La Commissione Europea propone un regolamento sanzionatorio contro la violazione dei diritti umani

La proposta della Commissione Europea, per la creazione di una black-list dell’Unione allo scopo di sanzionare persone fisiche o giuridiche, che hanno perpetrato la violazione dei diritti umani, segna un capitolo nuovo dell’atteggiamento delle istituzioni europee di fronte al mancato rispetto dei diritti. Dal punto di vista normativo il progetto che riguarda il regolamento da adottare prende spunto da una legge già approvata dagli USA nel 2012, durante la presidenza Obama. I provvedimenti sanzionatori potranno essere adottati contro individui ed imprese a prescindere dal paese di origine, quindi anche appartenenti a nazioni che intrattengono con l’Unione normali rapporti diplomatici. Pur essendo già un argomento oggetto di trattativa, la situazione legata all’avvelenamento dell’oppositore russo, Navalni, ha messo l’argomento al centro del dibattito europeo. La misura che rappresenta la maggiore novità all’interno del regolamento sarà l’interdizione a livello europeo e, quindi, non più statale, dell’ingresso nel territorio comunitario della persona sanzionata. Naturalmente le opzioni di sanzione riguarderanno anche la possibilità di intervenire sui patrimoni e sui beni, presenti nella UE, dei soggetti che avranno infranto il rispetto dei diritti umani. Il regolamento dovrebbe riuscire a garantire una maggiore flessibilità nel perseguire i responsabili di violazione dei diritti umani, categoria di reati che non è ricompresa a livello individuale nelle liste presenti all’interno degli organi comunitari, che, attualmente, prevedono le black-list per i reati di terrorismo, uso di armi chimiche e reati informatici. Il divieto di ingresso nella UE, rappresenta un nuovo strumento sanzionatorio, che si aggiunge alla immobilizzazione dei beni, fino ad ora unica possibilità di intervenire contro le violazioni. L’approvazione del regolamento contro le violazioni dei diritti umani, dovrà raggiungere l’unanimità del Consiglio dell’Unione e ciò rappresenterà una prova tangibile della volontà di tutti i paesi europei di difendere i diritti civili e quindi i principi fondativi della stessa Unione. Si tratterà di una indicazione indiscutibile sulla reale volontà degli stati europei e, specialmente, di alcune determinate nazioni, che al loro interno non stanno garantendo i diritti politici e civili in maniera compiuta. Il voto dei singoli stati dovrà essere una materia da esaminare in modo attento ed il risultato finale dirà quale sarà la direzione vorrà prendere l’Europa. L’approvazione non pare scontata, sia per ragioni politiche, relative, appunto, all’atteggiamento di alcuni paesi, sia per ragioni di opportunità circa gli interessi economici che potranno essere colpiti e le relative risposte verso le aziende europee, oggetto di ritorsione. L’argomento dovrebbe, comunque, interessare uno spettro più ampio, proprio oltre le persone e le aziende ma comprendere gli stati colpevoli di violazione dei diritti umani. Se l’adozione del regolamento sanzionatorio diventerà realtà, sarà stato percorso soltanto  il primo tratto nella lotta contro il mancato rispetto dei diritti umani, la battaglia di civiltà per essere pienamente efficace dovrebbe prevedere di ingaggiare una lotta contro i regimi statali colpevoli del mancato rispetto dei diritti umani. Questo versante, al momento appare soltanto una ambizione difficilmente percorribile, proprio per ragioni diplomatiche ed economiche; tuttavia il pericolo di non transigere sul rispetto dei diritti pone l’Europa al rischio concreto di potere subire una sorte simile; per il momento nella maggioranza dei paesi europei i diritti sono garantiti, ma la stessa presenza di stati all’interno dell’Unione dove le garanzie sono diminuite, rappresenta un monito, che deve essere tenuto ben presente. Inoltre i legami economici con stati che sono regimi politici, certo la Cina, ma anche altri, presuppongono contatti sempre più stretti, che prevedono forme di presenza sul  territorio europeo di rappresentanti di queste nazioni. Se la soluzione non può essere l’autarchia, pretendere un maggiore rispetto dei diritti come base contrattuale potrebbe cominciare ad essere un mezzo efficace per obbligare alcuni regimi, almeno ad un diverso atteggiamento su questo tema. Occorre, però, cominciare dal fronte interno: la permanenza all’interno dell’Unione di paesi che hanno governi che hanno nel proprio programma politico la compressione dei diritti deve diventare una questione primaria e con una soluzione non più rimandabile perché la tolleranza è durata per troppo tempo.    

