USA e Vaticano cercano di migliorare le loro relazioni

Nell’occasione del viaggio a Roma per il G20, il presidente americano Joe Biden inserisce anche una visita in Vaticano per incontrare Papa Francesco; l’incontro è molto rilevante perché vede il confronto tra i due maggiori leader cattolici mondiali. Biden è alla prima visita, come presidente statunitense, in Vaticano, ma l’incontro con il pontefice non è una novità in quanto è stato preceduto da due visite nel ruolo di vice presidente, durante la permanenza alla Casa Bianca di Obama. Biden è il secondo presidente cattolico USA, dopo Kennedy ed arriva in Vaticano dopo la presidenza di Trump, che era stata caratterizzata da profondi contrasti con Bergoglio dal punto di vista ideologico e politico circa temi ritenuti fondamentali dal Papa, come rispetto dei diritti umani, ambiente e trattamento degli immigrati. Questi argomenti saranno proprio al centro dell’agenda ufficiale dell’incontro, che tratterà anche di pandemia e di aiuto per i più poveri. Esiste anche un’altra rilevanza, non certo secondaria, di questo incontro: l’attuale pontificato non ha buoni rapporti con la maggior parte dei cardinali e dei vescovi statunitensi, che mantengono posizioni tradizionaliste su diversi argomenti di natura sociale e che si sono troppo spesso trovati allineati alle posizioni ultraconservatrici di Trump. Questa frattura ha generato profondi contrasti fino ad immaginare possibili scismi all’interno della chiesa cattolica. La mancata rielezione di Trump, ha significato per Papa Francesco, oltre che l’eliminazione dalla scena politica di un tenace avversario, anche del maggiore alleato per il clero ultraconservatore americano, che si trova senza la propria maggiore protezione politica; è possibile che il Papa cerchi un appoggio determinante su questo tema dal Presidente americano, che dovrà sostenere questa posizione con politiche, se non proprio allineate ai desideri del Vaticano, almeno più incisive sui temi della lotta alla povertà, dell’ambiente e del trattamento degli immigrati.  Sulla sincerità religiosa di Biden non esistono dubbi: il presidente USA è un cattolico praticante e si riconosce nella politica riformista del Concilio Vaticano secondo, tuttavia alcune sue idee lo pongono, anch’esso, ad una enorme distanza da Bergoglio, soprattutto per il suo parere favorevole all’aborto. Maggiori possibilità di avvicinamento ci potranno essere sui temi ambientali se Biden si avvicinerà ai contenuti dell’enciclica sull’ambiente “Laudato Sii” non accolta troppo favorevolmente negli Stati Uniti; peraltro il tema ambientale è centrale nel viaggio in Europa di Biden, perché dopo il G20 in Italia, e dopo la visita in Vaticano, il presidente americano si recherà a Glasgow al vertice sui cambiamenti climatici. Una posizione più vicina a quella del Papa sui temi ambientali sancita in maniera ufficiale in un vertice mondiale, potrebbe testimoniare una vicinanza eloquente tra i due leader, con l’aspettativa di nuove e più avanzate posizioni degli USA sui cambiamenti climatici ed il rispetto dell’ambiente, anche viste le conseguenze che il riscaldamento globale ha provocato in tutto il mondo, dove sempre più spesso si registrano calamità naturali. Malgrado questi possibili punti d’incontro le differenze tra Biden ed il Papa restano molto forti sul tema dell’accoglienza degli immigrati: le recenti vicende al confine americano ed il trattamento riservato agli haitiani che cercavano di entrare nel territorio statunitense hanno evidenziato che la mancanza di una sostanziale differenza con l’azione di Trump contraddistinta dal continuo respingimento dei profughi, inoltre il pontificato di Bergoglio è sempre stato incentrato sulla difesa dei più deboli e l’abbandono dell’Afghanistan, che ha gettato il paese nel caos e lo ha riportato indietro di anni, voluto proprio da Biden è stato accolto in modo molto contrariato dal Papa. L’impressione è che tra i due, sia Biden ad avere bisogno di un appoggio morale e di una vicinanza politica con il Pontefice, per poterla spendere in patria, dove i sondaggi dicono che il gradimento del presidente è ai minimi storici. Certamente anche Bergoglio ha bisogno di un alleato importante nella partita che sta giocando negli USA contro il clero conservatore, ma l’immagine in patria di Biden necessita di ritrovare un apprezzamento che sta continuando a subire una erosione di consensi e per fermarla l’appoggio del Papa è giudicato fondamentale.

