Aumenta lo scontro tra Occidente e Cina

I timori comuni dei membri dell’Alleanza Atlantica verso la Cina hanno prodotto una risposta del tutto prevedibile da parte di Pechino. La tattica cinese è fare diventare diffamazione tutto ciò che è contro la Repubblica Popolare, soltanto che il palcoscenico internazionale non è quello domestico, dove l’informazione è controllata e le critiche represse. Pechino nega di porre in atto sfide sistemiche contro la sicurezza internazionale, che è, ormai, l’opinione ufficiale e comune dell’occidente, o almeno dei governi occidentali, tralasciando l’influenza che vuole esercitare sui paesi in via di sviluppo, mediante una politica di crediti che si trasformano facilmente in debiti molto onerosi, le politiche finanziarie aggressive, il mancato rispetto dei diritti civili e la crescita economica ottenuta con l’assenza di garanzie per i lavoratori, un costo del lavoro molto basso ottenuto spesso con metodi che sfiorano la schiavitù. Negare ciò è scontato perché non ci si può presentare la mondo con queste caratteristiche, ma proprio il mondo globalizzato che piace ai cinesi è il principale strumento per smascherarli. Nella nota della missione diplomatica di Pechino accreditata presso l’Unione Europea si riprende l’occidente di essere ancora fermo ad una mentalità da guerra fredda, ma questa situazione è quella creata dalla stessa Cina. Che porta avanti politiche, soprattutto interne, ma anche esterne, in completo contrasto con i valori occidentali, ed è chiaro che se ogni parte è legittimo che sostenga le proprie ragioni è legittimo che l’occidente veda per se stesso la Cina attuale, come una minaccia. Pechino è diventata una delle peggiori vittime della sconfitta di Trump: con il precedente presidente USA , la dialettica di scontro era ai massimi livelli, ma senza troppe conseguenze, inoltre l’avversione di Trump per l’Europa aveva portato ai minimi storici il dialogo con gli alleati occidentali; ben diverso l’atteggiamento di Biden, che si rivela nemico ben più temibile per la Cina, proprio perché oltre a mantenere la diffidenza verso la potenza cinese è stato capace di ricompattare l’occidente verso i tradizionali legami con gli USA: un fattore che da solo indebolisce Pechino e la isola dai mercati più ricchi del mondo, una questione a cui la Cina è molto sensibile perché funzionale a quegli obiettivi di crescita economica, che sono da molto tempo  al centro degli obiettivi cinesi, anche come elemento di geopolitica. Aldilà del terreno di scontro dell’economia, che non è affatto secondario, l’unità di visione maturata nel campo occidentale contro l’autoritarismo cinese, permette agli stati occidentali di allontanarsi dalla Cina, verso cui si era pericolosamente avvicinata a causa del peggioramento delle relazioni causato da Trump. Dal punto di vista delle conseguenze il pericolo di una Cina isolata dall’occidente è quello di un ulteriore ricorso all’ampliamento degli armamenti, direzione, peraltro, già intrapresa da tempo, che però, con questi ultimi sviluppi, potrebbe indurre Pechino ad accelerare verso dimostrazioni di forza come ha più volte minacciato. SI pensi al presidio delle vie navali di quelle che ritiene acque di sua pertinenza, delle questioni delle isole contese e della vicenda più potenzialmente pericolosa costituita da Taiwan, a cui Pechino non ha mai formalmente rinunciato, considerandola parte integrante del territorio cinese.  Ancora più oltre occorre ricordare che la Cina ha sempre affermato di volere difendere i suoi interessi, se si estende questo concetto alla difesa della possibilità di effettuare investimenti considerati strategici per i suoi obiettivi, sarà interessante vedere la reazione di Pechino di fronte ad un possibile contrasto all’attivismo cinese nei paesi occidentali. La reazione più probabile passa da una guerra commerciale, che non conviene a nessuno, perché in grado di bloccare o comprimere fortemente l’economia mondiale, tuttavia quella che ha più da perdere è proprio la Cina, se si vedesse preclusi i maggiori mercati mondiali, in quel caso sembra facile prevedere l’esibizione di una prova di forza, con conseguenze anche potenzialmente irreparabili. Prima di arrivare a quel punto però dovrà esserci il lavoro delle diplomazie, con la minaccia di un possibile ritorno di Trump sulla scena statunitense, che sarà il vero ago della bilancia per tutta una serie di situazioni in grado di rovesciare l’assetto attuale e per il quale, verosimilmente, Cina, ma anche Russia lavoreranno a favore; quindi il successo dell’occidente, anche come valori pratici ed astratti, passa per il successo dell’attuale presidente americano, che deve rendere efficace il suo progetto di rafforzamento dei rapporti con l’occidente: un compito in grado di riportare la storia sui binari dai quali era uscita.    