Dal Nagorno Karabakh possibilità di allargamento del conflitto da locale in regionale

Nella guerra del Nagorno Karabakh l’Armenia sembra essere in posizione sfavorevole rispetto all’Azerbaigian, che può godere dell’alleanza di una Turchia determinata a recitare il suo ruolo di nuovo protagonista ottomano. Il Nagorno Karabakh ha una popolazione di circa 150.000 abitanti, la cui maggioranza è di etnia armena e proprio per questo motivo è alla ricerca dell’autodeterminazione.  Per la Turchia non si tratta di essere scesa in guerra soltanto per appoggiare il paese turcofono dell’Azerbaigian, quanto di ribadire, soprattutto per l’opinione pubblica interna, la volontà di giocare un ruolo che oltrepassa quello della potenza regionale, ma anche di testare la reazione della Russia ad una invasione del suo spazio vitale o della zona di influenza che Mosca ritiene di sua esclusiva competenza. Occorre ricordare che la Russia è legata all’Armenia da una alleanza molto stretta, che potrebbe obbligarla ad intervenire in prima persona nel conflitto. La strategia di Erdogan appare quella di provocare le intenzioni di Mosca nell’ambito delle questioni regionali, soprattutto in ragione del fatto che la Russia vende armi all’Armenia, ma, contemporaneamente, le vende anche all’Azerbaigian, elemento che pare stia effettivamente considerando il comportamento russo. Il Cremlino, infatti, ha scelto molto responsabilmente, la via diplomatica ottenendo una tregua, che, però, non sembra del tutto rispettata. Le accuse di violazione sono reciproche, anche perché avvengono in una situazione fortemente condizionata da reciproca avversione che si è concretizzato in trenta anni di scontri. L’entrata in campo della Turchia sembra essere una provocazione apparentemente incomprensibile verso Mosca, perché il teatro dei combattimenti è contiguo ad una zona attraversata dal gasdotto turco costruito per il trasporto del gas russo verso il ricco mercato europeo. Oltre i motivi geopolitici, esiste una volontà di Ankara di incidere sui rapporti economici con Mosca per condizionare il ricco mercato del gas? La domanda è legittima per una economia in fase di recessione, come quella turca, che deve risollevare il gradimento del governo nel suo mercato politico interno, ma anche sostenere le spese per la sua politica estera espansionista. A sua volta, la Russia ha problemi di ordine interno non meno gravi, con il calo dei consensi di Putin, che ha registrato per la prima volta cali preoccupanti, oltre che i difficili rapporti con una opposizione sempre più crescente. In politica estera la questione bielorussa preoccupa non poco il Cremlino, già provato dall’impegno in Siria che non ha suscitato entusiasmi tra la popolazione e la questione dei territori russi in Ucraina, che minaccia contraccolpi diplomatici sempre più rilevanti. Considerando questi elementi la scelta della Turchia di appoggiare, se non di iniziare, il conflitto nel Nagorno Karabakh, può essere identificato come un elemento strategico all’interno di una dialettica non sempre univoca, ma che sembra volere verificare le reali intenzioni russe nella regione. Occorre non dimenticare che i rapporti trai due paesi attraversano sempre più spesso delle fasi di avvicinamento ed allontanamento repentine, secondo le reciproche convenienze, che spesso appaiono in contrasto. Risulta verificato che la Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica, ha acquistato, contro il volere della stessa Alleanza Atlantica, apparati di difesa russa in aperto contrasto con la politica e le direttive di Bruxelles; ma poi si è schierata contro il regime siriano sostenuto dai russi, perché sciita, ma non solo, appoggiando gli integralisti islamici sunniti, usati anche contro i curdi, principali alleati degli americani contro lo Stato islamico. Le ripetute violazioni agli interessi dell’Alleanza Atlantica non hanno comunque prodotto alcuna reazione contro Ankara, che si è sentita legittimata a procedere sulla strada dell’arroganza e della violazione del diritto internazionale, praticamente senza sanzioni da parte della comunità internazionale. Attualmente il teatro di scontro del Nagorno Karabakh evidenzia ancora una volta come sia necessario fermare la Turchia, incominciando da sanzioni economiche molto pesanti per limitarne il raggio d’azione, anche perché le conseguenze, già pur gravi dell’attuale conflitto, possono diventare ancora peggiori, se la guerra potrà diventare uno scontro regionale alle porte dell’Europa, ma anche sul confine iraniano, con un impegno diretto che la Russia non potrà rinviare ancora per molto se la situazione non sarà stabilizzata, anche attraverso l’abbandono della presenza di Ankara.  