Gli USA difenderanno Taiwan in caso di attacco cinese

Nella questione di Taiwan si alza pericolosamente il livello dello scontro, dopo che il presidente USA ha espressamente dichiarato che le forze armate statunitensi si impegneranno direttamente nella difesa dell’isola se la Cina intenderà esercitare una opzione militare per riportare Taiwan sotto il suo governo. Biden ha equiparato l’impegno ufficiale per la difesa dei paesi che compongono l’Alleanza Atlantica, estendendolo anche a Giappone, Corea del Sud ed, appunto, Taiwan. L’intenzione dell’inquilino della Casa Bianca appare chiara: costituire un argine contro le ambizioni cinesi nella regione; la dichiarazione, tuttavia, non ha implicato la sola opzione militare, infatti, Biden ha parlato di contrastare il progetto cinese di riunificazione, prima di tutto attraverso le soluzioni diplomatiche, ma, in caso di fallimento di questa soluzione, non resterebbe alternativa ad un impegno militare diretto. In realtà questo impegno è già iniziato con l’invio di istruttori militari, che hanno il compito di formare le forze armate di Taiwan a fronteggiare una eventuale invasione di Pechino; ma il passo ulteriore di dichiarare ufficialmente la possibilità di un coinvolgimento diretto di militari statunitensi nella difesa di Taiwan, significa un avviso politico netto diretto alla Cina. Peraltro questo sviluppo rappresenta la logica conseguenza di una politica statunitense nei confronti di Taiwan, che ha sempre riguardato forniture militari, malgrado un mancato riconoscimento ufficiale a cui si è rimediato con l’invio di rappresentanze diplomatiche mascherate da rappresentanze commerciali; inoltre già con Obama si è concretizzata la centralità dell’area nella politica estera americana, a discapito di quella europea e medio orientale, questa tendenza è proseguita con Trump, mentre con Biden risulta addirittura accentuata. Il presidio delle vie commerciali marine e la supremazia americana regionale è diventata preminente, soprattutto da quando la Cina ha aumentato la sua capacità militare ed ha dispiegato la sua potenza economica, fattori che hanno determinato l’esigenza americana di operare un contenimento di Pechino con tutti i mezzi disponibili. La dichiarazione di Biden pone anche interrogativi sulle reali ragioni del repentino ritiro dall’Afghanistan: esigenza di adempiere alle promesse del programma elettorale o necessità di disporre delle forze armate statunitensi per essere schierate in altri teatri di guerra? La questione non è secondaria, perché proprio il disimpegno dal paese afghano, ricordiamolo non concordato con gli alleati, permette la grande disponibilità di effettivi militari da schierare a Taiwan. Se questa possibilità è vera, il piano di Biden per Taiwan sarebbe già avviato e pianificato da tempo. La posizione della Cina è sempre la stessa ed è dettata dalla considerazione di non tollerare alcuna ingerenza nella propria politica interna e nell’intenzione di riunificare il paese, promettendo di seguire, come ad Hong Kong, il sistema un paese due sistemi. La mancata disponibilità di Taiwan è non è stata presa bene a Pechino, che ha intensificato la pressione sull’isola con il sorvolo di circa centocinquanta aerei militari: una azione in grado potenzialmente di generare pericolosi incidenti e non solo a livello diplomatico, probabilmente è stata proprio questa iniziativa a causare la reazione pubblica di Biden. La Cina ha avvertito di non accettare compromessi sulla questione di Taiwan ed ha ammonito Washington a non mandare segnali sbagliati in aperto contrasto con l’integrità del territorio cinese e la sovranità del governo di Pechino, sui quali non saranno accettati compromessi e non esistono margini di trattativa. L’avviso del governo cinese agli Stati Uniti, per ora, è quello di non compromettere le relazioni tra i due paesi con un atteggiamento apertamente ostile. Per la soluzione della questione non si annunciano tempi rapidi e non è neppure facile fare una previsione, data l’inamovibilità delle rispettive posizioni; il pericolo di un conflitto è però concreto, con potenziali ripercussioni enormi sugli assetti commerciali che riguarderebbero tutte le economie del pianeta, anche se solo si trattasse di un irrigidimento diplomatico tra le due parti. Dopo la pandemia, per altro non ancora risolta, un possibile blocco delle vie commerciali marine potrebbe generare un nuovo blocco produttivo in grado di fermare gli scambi in maniera globale, se poi ci dovesse essere un conflitto tra le due maggiori potenze mondiali, sarebbe necessario rivedere ogni prospettiva per evitare la crisi economica totale.

I militari americani riconoscono la minore credibilità degli USA nei confronti degli alleati

I più alti responsabili militari degli Stati Uniti, il Comandante di stato maggiore ed il Comandante del Comando centrale, responsabile delle operazioni in Afghanistan, sono comparsi di fronte al Senato a seguito della convocazione per rispondere sulla caotica fine del conflitto nel paese afghano, che ha riportato al potere i talebani, contro cui l’esercito statunitense stava combattendo dal 2001. Questo confronto tra vertici militari e legislatori americani ha messo in risalto la totale mancanza di accordo tra gli stessi militari ed il potere esecutivo, mancata concordanza che vale sia per Trump, che per Biden, esponendo sempre più il presidente democratico ad una pericolosa similitudine con il suo predecessore, dal quale tanto aveva preso le distanze in campagna elettorale. La discordanza tra i militari e la Casa Bianca mette in risalto la responsabilità di Biden nei pessimi rapporti che ha provocato con i propri alleati dell’Unione Europea, che sembra non seguire i consigli dei propri vertici militari. Le decisioni del presidente americano, il quale si è sempre assunto la responsabilità delle proprie decisioni, non hanno tenuto nella dovuta considerazione i consigli dei militari, optando per le analisi sbagliate dell’intelligence statunitense.  Il Capo di Stato maggiore è apparso rammaricato per la perdita di credibilità degli Stati Uniti da parte degli alleati europei, definendo espressamente un danno l’uscita non concordata dalla guerra afghana. Questa constatazione, che arriva in un momento di difficoltà all’interno dell’Alleanza Atlantica, alimenta la diffidenza degli europei in particolare e della Francia in particolare, a causa della variazione della politica estera americana verso una centralità spostata dall’Europa allo scenario asiatico. Perfino il Segretario della difesa, che non ha condiviso le valutazioni del Capo di Stato maggiore, ha dovuto ammettere che la credibilità americana potrà essere messa in dubbio, nonostante la personale convinzione di mantenere un valore di affidabilità elevato. Ma il maggiore danno al prestigio del presidente è venuto dal comandante del Comando centrale, che ha confermato che l’intenzione dei vertici militari americani era quella di mantenere un contingente di 2.500 effettivi, opzione rifiutata da Biden, ma che era stata concordata con Trump; tuttavia entrambi i due ultimi presidenti non hanno voluto prendere in considerazione una uscita non basata sulle date, ma su condizioni di conformità, come suggerito dai militari. La decisione errata è stata dovuta anche ad una informativa sbagliata dell’intelligence USA, che riteneva l’esercito regolare afghano in grado di controbattere all’offensiva talebana senza l’aiuto americano, deve essere però precisato che la formazione dei militari del paese afghano era assegnata all’esercito americano, che nonostante i diversi miliardi di dollari investiti non ha saputo portare ad una adeguata preparazione le forze armate di Kabul. Nonostante i giudizi negativi sulle modalità del ritiro, il capo di Stato maggiore ha riconosciuto che una permanenza dei militari americani avrebbe significato lo scontro sul terreno con i talebani ed anche subire le potenziale minacce delle formazioni dello Stato islamico presenti sul territorio afghano. Le conclusioni dei senatori USA sono state, che il fallimento afghano è stato dovuto ad accordi sciagurati presi da Trump con i talebani (visione democratica), sommati alla gestione disastrosa di Biden (visione repubblicana), il cui risultato finale sono state i 2.500 morti americani e lo spreco di 2,3 trilioni di dollari, che rappresentano un fallimento strategico degli Stati Uniti di portata epocale. Aldilà di questa analisi si deve aggiungere anche che il paese afghano ritornerà un territorio dove le formazioni terroristiche islamiche potranno riorganizzarsi senza alcun contrasto, una sorta di base da dove organizzare attentati verso i paesi occidentali, addestrare terroristi e cercare di riproporre modelli più ambiziosi, come quello dello stato islamico. La decisione di Biden, se per certi versi può essere compresa nel quadro delle ragioni di politica interna, riduce la percezione degli USA come grande potenza in grado di proteggere se stessa e l’occidente da una minaccia che torna sempre più minacciosa e, che se si dovesse verificare, non potrà che essere imputata alla pessima gestione di Biden stesso, che sarà perseguitato per questo motivo anche sui libri di storia.