La presidenza di Biden non sarà di transizione

Già durante la campagna elettorale una eventuale elezione di Joe Biden era stata classificata come un mandato di transizione, sia per l’età del candidato, sia per la figura, ritenuta di compromesso tra le varie correnti del partito democratico, inserita nella competizione elettorale con lo scopo di togliere Trump dalla Casa Bianca. Questa interpretazione rivelava una sottovalutazione del candidato democratico, che, dopo l’elezione ed i primi cento giorni nella carica presidenziale ha evidenziato una azione che vuole essere incisiva e lasciare il segno nella politica americana, cioè, tutt’altro che un mandato di transizione. La volontà di lanciare un piano molto ambizioso per riformare gli Stati Uniti e realizzare una politica molto forte sul Welfare, mettono in risalto l’intenzione di esercitare una azione intenzionata a realizzare un cambiamento epocale. La riforma del paese americano, tuttavia, non è il solo strumento caratterizzante che Biden intende usare per connotare la sua presidenza; parallelamente all’attenzione alla politica interna, il presidente statunitense ha posto l’accento anche sulla politica estera, riportando al centro dell’attenzione discorsi da guerra fredda, questa volta non rivolti contro l’Unione Sovietica ma contro la Cina. Contro Pechino sono state rivolte parole che nessuno dei predecessori di Biden ha mai usato e gli attacchi sono stati portati direttamente contro il presidente cinese ed i principali dirigenti cinesi. Il punto centrale è che la classe dirigente cinese sostenga il mancato funzionamento della democrazia e porti avanti, in modi subdoli, che vanno dall’impiego di grandi risorse finanziarie all’estero e da un uso del soft power, una sorta di convincimento sulla bontà del sistema cinese all’estero. Una delle ragioni che Biden ha evidenziato è la necessità del troppo tempo per raggiungere il potere attraverso mezzi democratici, un ostacolo per arrivare ai troppo ambiziosi obiettivi dei progetti cinesi. Dal punto di vista politico la critica appare corretta, anche se si deve evidenziare che per la Cina la questione di uno sviluppo in senso democratico del proprio sistema politico non è mai stata all’ordine del giorno, proprio per una avversione naturale della forza politica egemone: il Partito Comunista cinese, che ha scelto la via autoritaria proprio come sistema centrale, attraverso il quale perseguire gli obiettivi di crescita nazionale, favorito da un sistema senza regole a tutela dei diritti e del lavoro. Questa modalità ha favorito la crescita economica in un sistema di competizione sbilanciato a favore di Pechino, ma che è piaciuto a molti imprenditori occidentali, quindi anche americani. La critica di Biden, quindi è indirettamente rivolta a quegli industriali, che, per il loro guadagno hanno permesso la crescita della Cina anche a discapito degli USA e rappresenta la volontà di riportare nel campo occidentale larghe fette di produzione e ciò è sicuramente la peggiore minaccia per Pechino, perché l’attacca dal punto di vista economico; proprio per questo bisogna attendersi il proseguimento della diatriba commerciale su livelli sempre maggiori. La volontà di impedire che la Cina diventi la nazione più importante del mondo, proprio a discapito degli USA, ma anche imponendo il proprio sistema politico, diventa così una parte rilevante del programma politico di Biden e funzionale a questo scopo è anche il mantenimento di una presenza forte nell’Oceano Pacifico, oltre che in Europa, proprio per presidiare obiettivi cinesi come Taiwan, sia che per tutelare le rotte commerciali marittime, in una parte del mondo che la Cina ritiene la propria zona di influenza esclusiva. Biden attua una strategia complessiva, che va in senso contrario alla politica di Trump: grandi piani di sviluppo sul suolo americano, estremizzazione della dialettica con la Cina, individuata come avversario numero uno in campo geopolitico ed economico, tattica funzionale ad aggregare la popolazione americana in senso nazionalistico ed a contenere il principale competitore ed, infine, rimettere la centro della politica estera l’alleanza con l’Europa e le altre potenze occidentali in un quadro di unione basata su interessi comuni, dove prevalgono gli obiettivi generali, ma funzionali anche a quelli singoli. Si tratta di un progetto ambizioso, tutt’altro che di transizione, che se portato a compimento, anche parziale, potrà fornire molte possibilità a Biden per una nuova elezione, presumibilmente in un rinnovato duello con Trump.