L’Unione Europea ricattata da Polonia ed Ungheria

Una ammissione incondizionata di paesi non abituati allo stato di diritto rischia di bloccare gli aiuti economici contro la pandemia in Europa. Se il problema è quello di non scegliere tra economia e salute, con tutto ciò che comporta, analogamente non di dovrebbe scegliere tra economia e diritto. Al contrario la strategia messa in campo dagli stati del Patto di Visegrad, sembra contraddire questo secondo assunto. La volontà di bloccare gli aiuti economici per i paesi più colpiti dal virus, se non in cambio di un allentamento  delle misure di monitoraggio sull’applicazione e sulla vigenza dello stato di diritto. Questa crisi nella sede delle istituzioni europee potrebbe portare effetti negativi, direttamente sugli stati coinvolti dalla pandemia, ma che non potrebbero poi non avere ripercussioni da una contrazione ancora maggiore dell’economia; occorre ricordare come le entrate che provengono dai contributi dell’Unione, siano un capitolo importante delle voci di bilancio degli stati che appartenevano al Patto di Varsavia. Appare chiaro come la strategia dei paesi orientali sia contraddistinta da un elemento di miopia politica e visione sul medio e lungo periodo. Nonostante questa evidenza le posizioni rigide degli esecutivi di Polonia ed Ungheria, in particolare, non sembrano presentare possibilità negoziali. A livello istituzionale lo scontro è tra Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione e le trattative stanno già rallentando la distribuzione dei fondi con le previsioni più ottimistiche che dicono che prima della fine di Ottobre l’accordo non potrà essere raggiunto, con la conseguenza diretta della possibilità di ritardare oltre il primo gennaio del prossimo anno l’entrata in vigore dei nuovi bilanci. Politicamente la posizione della Germania appare molto delicata, perché deve mediare tra le necessità dell’economia della zona euro e quelle dell’applicazione dello stato di diritto in tutto il territorio dell’Unione ed un cedimento di fronte ad un meccanismo difeso da Berlino significherebbe un indebolimento della leadership tedesca. Nel dialogo istituzionale entra anche la Commissione europea come mediatore tra Parlamento e Consiglio, ma i principali gruppi parlamentari, popolare, socialista, liberale e verde, condividono l’impegno di non approvare il piano finanziario fino a quando non ci sarà un accordo sul monitoraggio dell’applicazione dello stato di diritto. La partita dei fondi europei riguarda il fondo di recupero, che ha una dotazione di 750.000 milioni di euro. Si capisce come la minaccia della mancata ratifica in alcuni parlamenti di queste disposizioni sugli aiuti economici, senza una revisione del monitoraggio dello stato di diritto, rappresenti un ricatto che mette a rischio la sopravvivenza stessa dell’Europa; se non fosse per le ricadute finanziarie proprio su quei paesi restii ad approvarla, questa strategia potrebbe sembrare essere stata costruita come un piano apposito per determinare grossi problemi all’impianto istituzionale europeo. Bisogna ricordare come il Parlamento stia richiedendo che la possibilità del taglio dei fondi sia estesa oltre la cattiva gestione delle risorse, in modo da riguardare finalmente anche la violazione dei diritti fondamentali dell’Unione. Il Parlamento vede nell’attuale atteggiamento tedesco, qualificato come titubante, il principale ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo, perché l’attività Germania come presidente di turno non sembra del tutto determinata a raggiungere il necessario consenso in Consiglio. Tuttavia, nonostante gli aspetti fortemente problematici della situazione, la cosa positiva è che si stia creando un clima che oltrepassa le buone intenzioni per assumere un carattere pratico e politico nelle istituzioni europee, per affermare l’importanza fondamentale dei principi fondativi dell’Europa. Ciò rappresenta un punto di partenza per chi vuole fare rispettare il diritto e non vuole arrendersi a soluzioni di compromesso in nome dell’economia. Per ora, però, la posizione tedesca si nota per una mancanza di determinazione che ne mette in dubbio le reali intenzioni di fronte agli interessi economici, con la sensazione di prediligere questi ultimi. La necessità di una presa di posizione forte e determinata da parte del maggiore azionista europeo è, invece, una necessità inderogabile all’interno dell’attuale dibattito, che non potrà non avere un risultato ancora più severo della semplice riduzione dei contributi, per arrivare fino all’espulsione di chi usa l’Europa solo per avere finanziamenti senza rispettare gli oneri nei confronti degli altri paesi ed il diritto al loro interno, perché ciò è incompatibile con la permanenza nelle istituzioni europee.