Per l’Europa gli USA non sono più affidabili e Biden assomiglia sempre più a Trump

Com’era lecito attendersi l’accordo militare tra USA, Gran Bretagna ed Australia ha provocato profondo risentimento in Europa. Si tratta di un vero e proprio affronto a Bruxelles, tenuta all’oscuro dei termini dell’alleanza, se si inquadra nel rapporto all’interno del mondo così detto occidentale. L’irritazione maggiore si registra in Francia, che, a causa di una clausola dell’accordo, che obbliga Canberra ad acquistare i sottomarini americani a propulsione atomica, perde una sostanziosa commessa con l’Australia per la fornitura di sottomarini con alimentazione a gasolio. Particolare molto rilevante è che questo commessa era stata confermata ancora il 31 agosto scorso da un incontro in videoconferenza tra i vertici militari dei due stati, con una firma congiunta, che non faceva presagire alcun ripensamento, peraltro mai comunicato ufficialmente. Ma aldilà del legittimo risentimento francese, l’Unione Europea subisce un torto diplomatico evidente, che minaccia di avere conseguenze pesanti nel rapporto con gli Stati Uniti, ritenuti i veri responsabili della provocazione. La maggiore delusione è rappresentata del presidente Biden, che era partito con un atteggiamento profondamente differente dal suo predecessore, ma che si è rivelato, nei fatti, ancora peggiore nei confronti dei suoi alleati europei: prima il ritiro non concordato dall’Afghanistan ed ora la creazione di una alleanza che lascia fuori l’Unione Europea senza alcuna spiegazione; o meglio la spiegazione potrebbe essere la considerazione che l’Europa è ormai un teatro secondario rispetto all’Asia, vero punto focale degli interessi americani attuali. Del resto già con Obama questa supremazia della centralità asiatica rispetto al vecchio continente cominciava a delinearsi, Trump l’ha continuata e Biden la rafforza ulteriormente. Inoltre Biden sembra sommare su se stesso la volontà di spostare l’attenzione principale USA verso l’Asia, tipica di Obama, con la volontà di Trump di mettere gli Stati Uniti davanti a tutto: solo così di spiega lo sgarbo diplomatico della Casa Bianca, dove Londra e Canberra sono solo subalterni comprimari. C’è anche da tenere conto, però, della volontà di autonomia sempre maggiore dell’Unione Europea dal principale alleato, fattore, peraltro ampiamente giustificato, come dimostra questa vicenda. Un ulteriore elemento potrebbe essere stato rappresentato dalla posizione dell’Unione Europea, che pur restando fedelmente nel campo occidentale, ha cercato un punto di equilibrio tra Pechino e Washington, per evitare una degenerazione troppo pericolosa dei rapporti tra le due superpotenze. A questo punto l’intento europeo pare fallito, con la Cina che accusa apertamente USA, Gran Bretagna ed Australia di aprire una nuova stagione di incremento degli armamenti avente per obiettivo proprio il paese cinese. Il punto cruciale, adesso, della vicenda è il pessimo livello dei rapporti tra Washington e Bruxelles, che, malgrado l’assenza di dichiarazioni ufficiali, sembra ancora più basso di quando Trump era presidente; certo Biden gode di una cautela, di cui il predecessore non beneficiava, forse dovuta alla speranza di un segno tangibile di ravvedimento, ma se questa è la tattica europea le speranze sembrano vane: la strada intrapresa dalla Casa Bianca punta ad una Europa marginale come elemento geostrategico, fattore che potrebbe avere anche ricadute nei rapporti commerciali. Washington ha anche riempito il vuoto che si è creato con la Brexit ed ha operato una tattica capace di legare maggiormente Londra con la sponda opposta dell’Oceano; questo particolare non è da sottovalutare perché potrebbe inasprire i rapporti tra Regno Unito, sempre ala ricerca di espedienti favorevoli a sé stesso nella partita degli accordi post Brexit, ed Europa. Si è così verificato lo scenario che Trump aveva perseguito senza riuscire a concretizzare, adesso occorrerà vedere la capacità di reazione dell’Unione di non farsi mettere in secondo piano e conquistare quella posizione che da tempo ricerca in campo internazionale e che viene frustrata con questo accordo, che in definitiva la vede come perdente e tradita, ma nel suo stesso campo: quello occidentale. La sconfitta, cioè, è ancora più pesante perché non proviene da un avversario, che poteva essere la Russia o la stessa Cina, ma dal paese, che malgrado tutto, era ritenuto il maggiore alleato. L a cautela e la prudenza dovranno essere alla base delle prossime mosse della diplomazia europea, ma con la giusta diffidenza nei confronti di alleati inaffidabili ed anche infidi. L’autonomia politica e militare dell’Europa è sempre più importante, orami al pari della forza economica, soprattutto per gestire avversari che hanno molto in comune e non sono distanti politicamente come Cina e Russia.