I programmi di Biden per la prosecuzione della sua presidenza

Biden ha tempo circa tredici mesi per ottenere risultati efficaci, che possano permettergli di arrivare con una certa tranquillità all’appuntamento delle elezioni del Congresso. Il programma governativo si basa su tre temi principali, la cui riuscita condizionerà il giudizio sull’operato del presidente, ma, soprattutto, sull’assetto futuro degli Stati Uniti, attraverso una politica che si annuncia impostata su grandi investimenti finanziari per stimolare la crescita strutturale del paese. Il primo punto si basa su pressanti esigenze immediate e rappresenta il superamento della pandemia. Superare questo ostacolo significa, poi procedere in tranquillità con gli altri piani di sviluppo. Gli USA, attualmente, hanno già vaccinato in modo completo il 29,1% della popolazione, un dato che pone il paese molto più avanti che l’alleato europeo e, di per se, rappresenta già un successo sul quale è obbligatorio procedere senza subire rallentamenti. Il successo sulla pandemia è necessario e propedeutico per gli altri obiettivi che si è posto il presidente americano, sia perché rappresenta uno strumento di credibilità non contestabile, sia perché è funzionale per portare avanti i grandi investimenti che si vuole effettuare. Il secondo obiettivo è di natura amministrativa e si prefigge di superare le divisioni di uno stato altamente decentralizzato, dove la difficoltà maggiore è quella di mettere d’accordo una serie di amministrazioni pubbliche, che possono intralciare progetti a livello federale con una burocrazia molto diffusa. Si tratta di una sfida ambiziosa, perché significa volere imporre un cambio di mentalità, che ha come fine, sul breve periodo, avviare la riforma della rete infrastrutturale americana, che specie nelle regioni più remote, non è degna della prima potenza mondiale. Sia che siano strade fisiche o autostrade digitali, occorre rendere più snello il processo burocratico ed il compito non è facile quando si deve intrattenere rapporti con chi guida le amministrazioni dell’America più profonda. Dal punto di vista dello sforzo istituzionale si tratta di un programma simile a quello che l’Unione Europea è in procinto di effettuare, ma con uno sforzo finanziario ben maggiore, tanto da investire un importo pari a due volte e mezzo di quello fatto da Bruxelles. Si comprende come l’intenzione sia quella di stimolare la domanda interna insieme a dotare il paese di infrastrutture più avanzate, indispensabili per permettere a tutta la nazione di affrontare e sostenere lo sviluppo economico che l’evoluzione delle sfide mondiali imporrà già nell’immediato futuro. Il terzo obiettivo è il più ambizioso, proprio perché deve andare in direzione contraria alla politica interna, che gli Stati Uniti hanno intrapreso dagli anni ottanta del secolo scorso. L’intenzione è quella di sostenere un programma di Welfare, sia dal punto di vista normativo, che fiscale e che di entità di investimenti. Normative in grado di assicurare il congedo di maternità, la gratuità di alcuni gradi di istruzione ed il trasferimento di fondi dallo stato alle famiglie con bambini, sono provvedimenti consueti in Europa, ma la cui introduzione negli USA rappresenterebbe una vera e propria innovazione, soprattutto dopo il periodo di Trump, tuttavia l’interrogativo su come finanziare l’incremento dello stato sociale può avvenire solo con la riforma della tassazione che può consentire di reperire i fondi necessari. Biden intende praticare una serie di aumenti fiscali verso la parte più ricca della popolazione e che prevede, nei principali provvedimenti, di aumentare la tassazione dei profitti di impresa dal 21% al 28%, l’incremento della tassazione per l’uno per cento della popolazione più ricca del paese e l’aumento delle imposte sulle plusvalenze di borsa dal 20% al 30%. Se il piano delle infrastrutture sarà finanziato a debito, per l’incremento del Welfare la necessità di variare l’imposizione fiscale può incontrare delle contrarietà, largamente prevedibili nei repubblicani, ma anche presenti in parte dei democratici. Risolvere questi problemi è la difficoltà maggiore e più immediata che dovrà affrontare Biden, cercando un dialogo difficile con il Congresso e la ancora più complicata cooperazione tra i due partiti. La partita è aperta Biden ha un gradimento del 55% degli elettori, nello stesso periodo inferiore ad Obama ma superiore a Trump, ma con un 68% di elettori che apprezza la gestione della pandemia; si tratta di buoni dati di partenza, che dovranno essere rinforzati attraverso la capacità del presidente di convincere le parti sociali e politiche della bontà dei suoi progetti.

USA e Iran vicino alla ripresa dei negoziati per l’accordo sul nucleare

La possibilità della ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano entra in una fase decisiva grazie ad una serie di incontri preliminari avvenuti in maniera indiretta tra i rappresentanti di Washington e Teheran a seguito delle pressioni diplomatiche esercitate sia dalle due parti, che dall’Unione Europea. L’obiettivo è quello di ripristinare il documento firmato durante la presidenza di Obama e cancellato in maniera unilaterale da Trump, ma senza l’assenso degli altri firmatari. Per gli USA e per gli altri firmatari è importante che l’Iran rispetti l’accordo sul nucleare e per l’Iran è fondamentale che gli Stati Uniti ritirino le sanzioni e permettano la ripartenza dell’economia persiana. Se materialmente l’incontro tra le due delegazioni non c’è stato, l’impegno della diplomazia europea ha permesso concretamente il dialogo a distanza. La situazione attuale è da ascrivere alla errata strategia di Trump, che, ritirandosi dal trattato, ha favorito le condizioni per il ritorno iraniano verso l’arricchimento dell’uranio e, nel contempo, ha creato le condizioni affinché Teheran ritenga immotivato sedersi ad un tavolo con gli USA, senza che Washington ritiri le sanzioni. Da un punto di vista politico la posizione dell’Iran sarebbe ineccepibile se non fosse che anch’esso si è sostanzialmente ritirato dall’accordo arricchendo l’uranio. L’attuale situazione è di stallo: Biden rivuole l’accordo, ma non ritirerà le sanzioni fino ad un nuovo adempimento iraniano, viceversa Teheran pretende prima il ritiro delle sanzioni per sedersi di nuovo al tavolo con gli USA per poi arrivare ad assicurare l’interruzione dei processi di arricchimento dell’uranio. Questa situazione di blocco potrebbe essere rimossa da una dimostrazione di buona volontà degli statunitensi, come ha anche affermato il portavoce americano, che ritiene necessaria l’interruzione delle sanzioni per fare ripartire la trattativa; parole accolte positivamente in Iran, che fanno intravvedere una soluzione positiva. Gli ultimi incontri preliminari hanno determinato la costituzione di due gruppi di lavoro che riguarderanno, rispettivamente le modalità per interrompere le sanzioni americane e il percorso per ripristinare le condizioni dell’accordo nel paese iraniano. Washington, pur predisponendosi favorevolmente allo sviluppo della situazione, mantiene un basso profilo di fronte alle possibilità di un successo della trattativa, dato che i tempi previsti per il ripristino dell’accordo non sembrano essere brevi. Gli USA rifiutano la logica di procedere per primi nel blocco delle sanzioni per arrivare alla conseguente azione iraniana, piuttosto prediligono una modalità sincrona con Teheran nella rinuncia congiunta delle attuali condizioni. Per questo scopo è importante che le due parti stabiliscano un procedimento scandito con tempi certi nei vari passaggi, anche se è difficile prevedere una tempistica certa per arrivare alla fine del processo. L’obiettivo comune di Washington e Bruxelles è quello di arrivare ad una soluzione prima delle elezioni iraniane di giugno, affinché anche un governo di diverso indirizzo da quello attuale trovi una situazione già definita, tuttavia diversi analisti ritengono fortemente improbabile concludere il processo entro la data elettorale e ciò potrebbe causare una nuova partenza delle trattative con nuovi interpreti e condizioni. Per la Casa Bianca è importante evitare un riavvicinamento di Teheran con Pechino, causato anche dal comune interesse di indebolire il predominio della moneta americana nel mondo, fattore che è stato alla base del successo delle sanzioni americane, non solo contro l’Iran ma anche contro altri soggetti internazionali. Questo argomento, però, può essere alla base di un progetto con una scadenza medio o lunga, nell’immediato non è attuabile e le necessità del breve periodo per l’Iran sono quelle di rivitalizzare la propria economia, che sta patendo, oltre le sanzioni, la pessima congiuntura interna ed internazionale e gli effetti della pandemia. Queste ragioni pratiche potrebbero essere il fattore decisivo per dare un impulso ancora maggiore ai negoziati e risolvere per Washington una situazione che può distogliere delle attenzioni e delle risorse americane per destinarle a scenari ritenuti più decisivi, come quello del sud est asiatico, mentre per la stabilità regionale l’Iran senza atomica significherebbe anche la mancata proliferazione da parte dell’Arabia Saudita ed un atteggiamento più cauto di Israele.