La via giudiziaria, metodo più efficace contro gli stati che non rispettano i principi dell’Unione Europea

l’Unione Europea finalmente si muove per sanzionare quegli stati che deviano dai principi fondamentali, da loro stessi sottoscritti al momento dell’adesione, della casa comune europea. Si tratta di un provvedimento tardivo, effettuato dopo anni di provocazioni verso Bruxelles e tutti quei paesi che hanno fatto del rispetto dei principi fondamentali dell’Unione il loro tratto distintivo all’interno dell’organizzazione sovranazionale; tuttavia si tratta anche di un inizio con un significato che travalica la sentenza singola e vale da monito ed avvertimento per altre nazioni, che intendono solamente godere dei vantaggi, specialmente economici, dell’appartenenza all’Unione Europea. La strategia di Bruxelles è stata quella della via giudiziaria, nonostante la presenza del famoso articolo 7 del Trattato dell’Unione, che consente la sospensione del diritto di voto nelle istituzioni europee del paese che viola i valori fondamentali dell’UE inclusi nell’articolo 2 del Trattato.  Contro l’applicazione di questa sanzione, però, Ungheria e Polonia possono contare sull’alleanza di diversi stati, che condividono con i due paesi gli interessi economici derivanti dall’appartenenza all’Unione. Per Bruxelles, quindi, la via giudiziaria è stata una soluzione obbligata ma che si è rivelata efficace. Nello specifico l’azione della Corte di giustizia europea è stata attuata contro il provvedimento legislativo ungherese che prevedeva la chiusura di una università con una legge ad hoc. Ciò è stato considerato incompatibile con il diritto comunitario; la legge del governo di Budapest era costruita appositamente per vietare l’attività ed espellere dal territorio statale l’Università dell’Europa centrale, presente in Ungheria dal 1991. Questa università è stata costituita dal miliardario George Soros, di origine ungherese e osteggiato dai partiti e movimenti sovranisti. Il verdetto della Corte ha accettato il ricorso della Commissione europea contro la legge ungherese per violazioni sulle norme europee circa la libertà delle istituzioni, il mancato rispetto degli articoli della Carta dei diritti fondamentali che sanciscono la libertà di creare centri di istruzione e la relativa libertà di insegnamento ed infine anche la violazione delle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio sulla libera fornitura di servizi. La decisione della Corte permetterà alla Commissione europea di richiedere formalmente al paese ungherese di abrogare o modificare la legge contestata, eliminando comunque gli articoli che hanno determinato la chiusura dell’istituzione universitaria; nel caso che il governo di Budapest non segua quanto disposto dalla Corte la Commissione potrà presentare una nuova denuncia con la finalità di proporre pesanti sanzioni finanziarie contro l’Ungheria. Questo caso ha un significato importante per la Commissione europea perché, nello specifico segna un metodo, che sembra rivelarsi efficace, contro quei paesi che hanno intrapreso il mancato rispetto dei diritti come metodo di governo; peraltro le disposizioni della Corte avevano già fermato la riforma giudiziaria prevista in Polonia, che metteva in pericolo l’indipendenza del potere giudiziario. Se la strada giudiziaria ha effetti pratici, resta, comunque, vincolata ad un procedimento giuridico, che può avere effetti non certi, cioè per il momento rappresenta il migliore strumento disponibile, ma non può sostituire del tutto un adeguato processo politico, capace di regolare in maniera definitiva ed automatica il mancato rispetto dei diritti fondamentali da parte di governi autoritari. L’Unione, purtroppo, è ancora condizionata dalla necessità dell’unanimità degli stati: un sistema che condiziona e blocca le decisioni del parlamento europeo e rallenta l’azione della Commissione, chiamata, spesso a decisioni che la contingenza dei tempi vorrebbe molto veloci. Questa impostazione dovrebbe essere superata, anche in un’ottica di maggiore integrazione europea, certo pagando la perdita di una quota di sovranità dei singoli stati; ma, alla fine, il punto cruciale è proprio quello della sovranità delle singole nazioni, questione che, se non sarà superata, potrebbe bloccare qualunque avanzamento verso una maggiore integrazione. Appare compito del parlamento europeo procedere verso una riforma che possa svincolare le decisioni ed anche le sanzioni in maniera maggioritaria in maniera da superare l’attuale logica che prevede il requisito dell’unanimità, confidando che la maggioranza degli stati sia sempre fedele ai principi costitutivi dell’Unione Europea.