USA, Gran Bretagna ed Australia firmano un accordo per contenere la Cina

L’accordo firmato da Stati Uniti, Gran Bretagna ed Australia per la condivisione di competenze avanzate su temi riguardanti le armi nucleari, la sicurezza informatica, l’uso dei sottomarini a grandi distanze e l’intelligenza artificiale, tutte materie strettamente legate al settore militare, indica la direzione geografica e gli intenti strategici, che Washington intende privilegiare nel prossimo futuro; quello che viene ribadito è la centralità della regione dell’oceano Pacifico, dove l’intento principale è quello di contrastare e contenere l’ambizione di Pechino, che considera la regione come zona di propria influenza.  Non che quella di Biden sia una novità nella politica estera degli Stati Uniti: già Obama, di cui Biden era vicepresidente, aveva iniziato questa politica, spostando l’area di interesse americano dall’Europa all’Asia, Trump, pur con le sue contraddizioni, ha portato avanti questa strategia ed ora Biden la conferma, lasciando centrale la questione de dominio delle rotte navali, ma non solo, del pacifico. Certamente l’aumento di rilevanza e del livello di scontro, sia commerciale, che geopolitico, con la Cina, obbliga gli USA a concentrare lo sforzo maggiore su questa partita, coinvolgendo, però, altri soggetti internazionali, che sono alleati fedeli ed hanno interessi diretti nella regione, l’Australia, o il bisogno di trovare nuove soluzioni anche finanziarie, oltre che politiche, a causa dell’uscita dall’Europa. Non coinvolgere l’Unione Europea, ma soltanto due paesi che hanno un minore peso specifico internazionale, rispetto a Bruxelles, può significare che, attualmente, la Casa Bianca possa preferire un rapporto più sbilanciato a proprio favore; del resto la politica americana, nonostante le premesse di questo presidente, ha mantenuto, di fatto, le distanze con l’Europa quasi come ai tempi di Trump e la ritirata unilaterale dall’Afghanistan ne è stata l’ennesima prova. Inoltre il ritiro dal paese asiatico, ritenuto un obiettivo non strategico per gli USA, permetterà a Washington di riallocare nuove risorse finanziarie proprio per la sfida diretta con la Cina. Pechino sta espandendosi in maniera prepotente anche in Africa e Sud America, ma gli USA concentrano la propria attenzione nelle aree del Pacifico, forse anche per non ripetere gli errori di ampliare troppo le zone di azione, dove la potenza militare cinese è mostrata con maggiore arroganza, in questa ottica anche il coinvolgimento dell’India, naturale avversario cinese, nel presidio del Pacifico riapre scenari inquietanti sulle conseguenze di questi assetti internazionali. La politica USA , sulle alleanze militari coinvolge anche l’industria bellica portando scompiglio all’interno dell’alleanza con l’Europa ed in particolare con la Francia: l’accordo con l’Australia prevede la fornitura di sottomarini nucleari allo stato dell’Oceania, che ha in corso, su questo fronte, una commessa con Parigi; a causa del rallentamento della fornitura, Washington si è inserita nel rapporto commerciale e potrebbe vanificare la fornitura francese. Si comprende come l’Europa venga trattata come un alleato di secondo piano, processo iniziato da Trump irritato per lo scarso contributo economico e la volontà di Bruxelles di preferire la propria industria bellica, proprio a danno di quella americana. Per l’Unione Europea si tratta di segnali inequivocabili e bene fa la Commissione europea a cercare una propria autonomia militare, dotandosi di una prima forza di intervento rapido, primo tassello di un possibile esercito sovranazionale. L’accordo con Londra e Canberra investe, quindi, molto di più che gli aspetti geostrategici del Pacifico, che sembrano valere come tali soltanto per l’Australia, ma riguarda la visione stessa dell’Alleanza Atlantica, ridotta sempre più ad organizzazione marginale proprio per volere di Washington. La percezione è che gli Stati Uniti scelgano un approccio sempre meno condiviso della gestione della politica estera sulla materia del rapporto con la Cina, che rappresenta, al momento, il vertice dello scenario internazionale; tuttavia con coinvolgere l’Europa e la stessa Alleanza Atlantica denuncia una debolezza di fondo, che non fa che confermare la possibilità di nuovi errori tattici da parte di Washington. Se si vuole mantenere la leadership internazionale non si può privilegiare un solo luogo di confronto, ma presidiare, almeno, le zone più importanti, azione che la Cina cerca di fare, sostituendosi, talvolta, proprio agli americani. La partita è globale e come tale deve essere condotta, altrimenti la frammentazione dell’occidente sarà soltanto un vantaggio per Pechino.