La ripresa del conflitto ucraino come ulteriore fattore di scontro tra la Russia con USA e Unione Europea

In un momento nel quale le relazioni tra Unione Europea e Stati Uniti con la Russia, sono ad un punto molto basso, un vecchio motivo di attrito si sta aggiungendo come fattore di aggravamento della crisi. Non che sul conflitto ucraino c’erano particolari illusioni di una risoluzione conveniente a tutte le parti in causa, ma la situazione di stallo autorizzava a credere che questo conflitto restasse in una situazione latente per non contribuire ad aumentare i contrasti. Al contrario la ripresa dei combattimenti, nel corso delle ultime due settimane ha registrato una intensificazione tale da essere definita come la peggiore degli ultimi mesi. Dunque dopo sette anni di combattimento e circa 14.00 vittime, secondo  la tragica statistica delle Nazioni Unite, la questione è ancora lontana da una risoluzione ed i movimenti di truppe russe prossimi al confine con l’Ucraina ed il rafforzamento della presenza dei militari di Kiev lungo la frontiera orientale, indicano che una definizione pacifica appare sempre più remota. Mosca, per giustificare le sue provocazioni, usa la solita tattica prevedibile, che consiste nell’accusare il paese ucraino di effettuare provocazioni lungo la linea di frontiera a cui è necessario rispondere con un dispiegamento militare per proteggere la Russia; ora occorre ricordare che Mosca ha sempre smentito la propria partecipazione nel conflitto nel Donbass, dove hanno agito effettivi senza divise, ma riconducibili all’esercito russo, un comportamento ambiguo che descrive bene le modalità operative di Putin e che fa parte del sistema di disinformazione per giustificare il comportamento verso l’Ucraina. Ma se il destinatario più immediato delle minacce del Cremlino è Kiev, il messaggio è rivolto anche a Bruxelles e Washington, che nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, inquadrano l’Ucraina come frontiera geostrategica per il contenimento dell’ex paese sovietico. Occorre considerare che dopo il cambio alla Casa Bianca, l’amministrazione americana è più compatta nel considerare la Russia come un avversario e meno ben disposta di quando Trump era presidente, Biden infatti ha mostrato subito la sua avversità a Putin, riportando in alto il livello dello scontro verbale. Non è un mistero che a Mosca avrebbero preferito la continuità di Trump rispetto alla situazione attuale ed una spiegazione possibile di alcuni analisti al comportamento russo in Ucraina è che Mosca non abbia una reale intenzione di forzare la situazione, quanto quella di effettuare una prova di forza con lo scopo di verificare la reazione americana. Questa interpretazione non sembra azzardata perché risponde alla logica della provocazione a cui ha abituato più volte il Cremlino, intesa come mezzo strumentale da esercitare in politica estera. Una ulteriore lettura del comportamento di Mosca è quella di esercitare, attraverso le minacce contro l’Ucraina, una pressione sugli alleati occidentali di Kiev per ottenere concessioni politiche che possano alleggerire le sanzioni a cui è sottoposta la Russia per l’annessione della Crimea. Allo stato attuale sia gli USA, che l’Unione Europea hanno assicurato il loro appoggio all’Ucraina, ma dal punto di vista militare, senza un impegno concreto, che deve andare aldilà di quello politico, Kiev sarebbe destinata a soccombere di fronte alla supremazia russa ed è difficile ipotizzare  la presenza di effettivi americani ed europei al fianco dei soldati ucraini; certamente Mosca sa che avrebbe una risultato immediato, nel caso di attacco contro l’Ucraina, ma nel medio e lungo periodo andrebbe incontro ad un isolamento internazionale e sanzioni così dure da mettere in grossa difficoltà il paese russo. Risulta più credibile un atteggiamento sempre al confine della provocazione, ma proprio per questo potenzialmente molto pericoloso perché in grado di degenerare anche per l’incidente più banale. Deve anche essere analizzato che questo attivismo russo avviene in un momento nel quale il livello delle relazioni tra Mosca e l’occidente sono particolarmente basse e destinate, al momento, ad essere sempre più deteriorate, ciò può nascondere il timore del Cremlino di un coinvolgimento sempre maggiore dell’Ucraina nel campo occidentale, che avrebbe come principale effetto quello di avere le truppe dell’Alleanza Atlantica direttamente sul confine russo. Questa eventualità può essere una soluzione per fare arretrare i russi ma anche per esasperarli in maniera pericolosa: bisogna ricordare che il primo obiettivo di Mosca è quello di mantenere l’Ucraina all’interno della sua area di influenza, ma, se questo non fosse possibile, evitare almeno che entri nell’Alleanza Atlantica. La diplomazia può assecondare questo obiettivo russo se Mosca ritira i suoi militari, veri o nascosti, dalle zone sotto la sovranità ucraina ed inizia a rispettare il diritto internazionale: questa sarà la prima base di partenza per la ripresa del dialogo.  

