internazionale di portata non facilmente quantificabile. Più defilata la posizione della UE, che ha assunto un ruolo quasi subalterno nella questione, d’accordo che le due Coree sono lontane, ma uno scenario globale come l’attuale richiede un impegno ed una presenza di maggiore peso in tutti i punti caldi ed i nodi cruciali del panorama complessivo.

Israele si sente accerchiato e teme sempre di più l'atomica iraniana

La politica estera Israeliana ha cercato di attivare una sorta di cintura di sicurezza intessendo buone relazioni con i governi di Turchia, Egitto e Giordania, tuttavia gli analisti rilevano che questi buoni rapporti si fermano al livello istituzionale senza incontrare il favore delle rispettive popolazioni. Si tratta di un problema non da poco per il paese della stella di David, giacchè l’intensificarsi della delaicizzazione di questi paesi favorisce partiti e movimenti di stampo religioso. La questione palestinese ha una grande presa su società sempre più islamizzate, dalle più tiepide fino a quelle più integraliste. Con la Turchia, unico paese di religione islamica con il quale esiste un accordo di mutua cooperazione per la difesa, il nocciolo della questione è l’esercito della mezzaluna che sta perdendo quote consistenti di potere all’interno delle istituzioni turche. Le forze armate di Ankara sono tradizionalmente laiche e vedono di buon occhio la collaborazione con Israele anche per gli avanzati strumenti e metodi che l’esercito israeliano condivide con loro, ma il crescente peso politico di partiti a componente religiosa sta rosicchiando sempre più peso specifico nell’importanza politica generale. In Libano la fazione dei cristiano maroniti sembra propendere verso un’alleanza non strategica ma tattica con gli Hezbollah, questo determinerebbe la fine dei rapporti con . Sono tutti segnali che innervosiscono Tel Aviv e contribuiscono a generare un pericoloso senso di accerchiamento in una fase molto difficile contrassegnata dal pericolo nucleare iraniano. Il rischio di conflitto aleggia sempre, la situazione iraniana non si sblocca nonostante le sanzioni ONU e la condanna internazionale, Israele teme concretamente l’atomica iraniana ed un possibile uso contro i suoi territori, ciò rende pericolosamente instabile il suo atteggiamento combatutto tra cautela e voglia di intervento. Fino ad ora si è preferito esercitare mezzi di contrasto alternativi come la guerra elettronica ed il sostegno agli oppositori del regime degli Ayatollah, ma l’accumulo di armamenti pesanti alla frontiera insieme all’esercito USA è un fatto concreto. D’altra parte proprio gli USA pensano di dotare uno scudo nucleare per i paesi arabi propri alleati in caso di avvenuta costruzione dell’atomica di Teheran. Dunque in mancanza di successo, come pare, della soluzione diplomatica si passa alla fase della minaccia militare, è un passo rischioso che si gioca su equlibrismi fortemente instabili, meglio sarebbe avesse successo la carta dell’opposizione interna che, però al momento non pare in grado di rovesciare un regime che gode di grande capacità di controllo interno ed anche di consistente appoggio popolare. La vicenda è ora aperta a tutte le soluzioni speriamo prevalga l’equilibrio e la ponderazione.

I difensori di Assange

Vladimir Putin si arruola tra i difensori di Assange, tacciando gli USA di non essere una democrazia, concetto che sa tanto di pensiero sovietico (di cui Putin era funzionario, KGB per la precisione); il fatto apre una riflessione più ampia sulla diffusione dei file e le ragioni di chi difende  Wikileaks in nome della libertà di stampa. Dato per scontato che la libertà di stampa è proprio uno dei capisaldi della democrazia (su cui Putin e  la Russia dovrebbero riflettere, sopratutto dopo i recenti casi di uccisione e pestaggi dei giornalisti), nel quadro più ampio delle relazioni internazionali si deve operare una riflessione con alcuni distinguo. Nella diffusione dei file riservati siamo in presenza di un’azione a senso unico contro gli Stati Uniti, non è una valutazione è un fatto concreto, l’unica diplomazia colpita è quella americana, non esistono file riservati analoghi di alcun altro paese che Wikileaks disveli. Se fossimo in presenza di una associazione che si muove con i principi con cui afferma di muoversi Wikileaks non pare dovrebbe esserci un solo paese sotto attacco, questa non è un’osservazione da poco, fornire una risposta concreta soltanto a questa riflessione chiarirebbe molte domande in un solo colpo. Frattanto Assange è diventato una sorta di paladino degli hacker, sui quali esercita giustamente il fascino del pirata informatico, piedistallo su cui è salito grazie ai media, che non hanno mai approfondito la questione in maniera appropriata. D’altro canto è comprensibile che i giornalisti si siano buttati a peso morto su questa quantità di dati, ma finito l’entusiasmo iniziale sono mancate le giuste riflessioni, si va avanti sulla cronaca e non si scava dietro la notizia; con l’arresto dell’australiano si spera di capire di più sulla strategia di Wikileaks.