Ripensare la politica estera USA: necessità per l’occidente

L’evoluzione verso il basso della politica estera americana, culminata con la precipitosa ritirata dall’Afghanistan, è una vera e propria parabola discendente, che avvicina sempre più il paese nordamericano alla perdita della leadership mondiale. Sebbene Washington sia ancora la prima potenza mondiale il gap, non solo della Cina, con altre superpotenze sta diminuendo considerevolmente. Si è passati da uno scenario di bipolarismo negli anni Ottanta, con gli USA in competizione con l’URSS, ad una fase, seguita al crollo del gigante sovietico, di sostanziale ruolo di unica grande potenza planetaria ad un prossimo scenario multipolare, dove la Casa Bianca, difficilmente potrà influire in maniera decisiva su tutte le questioni di portata internazionali. Gli USA, probabilmente, resteranno la prima potenza mondiale, ma con la Cina molto vicino e con una serie di protagonisti regionali in grado di fare sentire il proprio ruolo in ambiti più ristretti, ma dove la specificità dell’esercizio del proprio peso rappresenterà un ostacolo a chi vorrà recitare un ruolo di supremazia planetaria. Ciò vale sia per le strategie geopolitiche, che comprendono gli assetti militari, che per quelli economici, spesso indissolubilmente legati ad equilibri di natura politica, dove è emergente anche la componente religiosa. Il declino americano è iniziato in modo evidente con Obama, che non ha voluto impegnarsi nel conflitto siriano, Trump ha continuato con la sua visione di tralasciare la politica estera, con l’idea di stornare risorse nell’economia interna, sbagliando i calcoli e la visione, che per essere i primi è necessario impegnarsi anche nei teatri esterni; alla fine è arrivato Biden, che ha vanificato anni di lotta al terrorismo, con un ritiro che doveva stabilizzare il proprio consenso, ottenendo, invece, il risultato inaspettato di una avversione generale a questa decisione anche all’interno del proprio partito. Tre presidenti, uno di seguito all’altro, hanno sbagliato perché hanno valutato troppo il peso dei sondaggi, adeguandosi alla tendenza generale della visione di breve periodo, non hanno stimolato in maniera efficace gli alleati, si sono fossilizzati su tattiche esclusivamente militari, senza considerare l’adeguata importanza delle infrastrutture sociali ed il coinvolgimento della parte buona delle popolazioni locali, atteggiamento che ha favorito una burocrazia inefficace e corrotta. Questi errori non sono stati fatti una volta sola, ma si sono ripetuti in diversi scenari di intervento e protratti nel tempo e denunciano chiaramente una inadeguatezza sia del ceto politico, che amministrativo americano: mancanze che uno stato che vuole esercitare la leadership mondiale non può permettersi; tuttavia questi errori sono ancora più gravi in una situazione internazionale molto cambiata, che ha visto arrivare nuovi competitor in grado di fare vacillare la supremazia americana. Certamente la Cina è la principale concorrente: l’avanzata sul piano dell’economia di Pechino, doveva, però, evitare agli USA di rimanere in uno stato di mancata variazione, caratterizzato dalla mancanza di lucidità e previsione, si è preferito, cioè, una navigazione di piccolo cabotaggio che ha fatto perdere di vista l’intero insieme ed ha determinato una chiusura in se stessa, che ha anche compromesso per lunghi tratti i rapporti con i principali alleati, gli europei. Ma proprio l’Europa si è rivelato un anello debole della politica estera americana, non che questo fosse un aspetto sconosciuto e che avesse anche fatto comodo agli americani, soltanto che nel contesto mutato, avere alleati sempre troppo dipendenti si è rivelato deleterio. Gli USA hanno bisogno dell’Europa e viceversa, non fosse altro per cercare di rallentare l’avanzata economica cinese, ma questo obiettivo è troppo limitante se si vuole fare prevalere i valori occidentali, ed è su questo tema che gli USA devono interrogarsi: oltrepassare i propri interessi immediati per raccogliere di più in futuro, anche dal punto di vista geostrategico, oltre che quello economico. Soltanto integrando maggiormente l’azione di USA e Europa si può riaffermare una supremazia, non più americana ma occidentale. Occorre un grande lavoro di mediazione perché le sfide e gli scenari saranno multipli e non su tutti si potrà imporre  una sintesi non sempre raggiungibile, ma questa è l’unica strada per potere cercare di contenere il terrorismo e le dittature e trovare nuove via per l’affermazione della democrazia, anche in forme diverse ma tali da superare forme dittatoriali politiche e religiose, che vogliono infiltrarsi nelle nostre imperfette democrazie.