Gli USA vicini al rientro nell’accordo per il nucleare iraniano

Il trattato sul nucleare iraniano, sottoscritto nel 2015 da Iran, Unione Europea, Germania e dai membri permanenti delle Nazioni Unite: USA, Cina, Francia, Inghilterra e Russia aveva lo scopo di impedire la proliferazione degli armamenti nucleari nella Repubblica islamica, garantendo a Teheran una minore pressione delle sanzioni economiche già imposte da Washington. Con l’elezione di Trump, gli USA invertirono il proprio comportamento adottando l’abbandono unilaterale dal trattato, con il conseguente reinserimento di nuove sanzioni energetiche e finanziarie contro l’Iran e contro chi avrebbe mantenuto rapporti commerciali con Teheran. Il cambiamento di atteggiamento americano, condizionato dalla vicinanza strategica di Trump con Israele ed Arabia Saudita, fu caratterizzato dalla così detta strategia di massima pressione, che secondo l’ex presidente degli Stati Uniti, avrebbe dovuto portare ad azzerare la volontà di possedere armamenti nucleari iraniana, mediante una politica di sanzioni più dura. In realtà, Teheran, pur sottoposto ad una situazione particolarmente pesante a causa dell’aumento dell’inflazione, del deprezzamento della propria moneta e di una grave recessione, provocate dall’atteggiamento della Casa Bianca, ha intrapreso una politica di arricchimento dell’uranio, sviluppando una tecnologia, che seppure non è stata ancora in grado di arrivare alla creazione della bomba atomica, ha creato grave apprensione, sia a livello regionale, che globale. Il fallimento della strategia statunitense di Trump, e dei suoi alleati israeliani e sauditi, ha compreso anche l’innalzamento del livello della tensione causato dagli attentati in cui sono morte personalità iraniane coinvolte nei programmi di ricerca per l’arricchimento dell’uranio. Il nuovo presidente americano Biden, fin dalla campagna elettorale, ha inserito nel proprio programma di politica estera la possibilità del rientro degli USA nell’accordo sul nucleare iraniano, valutando negativamente le conseguenze dell’uscita che si sono concretizzate in un isolamento internazionale degli Stati Uniti e nella maggiore precarietà degli equilibri regionali. Biden ha chiesto un cambio di atteggiamento preventivo degli iraniani, con una riduzione dell’attività nucleare, in cambio del quale l’Iran ha proposto una prima riduzione delle sanzioni, come segno tangibile di buone intenzioni per la prosecuzione delle trattative. A questo scopo sarà anche fondamentale la ripresa del dialogo tra i funzionari iraniani e l’Agenzia per la ricerca atomica, per favorire le ispezioni delle centrali nucleari; a questo scopo fin dal prossimo mese di aprile si aprirà un ciclo di incontri per stabilire reciprocamente le regole delle ispezioni; frattanto il presidente iraniano ha deciso autonomamente di sospendere le operazioni per l’arricchimento di uranio, che ha determinato il ritiro della mozione di sfiducia di alcuni paesi europei contro l’Iran, proprio presso l’Agenzia atomica. I segnali di distensione sembrano indicare la possibilità della ripresa pratica dell’accordo, grazie anche all’impulso dell’azione di stati come la Germania e la Russia, che si sono esposte per ripristinare la situazione precedente all’ascesa di Trump alla Casa Bianca, tuttavia lo sviluppo positivo potrebbe essere garantito soltanto dalla permanenza di Biden o comunque di un democratico nella più alta carica statunitense. Come dimostrato, infatti, dall’assurdo comportamento di Trump, il ritiro unilaterale dall’accordo non ha comportato alcuna sanzione per che questo ritiro ha effettuato, contravvenendo alla firma ed agli impegni assunti dal proprio, senza una violazione accertata da parte di Teheran, ma soltanto per una diversa valutazione politica dell’accordo stesso. Questa situazione, quindi può garantire quattro anni di mantenimento dell’accordo, ma non può impedire la situazione che si è creata con Trump. Nonostante questa considerazione, che deve essere tenuta comunque ben presente, bisognerà favorire in questo lasso di tempo un differente approccio con l’Iran, permettendo alla sua economia di crescere, in maniera di favorire la creazione di una rete di legami, sia diplomatici, che commerciali, in grado di garantire una differente modalità di considerare l’arma atomica da parte degli iraniani. Se Teheran si atterrà al rispetto della non proliferazione nucleare per tutto questo periodo conseguirà una credibilità sufficiente a non provocare il ritiro unilaterale, anche di fronte ad una rielezione di Trump o di un suo emulo. Pur restando  sostanziali differenze e contrasti in politica estera con l’occidente, l’obiettivo di non avere una nuova bomba atomica in una regione così delicata del mondo, deve essere conseguito con una priorità assoluta.