Gli USA temono l’aumento dell’arsenale nucleare cinese

La difficoltà, già accentuata dalle rispettive posizioni in campo geopolitico e commerciale, tra gli USA e la Cina, rischia un pericoloso peggioramento per le preoccupazioni manifestate da Washington per la proliferazione nucleare portata avanti da Pechino, nel quadro del potenziamento delle armi atomiche dell’esercito cinese. Le aspirazioni da grande potenza della Cina, secondo il presidente ed il governo comunisti, possono concretizzarsi anche attraverso l’incremento dell’arsenale nucleare, che è diventato centrale nella politica tattica militare del paese. Gli analisti americani hanno individuato la costruzione di una serie di silos per il lancio delle testate nucleari, dislocate in diverse regioni cinesi. Attualmente le testate nucleari di Pechino sarebbero stimate in circa 350 unità, una quantità ancora molto inferiore alla disponibilità di paesi come Stati Uniti e Russia, in particolare Washington sarebbe in possesso di circa 4.000 testate, pari al 90% di tutte le armi nucleari presenti sul pianeta; tuttavia, secondo il Pentagono, l’incremento cinese sarebbe notevole, dato che fino ad un anno prima le teste cinesi erano 200: un aumento, quindi, di 150 unità in 365 giorni. Un aspetto che preoccupa il Congresso americano sono le modalità di segretezza con cui la Cina procede nel suo piano di sviluppo degli armamenti nucleari, materia che Pechino ritiene strategica per potere competere a livello globale, soprattutto con gli USA, ma anche con avversari regionali come l’India. Questa situazione, che pone la Cina al centro dell’attenzione della politica internazionale, arriva nel momento in cui Mosca e Washington si accingono ad incontrarsi per i negoziati su come evitare una nuova rincorsa agli armamenti nucleari. Se, alle già presenti difficoltà tra le maggiori potenze nucleari per trovare una soluzione alla non proliferazione delle armi atomiche, si aggiunge il crescente attivismo cinese, si può comprendere come la situazione futura sia potenzialmente molto pericolosa. In presenza di un terzo attore che incrementa il proprio arsenale al di fuori di ogni regola, sia Usa che Russia potrebbero sentirsi prive di vincoli e sviluppare nuovi armamenti. La tattica cinese è ormai prevedibile, le accuse agli Usa sono ormai una noiosa ripetizione: quella di vedere un nemico immaginario per distogliere l’attenzione dalle sue problematiche interne. La Cina si dice disponibile a colloqui bilaterali sul tema della sicurezza strategica a condizione che si tengano su basi di uguaglianza e ciò appare impossibile dato il grande squilibrio degli arsenali atomici a favore di Washington. Se gli USA vedono un reale potenziale pericolo, le singole ragioni cinesi, osservate da un osservatore neutrale, appaiono giustificate in ragione della volontà di recuperare almeno parte del terreno perduto sugli armamenti nucleari; rovesciando la visuale è lecito domandarsi come gli Stati Uniti, ma anche la Russia (sempre in vantaggio sulla Cina), risponderebbero ad una richiesta di Pechino di diminuire il proprio arsenale. La questione è che si è usciti da una logica di diminuzione generale delle testate nucleari, perché queste armi, in questo momento storico, rappresentano di nuovo, come durante la guerra fredda, un deterrente psicologico per un equilibrio, però di gestione molto più difficile in un mondo non più bipolare ma multipolare, anche se caratterizzato da due potenze principali, comunque contornate da potenze regionali di grande rilevanza strategica. La vera sfida sarebbe quella di includere la Cina in colloqui a livello mondiale sul tema del disarmo, ma non come comprimario, bensì con la giusta dignità di grande potenza che Pechino desidera a livello politico; ciò, sicuramente, non risolverà il problema della proliferazione ma potrebbe permettere l’avvio di un dialogo su questo tema, anche con lo scopo di migliorare le rispettive relazioni. Vista con la visuale occidentale la proliferazione nucleare cinese non può non essere un fattore altamente preoccupante, dato che si tratta comunque di una paese governato da una dittatura e che tramite il soft power esercitato in altre zone del mondo ha evidenziato una volontà di esportare il proprio modello politico; certamente ciò non può funzionare con l’occidente ed il sospetto che dietro l’aumento del proprio arsenale militare ci sia l’intenzione di esercitare una pressione è quasi una certezza. Ma proprio per questo è importante scongiurare ogni possibile deriva ed l’ulteriore peggioramento delle relazioni: altrimenti il rischio di situazioni tese sarà sempre più probabile.

La situazione di Cuba sempre più difficile, tra repressione e nuove sanzioni

Le proteste avvenute a Cuba lo scorso 11 luglio, hanno provocato una forte repressione che ha avuto come conseguenza una serie di processi sommari, senza garanzie giuridiche; gli imputati sono tutti manifestanti ai quali sono stati contestati i reati di disordine pubblico e istigazione alla criminalità, nonostante la grande maggioranza degli indagati non si sia resa colpevole di atti violenti. Le condanne inflitte vanno dai dieci ai dodici mesi di reclusione e sono il risultato di processi dove è stato impossibile assicurare la scelta dei difensori con la conseguenza dell’impossibilità della preparazione di una strategia di difesa adeguata.  Il fatto che il numero dei detenuti non sia stato comunicato in forma ufficiale dalle autorità rende l’idea di come il regime cubano intenda operare con modalità autoritarie con il solo scopo di soffocare la protesta; fonti ufficiose parlano di più di mezzo migliaio di arresti, a cui sono seguiti alcuni rilasci, detenzioni domiciliari in attesa del processo ed un numero imprecisato di persone che restano nei luoghi di detenzione per le quali il processo è previsto in tempi più rapidi. Le garanzie delle autorità, sul rispetto delle garanzie procedurali, non rassicurano gli arrestati e le loro famiglie e neppure l’opinione pubblica internazionale, che teme, attraverso questi procedimenti, una ripresa dell’attività repressiva del regime. Dal punto di vista pratico i pochi giorni ipotizzabili che trascorreranno tra arresto e sentenza non permettono una difesa adeguata e questa circostanza sembra essere un mezzo funzionale ad esercitare una repressione con parvenza legale. Le autorità giudiziarie cubane hanno annunciato pene possibili fino a venti anni di reclusione per coloro coinvolti in saccheggi ed atti violenti, ma sembra facile fare rientrare in questa casistica anche manifestanti non violenti, ma comunque contrari alla politica del governo. Lo stesso regime è, però, ad un punto cruciale: la minaccia dei processi serve a calmare le proteste, ma se seguirà l’attuazione delle minacce, appare inevitabile un aumento della protesta nelle piazze, a cui il governo non potrebbe fare fronte se non con metodi repressivi, scatenando lo sdegno internazionale ed il possibile incremento delle sanzioni; viceversa un atteggiamento più conciliante potrebbe permettere una via d’uscita onorevole al regime. Una delle maggiori cause di arresto è stata quella che ha riguardato coloro sorpresi a filmare le repressioni: questo elemento pone l’attenzione sull’abitudine alla censura del governo cubano, malgrado il cambio al potere avvenuto dopo la dinastia dei Castro.  Tutti questi elementi hanno contribuito ad una maggiore attenzione degli USA, con l’amministrazione Biden che ha intensificato la pressione su Cuba con sanzioni dirette contro il ministro della difesa e l’unità speciale che si è distinta nella repressione delle recenti manifestazioni; l’atteggiamento di Biden, tuttavia, non è una prosecuzione dell’atteggiamento di Obama, basata sul disgelo tra le due parti, ma, piuttosto, ha punti di contatto con quanto fatto da Trump, che aveva ristabilito le restrizioni su viaggi e commercio e mantenute dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Resta pur vero che Biden deve trovare una mediazione tra il suo stesso partito, dove i membri dei movimenti cubano-americani  chiedono sanzioni ancora più pesanti e la sinistra del partito che vorrebbe provvedimenti sanzionatori più attenuati per ridurre le difficoltà della popolazione. Il presidente statunitense, con il suo staff, a questo proposito, starebbe lavorando a soluzioni in grado di alleviare le ricadute delle sanzioni sui cubani, come fare in modo che le rimesse degli emigranti possano arrivare a destinazione, rendendo impossibile la confisca del regime. Un ulteriore provvedimento è quello di cercare di favorire un accesso libero alle comunicazioni attraverso un uso di internet privo di censura . Le reazioni del governo cubano hanno sfiorato l’ovvietà con le accuse agli Stati Uniti di avere organizzato le proteste, malgrado una situazione economica e sociale sicuramente molto critica, che obbliga i cubani a condizioni di vita molto difficili, nonostante le tante attese generate da quello che doveva essere la fine della dinastia Castrista.

Le manovre militari dell’Alleanza Atlantica in Ucraina irritano la Russia

Le esercitazioni militari tra Ucraina, Stati Uniti ed Alleanza Atlantica, rischiano di compromettere il periodo di calma, seppure instabile, tra Mosca e Washington. La distensione che è seguita al vertice tra Putin e Biden, che si è tenuto lo scorso mese, incomincia ad essere soltanto un ricordo. Il Cremlino, infatti, avverte le manovre militari congiunte come un affronto ed una minaccia proprio perché vengono effettuate in una zona che la Russia ritiene di sua influenza esclusiva. Naturalmente ciò implica anche ragioni di politica internazionale, che riguardano l’atteggiamento espansionistico degli Stati Uniti in Ucraina: la ragione fondamentale è che Mosca rifiuta di avere truppe dell’Alleanza Atlantica sui propri confini, che è anche il motivo per cui ha sempre rifiutato la possibilità dell’ingresso di Kiev sia nell’Unione Europea, che nella stessa Alleanza Atlantica. Se nella contrarietà verso una intesa con Bruxelles ci sono anche ragioni economiche, l’avversione ad un ingresso nell’Alleanza Atlantica è giustificato dal timore di non avere più uno spazio fisico tra le guarnigioni occidentali e quelle di Mosca, con ovvie potenziali minacce ravvicinate, soprattutto di tipo missilistico, che esporrebbero il paese russo ad una costante minaccia da parte degli Stati Uniti; questa visione è di medio periodo, mentre sul breve l’esigenza funzionale agli  interessi russi è che non ci siano alleati del paese ucraino nei territori contesi con Mosca, dove continuano i combattimenti, capaci di rovesciare le sorti del conflitto. I numeri impiegati dicono che Mosca non ha torto a temere queste manovre militari ed anche ad interpretarle come una minaccia rivolta verso la Russia: infatti nel 2019, le ultime esercitazioni effettuate prima della pandemia, i paesi partecipanti furono 19 contro i 32 attuali e le navi militari impiegate sono passate da 32 a 40. Senza dubbio questo incremento è dovuto alla capacità di Biden di sapere aggregare i paesi alleati e di avere saputo focalizzare l’Ucraina come punto di interesse generale dell’Alleanza Atlantica; in questo Mosca aveva ragione a preferire Trump come inquilino della Casa Bianca ed a impegnarsi affinché venisse rieletto. Aldilà delle implicazioni di carattere politico il vero obiettivo di queste esercitazioni è quello di fornire un adeguato addestramento ai militari ucraini per quanto riguarda i metodi e le modalità di combattimento dell’Alleanza Atlantica e ciò sembra propedeutico ad un ingresso nell’alleanza occidentale più o meno ufficiale, ma comunque con l’intento di integrare le forze armate ucraine con quelle dell’Alleanza Atlantica, anche se, di fatto, queste esercitazioni si tengono fin dal 1997, ma hanno acquisito maggiore importanza dopo l’annessione del territorio ucraino della Crimea alla Russia, con una modalità condannata da gran parte della comunità internazionale. Il fatto che, gli Stati Uniti siano i grandi finanziatori delle manovre militari, deve essere associato alla disponibilità che l’Ucraina fornisce ad usare il proprio territorio come base logistica ed alla possibilità di accesso a forze straniere al suo interno. Le rimostranze russe sono state di ordine militare e geopolitico e si è sfiorato lo scontro quando una nave inglese è stata accusata di avere violato il confine delle acque territoriali della Crimea e quindi della Russia, con le forze di Mosca che hanno aperto il fuoco contro la nave dell’Alleanza Atlantica, primo episodio del genere dalla fine della guerra fredda. Si comprende come questo stato di cose può favorire incidenti che possano degenerare in situazioni ben più pesanti; paradossalmente gli scenari possibili, in questa fase storica, sembrano essere molto più pericolosi di quando era in atto la guerra fredda che si fondava sull’equilibrio del terrore e dove ciascuno dei due contendenti aveva campi ben delimitati, che non potevano essere mai stati oltrepassati. Al contrario la forte precarietà degli attuali equilibri sembra favorire una serie di conflitti a bassa intensità potenziale, ma che possono scatenare situazioni ben peggiori. Uno dei pericoli è che la Russia appare isolata, soprattutto da Pechino, che potrebbe fornire aiuti soltanto se funzionali ai suoi interessi e comunque non in modo paritario, ma tale da mettere Mosca in ruolo subordinato, questo aspetto dell’isolamento russo rischia di fare incrementare a Mosca azioni militari non classiche, ma che sono ormai entrate nella pratica moderna: l’attivismo degli hacker russi costituisce, infatti, un ulteriore terreno di scontro non convenzionale, che, però, rischia di coinvolgere le armi classiche: un pericolo in più da una nazione messa alle strette che non può più esercitare il suo ruolo di prima potenza a cui non ha però rinunciato.