Il primo incontro di Biden sarà con il primo ministro giapponese: chiaro segnale per la Cina

La volontà di ricevere come primo ospite di un governo straniero, il primo ministro giapponese, da parte del presidente Biden, rivela l’alto valore simbolico che la Casa Bianca conferisce all’incontro. La visita, che si svolgerà nella prima metà di Aprile, rappresenta chiaramente un segnale verso le intenzioni della politica estera della nuova amministrazione americana e, nel contempo, una sorta di avvertimento alla Cina ed alle sue intenzioni espansionistiche nei mari orientali. Il significato politico di questo invito si concretizza nel mantenimento, in prosecuzione con la politica di Obama, della priorità in politica estera dell’attenzione sulla regione asiatica dell’Oceano Pacifico, per la sua importanza economica e strategica, funzionale agli interessi americani. Il processo di rafforzamento delle relazioni tra Washington e Tokyo è centrale, per entrambe le parti, all’interno del progetto per potere arrivare alla libertà dei mari asiatici orientali. L’incontro assume anche il particolare significato di volere riportare alla normalità le attività relative alle iniziative diplomatiche statunitensi, che la pandemia ha reso certamente più difficili. Biden, già vicepresidente di Obama, ripete, con questo incontro, quanto già fatto dal suo predecessore democratico, che incontrò come primo ospite straniero l’allora primo ministro giapponese: nella ripetizione del primo vertice internazionale dopo l’elezione, si scorge che l’intenzione di Biden è quella di riprendere il discorso di Obama, sulla centralità della regione asiatica; del resto il Giappone è considerato, fino dal termine della seconda guerra mondiale, un alleato di primaria importanza per gli USA. Sul piano delle relazioni multilaterali, gli Stati Uniti, hanno indetto anche un prossimo vertice a quattro, con la partecipazione, oltre che degli USA, anche di India, Australia e dello stesso Giappone, che rimarca la volontà di porre al centro dell’azione diplomatica americana l’attenzione sulla regione asiatica orientale, procedendo in sintonia con altri partner, dell’area occidentale, interessati al contenimento cinese. Risulta molto significativo che questo vertice era stato inaugurato nel 2007, per la coordinazione degli aiuti a seguito del terremoto giapponese, ma successivamente  era stato sospeso per la volontà congiunta indiana ed australiana di non urtare la sensibilità cinese; tuttavia la crescita della spesa militare di Pechino unita alla sua volontà di esercitare il suo potere sulla zona del pacifico orientale, considerata come propria zona di influenza esclusiva, ha causato nuove riflessioni a Canberra ed a Nuova Delhi. Per l’India, poi, la rivalità mai sopita con la Cina, essenzialmente basata su argomenti geostrategici ed economici, è aumentata per i territori contesi al confine himalayano. Nuova Delhi si è così unita alle esercitazioni militari di guerra sottomarina congiunte, compiute da USA, Australia, Giappone e Canada ed ha rafforzato la sua cooperazione militare con Washington, provocando il risentimento cinese. Questo scenario, non deve essere dimenticato, si innesta sulla già preesistente guerra commerciale tra Washington e Pechino, che resta uno dei pochi punti di contatto e continuità tra la presidenza Trump e quella di Biden: appare chiaro che ciò provoca nel paese cinese sentimenti di avversione che potrebbero favorire pericolose conseguenze di carattere diplomatico e militare in grado di alterare i precari equilibri regionali. Pechino si sente anche accerchiata dalla ripresa delle attività del vertice a quattro, che ha condannato come un pericoloso multilateralismo anti cinese e ciò potrebbe accelerare alcune iniziative della Repubblica Popolare più volte minacciate, come la questione di Taiwan, sulla quale Pechino non ha mai escluso l’intervento armato per riportare l’isola sotto la piena sovranità cinese. Quindi se l’attivismo americano appare giustificato dalle stesse iniziative cinesi, l’augurio è che l’amministrazione Biden, pur ferma nei propri propositi, sia dotata di una maggiore cautela ed esperienza di quella che l’ha preceduta.  

Il possibile procedimento contro il principe ereditario saudita in Germania, come nuova forma di lotta contro i crimini contro l’umanità

La denuncia dell’associazione Reporter senza frontiere, depositata in Germania, con un dossier di 500 pagine, contro il principe ereditario Mohamed bin Salman ed altri membri della sua cerchia, accusati per l’omicidio del giornalista, avverso al regime, Jamal Khasoggi, avvenuto in Turchia nel 2018, diventa un’arma giuridica dell’occidente contro l’Arabia Saudita. Questa iniziativa arriva dopo che il presidente Biden ha tolto il segreto al dossier della CIA, voluto da Trump, sulle responsabilità effettive, come mandante dell’omicidio del giornalista. La quasi contemporaneità delle due iniziative dimostra come il legame tra USA ed Unione Europea si è rinsaldato con il nuovo inquilino della Casa Bianca. In realtà manca ancora il pronunciamento del pubblico ministero del tribunale dove è stata presentata la denuncia, ma il proseguimento dell’azione legale è dato per scontato, anche se la Germania non ha alcun legame con la vicenda, i tribunali tedeschi dovrebbero dichiararsi competenti sui fatti per effettuare un procedimento contro presunti crimini contro l’umanità, grazie alla conformità delle leggi tedesche ed al principio del diritto internazionale della giurisdizione internazionale. Deve essere specificato che si tratterà soltanto di una azione senza alcun effetto pratico, dato che è scontato il rifiuto, in caso di condanna, di estradizione da parte dell’Arabia Saudita, che ha espresso molto chiaramente il proprio atteggiamento sulla vicenda condannando, prima alla pena di morte, poi commutata in pene detentive, imputati di cui non sono state fornite le generalità, il che potrebbe volere dire che la condanna è stata emessa contro nessuno e soltanto per salvare le apparenze per i rapporti con l’occidente; tuttavia il valore politico di effettuare soltanto un procedimento contro una delle massime cariche saudite per violazioni contro l’umanità, assume un chiaro significato di discredito verso il principe ereditario, che lo squalifica nei rapporti di tipo diplomatico che intenderà intraprendere con altri soggetti internazionali. La Germania può essere una sorta di capofila per i paesi occidentali nella tutela dei crimini contro l’umanità, usati in maniera funzionale come azione diplomatica e quale discriminante dei rapporti internazionali; certamente si è all’inizio di un processo di questo tipo, del quale si dovrà valutare attentamente le implicazioni e le ricadute sui rapporti commerciali ed economici tra gli stati. A questo proposito deve essere considerato con attenzione l’atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti: Washington ha reso pubblico il rapporto che svela la responsabilità del principe ereditario, ma non ha emesso alcun procedimento o sanzione contro di lui, limitandosi a esprimere il proprio diniego dai rapporti istituzionali con il principe e considerando legittimo come interlocutore soltanto il regnante attuale. Si tratta di una posizione dettata dalla necessità di mantenere gli attuali legami con il regno Saudita, basati su reciproca convenienza di carattere geopolitico, tuttavia nel caso il principe ereditario diventasse il legittimo, per le leggi saudite, nuovo sovrano del paese, il problema non potrebbe essere di facile soluzione. Quello che appare è che si sta provando a gestire con una nuova metodologia, situazioni purtroppo già ben presenti da tempo, ma la domanda è se queste pratiche potranno valere a livello universale o se saranno usate solo per casi sporadici, secondo le esigenze contingenti o le convenienze del momento. Ad esempio il caso più eclatante è la Cina, che, malgrado le difficoltà attuali, intrattiene rapporti commerciali con tutto l’occidente, ma ha anche comportamenti sicuramente colpevoli verso gli Uiguri, contro i quali è in atto una feroce repressione che alcuni giudicano come un vero e proprio genocidio, così come nei confronti della protesta di Hong Kong, senza contare l’atteggiamento verso il Tibet ed il dissenso interno; tutto materiale sufficiente per una serie di processi per crimini contro l’umanità. Queste considerazioni valgono per molti altri stati, compresi la Russia e l’Iran, con il quale l’occidente cerca di riallacciare i rapporti sul nucleare interrotti da Trump. La questione è molto ampia ed ha ostacoli non facilmente sormontabili, ma, in questo momento, è importante sottolineare l’inizio di pratiche giurisdizionali, la cui applicazione potrebbe rappresentare il futuro della lotta ai crimini contro l’umanità: un percorso difficile ma che merita di essere sviluppato e collegato ai rapporti tra gli stati, proprio per emarginare ed isolare quei soggetti internazionali responsabili di queste violazioni.    

Biden non cambia la politica americana nei confronti della Cina

Come ampiamente annunciato già nella campagna elettorale, il nuovo presidente americano, Biden, ha mantenuto le promesse, fin dall’inizio del suo mandato, su quale piano si svolgeranno le relazioni con la Cina. La prima prova pratica è stata la prima conversazione telefonica con il capo dello stato cinese, Xi Jinping, dove il nuovo inquilino della Casa Bianca ha espresso tutte le proprie preoccupazioni per il comportamento di Pechino sia nella politica interna, con violazioni ripetute dei diritti umani, politici e civili, che nella politica estera, dove la Cina ha dimostrato più volte, attraverso una politica aggressiva, una volontà sempre maggiore di esercitare una influenza nel contesto internazionale. Questa linea che Biden ha adottato non sembra discostarsi, se non per le differenti modalità di espressione, da quella tenuta dal suo predecessore: la scelta sembra obbligata dai difficili rapporti che continuano tra i due paesi dovuti ai contrasti in materia commerciale e geostrategica. Alcuni passaggi di quella che è stata la prima conversazione tra i due uomini politici, dopo l’elezione di Biden, sono anche stati cordiali, come è dovuto dal protocollo, ma la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca, al termine del colloquio ha evidenziato la preoccupazione statunitense per le pratiche economiche scorrette di Pechino, le repressioni adi Hong Kong, le ripetute e gravi violazioni dei diritti nei confronti della popolazione musulmana della provincia dello Xinjiang e le minacce verso l’autonomia di Taiwan. Si tratta di un insieme di argomenti tali da costituire un dossier particolarmente voluminoso per l’amministrazione americana, che rappresenta un ostacolo non molto sormontabile, a relazioni normali con il paese cinese e che conferma tutte le difficoltà già registrate da Obama e Trump; peraltro Biden, avendo già ricoperto il ruolo di vicepresidente, conosce bene queste problematiche, così come conosce altrettanto bene il presidente cinese fin dal 2011. Nello specifico la dichiarazione di Biden che ha affermato di considerare prioritaria la sicurezza, la salute e lo stile di vita del popolo americano ed in relazione a ciò di impegnarsi a cooperare con la Cina in relazione a quanto ciò soddisfi gli interessi degli USA e dei suoi alleati, deve essere letta come una sorta di avvertimento verso Pechino, anche in ragione di nuove relazioni con gli abituali alleati degli Stati Uniti, i cui rapporti con Trump si erano deteriorati. Considerando prioritari i normali legami transatlantici, Washington sembra volere avvertire il paese cinese che le collaborazioni con l’Europa per la Repubblica popolare non saranno più le stesse. Biden vuole tornare a riempire quei vuoti creati da Trump che avevano permesso alla Cina di insinuarsi nei rapporti con gli stati europei grazie alla sua grande capacità finanziaria e, se l’Europa sarà il primo obiettivo da recuperare per gli Stati Uniti, appare impossibile  non pensare che questa direzione sarà seguita anche per i paesi asiatici e per quelli africani, nei primi l’azione americana sarà necessaria per contenere l’espansionismo cinese, soprattutto in quello che considera il proprio spazio di influenza naturale, nei secondi per limitare una presenza che è già male tollerata, particolare che consente uno spazio di inserimento non secondario. Sul lato dei rapporti commerciali bilaterali, proprio per tutte queste considerazioni e per le valutazioni negative circa le condotte commerciali cinesi, è praticamente certo che gli USA manterranno le sanzioni commerciali contro Pechino, al massimo queste sanzioni potrebbero essere usate come scambio per ottenere il cambio di atteggiamento cinese su specifiche questioni sulle quali sarà possibile trattare, comunque problematiche circa la condotta cinese nel commercio e nelle licenze industriali, non certo materie considerate non trattabili da Pechino come la questione di Taiwan. Ma su questo fronte non c’è spazio di trattativa neppure per Washington: uno dei primi passi della nuova amministrazione americana è stato quello di ricevere il rappresentante di Taiwan negli USA, fatto che ha costituito un segnale inequivocabile per i cinesi, oltre che una novità nelle relazioni tra i due paesi. Proprio su Taiwan si registra la maggiore vicinanza di vedute tra Democratici e Repubblicani e ciò costituisce un ulteriore argomento di importanza nella valutazione americana della questione di Taiwan e ne determina l’argomento che potrebbe essere il più importante per capire l’evoluzione dei rapporti tra USA e Cina.