Per l’Europa e l’occidente è essenziale combattere il fondamentalismo islamico in Africa

I paesi occidentali temono la crescita dei movimenti radicali islamici in Africa, dove sono cresciuti gli episodi di violenza con un incremento molto rilevante, che ha contato circa 5.000 attentati con oltre 13.000 vittime, soltanto lo scorso anno. Lo spostamento di formazioni estremiste, come lo Stato islamico, dai paesi asiatici, come Siria ed Iraq, dove il fenomeno è praticamente sotto controllo, ai paesi africani, seguendo una direttrice da oriente ad occidente, pone grandi parti del continente africano sotto stretta osservazione, anche per la relativa vicinanza con l’Europa e gli ovvi contatti con temi quali l’emigrazione ed il rifornimento energetico, sempre più al centro delle problematiche europee. Non va dimenticato come, sul tema dell’emigrazione, i continui dissidi tra i membri dell’Unione Europea possano essere sfruttati come fattore di destabilizzazione dai fondamentalisti islamici, sempre più alleati delle bande dei trafficanti di uomini, sia come capacità di gestione dei flussi, che di introduzione in Europa di potenziali agenti, capaci di compiere attentati. Se i primi paesi minacciati da questi nuovi sviluppi, nell’immediato sono l’Italia e la Spagna, è ovvio che una incapacità di gestione globale da parte dell’Europa, investe proprio il vecchio continente, ancora molto diviso sulle possibili soluzioni dell’argomento. Su questo tema la nuova amministrazione americana è molto sensibile, perché basa la propria leadership atlantica sulla collaborazione con l’Europa e ritiene la sicurezza del vecchio continente un argomento centrale della propria strategia geopolitica. Probabilmente Washington, al suo interno, non vuole ripetere gli errori di valutazione compiuti da Obama, con la guerra siriana ed intende impedire uno sviluppo militare di formazioni islamiste in Africa, dove, peraltro sono già presenti ed attive, per impedire l’apertura di un nuovo fronte di impegno e, soprattutto, di pregiudicare la sicurezza europea, che implicherebbe uno sforzo ancora maggiore per gli USA.  Attualmente il punto geografico cruciale è il Shael, dove la presenza dei fondamentalisti è favorita da uno scarso presidio delle forze governative dei diversi paesi che governano l’area, oltre alla conformazione fisica del territorio, che consente una estrema libertà di movimento alle milizie islamiste. Anche la diffusione della pandemia ha favorito l’attività dei fondamentalisti, rallentando gli incontri diplomatici per la soluzione del problema, tuttavia l’assicurazione della collaborazione alla lotta al terrorismo islamico di Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Mauritania e Yemen, rappresenta una ulteriore garanzia che il problema viene percepito a livello sovra continentale come urgente e molto pericoloso. L’attività di contrasto non potrà non prevedere un impegno sul campo, ma su questo versante i paesi europei sono riluttanti ad un impegno di proprio personale direttamente sul terreno africano, piuttosto si preferisce una scelta di operazioni di intelligence, in grado di anticipare le mosse dei terroristi e, soprattutto, bloccare i finanziamenti dei gruppi fondamentalisti. Questa impostazione appare però soltanto una parte della possibile soluzione del problema: infatti senza un contrasto militare diretto, appare difficile riuscire a debellare il problema del tutto, anche perché la presenza fisica delle formazioni terroriste, da una parte riesce nel proselitismo delle popolazioni della zona e con quelle che non riesce ad integrare pratica un regime di terrore, che, in ogni caso, rappresenta un punto di forza nel presidio del territorio. La sfida per gli occidentali è sapere coinvolgere gli eserciti dei paesi della fascia del Shael, almeno con finanziamenti, forniture militari ed addestramento delle truppe regolari; certamente i finanziamenti dovranno riguardare non solo l’aspetto militare ma anche, ed in maniera sostanziosa, tutto ciò che può riguardare lo sviluppo dei paesi coinvolti, in termini di infrastrutture, presidi medici e sviluppo dei settori produttivi. La questione africana, a lungo rimandata, dai paesi occidentali, si ripresenta così sotto forma di  urgenza che ha come scopo la sicurezza stessa dell’Europa e dell’occidente, ma è, allo stesso tempo, una occasione di sviluppo globale che non può essere sprecata, anche per strappare l’Africa ad una influenza cinese, ormai male sopportata dagli stessi africani.