Gli Stati Uniti rientrano nel Consiglio per i diritti umani dell’ONU: dichiarazione politica di Biden

La nuova amministrazione americana continua il suo programma di interruzione rispetto alla politica del predecessore, con lo scopo di fare rientrare gli Stati Uniti all’interno della dialettica mondiale delle relazioni internazionali, con un ruolo centrale. Abbandonare l’isolamento che Trump aveva imposto alla sua stessa nazione è diventato il primo e più urgente obiettivo per la politica diplomatica del nuovo presidente. In questo contesto si colloca il ritorno di Washington nel Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che era stato abbandonato perché accusato di una politica persecutoria nei confronti di Israele; in realtà, sebben e questa motivazione era alla base della decisione, la percezione fu che l’amministrazione della Casa Bianca di allora, avesse preso l’occasione anche per non entrare in contrasto con stati a cui si era avvicinata e che praticavano la violazione dei diritti umani in maniera sempre più palese. Secondo il nuovo presidente USA l’importanza del l’azione del comitato è quella di essere un canale preferenziale per l’accertamento della violazione dei diritti umani in qualunque parte del globo si verifichino. A questo proposito il Segretario di stato americano ha dichiarato che la mancanza ella leadership americana all’interno del comitato ha creato un vuoto di potere, che è stato vantaggioso per i paesi autoritari. Per il nuovo presidente americano è essenziale che gli Stati Uniti facciano emergere come centrale nella loro attività internazionale la difesa della democrazia, i diritti umani e l’uguaglianza e l’attività di enti multilaterali, come l’organismo preposto delle Nazioni Unite, sarà fondamentale a questo fine, anche per la comune azione con gli alleati americani. In queste intenzioni vi è un chiaro programma che dovrebbe rilanciare la stretta collaborazione con gli alleati tradizionali, soprattutto quelli europei, ma non solo, che sono stati trascurati ed allontanati da una politica isolazionista e poco lungimirante, come quella di Trump. Il recupero del valore dell’alleanza con l’Europa appare centrale, soprattutto a livello emotivo ed ideale, sul rilancio della centralità dei temi della democrazia e del rispetto dei diritti a livello globale rappresenta una priorità sia dal punto di vista politico, che da quello programmatico, perché costituisce anche un legame di più alta caratura da contrapporre alla vicinanza che si è creata tra il vecchio continente con la Cina, ed in parte, anche con la Russia, determinata proprio come reazione all’allontanamento voluto da Trump. Avere il sostegno dell’Unione Europea e degli inglesi su queste tematiche rappresenta una sorta di ritorno del blocco atlantico da contrapporre all’espansionismo cinese ed all’attivismo russo, che sono le emergenze più immediate con cui confrontarsi. La novità di riconoscere l’importanza di un organismo quale il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, non è inattesa, ma rappresenta comunque un segnale forte che il nuovo presidente americano ha voluto dare insieme alle dichiarazioni molto nette circa la assoluta mancanza di sentimenti democratici del leader cinese, le proteste per l’atteggiamento di Mosca che ha represso le manifestazioni contro il presidente Putin ed il ritiro del sostegno militare all’Arabia Saudita nella guerra contro i ribelli yemeniti. Si tratta, evidentemente, di un programma politico, che andrà a riguardare i rapporti politici, militari ed economici, che gli americani intenderanno intraprendere con gli stati illiberali e le loro strategie internazionali: un approccio completamente differente da quello precedente, del quale, tuttavia, dovrà conservare alcune finalità, come il rapporto con Pechino. Biden ha assicurato di non volere alcun tipo di conflitto con la Cina, ma una distensione dei rapporti, già difficili, lasciati da Trump, appare impossibile, proprio per l’impostazione di fondo che la nuova politica estera americana si è data. Se la discriminante del rispetto dei diritti umani diventa fondamentale sarà impossibile un rapporto sereno con la Cina, per cui diventeranno inevitabili le ricadute sui rispettivi interessi geopolitici, come il presidio delle vie del mare del pacifico, la tutela degli stati minacciati da Pechino ed i rapporti commerciali tra le due parti, tutte potenziali ragioni che potrebbero portare ad uno stato di guerra fredda. Di fronte a questo pericolo potenziale sarà importante valutare la risposta degli alleati, soprattutto quelli europei, che hanno un maggiore peso politico: una occasione per l’Unione Europea di essere effettivamente la rappresentante del rispetto dei diritti e di interpretare questo ruolo con maggiore coraggio, soprattutto di fronte alle violazioni più gravi, prendendo iniziative diplomatiche forti, anche attraverso sanzioni economiche severe, sapendo che da ora l’appoggio americano non mancherà, se non altro per reciproci interessi.