La Turchia impiega mercenari musulmani in Nagorno Karabakh

La Turchia, in appoggio all’Azerbaigian, cerca di connotare il conflitto in atto anche come guerra di religione; infatti potrebbe essere interpretata in questo senso la presenza di mercenari islamici provenienti dal nord del paese settentrionale. Questo elemento religioso potrebbe avere una doppia valenza: da una parte di ordine pratico e militare per impiegare mercenari già addestrati alla guerriglia e determinati contro il nemico cristiano, dall’all’altra parte darebbero un significato alla presenza turca di una sorta di rappresentanza islamica nel conflitto, funzionale alle intenzioni di Ankara di accreditarsi come rappresentante e difensore della religione islamica. Il contingente siriano sarebbe composto da circa 4000 uomini, che starebbero già combattendo al fianco degli effettivi azerbaigiani. Questa presenza potrebbe essere letta anche in contrapposizione alla volontà egiziana di schierarsi con l’Armenia ed aprire una competizione dal significato religioso come fattore geopolitico; tuttavia l’appoggio turco prevede anche l’impiego di effettivi dell’esercito di Ankara e l’utilizzo di droni ed aerei militari.  L’intenzione di Erdogan è quella di ottenere la vittoria dell’Azerbaigian e di conseguenza occupare la regione e favorire il ritorno del circa milione di azeri che sono stati costretti ad abbandonare il territorio a maggioranza armena. Con questa vittoria il presidente turco cerca di ottenere un argomento spendibile a suo favore, sia sul piano nazionale, che in quello internazionale, per risollevare il suo progetto di rendere la Turchia una protagonista regionale. L’allargamento in territori che la Russia reputa di sua influenza, indica che la Russia sia diventata il bersaglio da colpire approfittando delle difficoltà interne di Mosca e dei suoi difficili impegni negli scenari internazionali. Il fatto che        Erdogan voglia sfruttare il conflitto, sempre latente e mai definito, del Nagorno Karabakh, significa che la Turchia vuole estendere la sua influenza in una zona islamica, seppure a maggioranza sciita, dove viene parlata una lingua molto affine al turco; quindi un carattere culturale, oltre che religioso. La visione turca prevede una stabilità della zona raggiunta a danno dell’Armenia, alleata di Mosca. Il rischio di Erdogan, appare tutt’altro che calcolato, anzi sembra un azzardo quasi disperato, che rivela come la sua gestione del potere non sia così salda come vuole fare credere. L’ingresso diretto sulla scena della Russia è un evento che ha molte probabilità di verificarsi e che provocherebbe un conflitto tra Mosca ed Ankara; le possibilità di successo di Erdogan possono verificarsi soltanto se questa eventualità non si verificasse e perché ciò accada l’Azerbaigian deve riportare al più presto sotto il suo controllo il Nagorno Karabakh terminando le ostilità. Un possibile intervento russo a conflitto terminato non avrebbe la giustificazione di difendere gli armeni e sarebbe più complicato dal punto di vista operativo. Le prossime ore saranno decisive per lo sviluppo dei combattimenti; intanto questa situazione dimostra ancora una volta come Erdogan sia un politico inaffidabile e spregiudicato, pronto ad inserire la religione per favorire i suoi scopi, senza tenere conto delle implicazioni possibili. Un bene che un paese così non sia entrato in Europa.  

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian può allargarsi pericolosamente

La ripresa del conflitto del Nagorno Karabakh, una guerra a bassa intensità che non si è mai fermata del tutto, potrebbe aprire un nuovo fronte in Europa ed un aggravamento delle relazioni tra Mosca ed Ankara, coinvolgendo, però, anche altri attori. I fatti recenti parlano di nuovi combattimenti con le due parti impegnate nel conflitto che si accusano reciprocamente per avere attaccato per primi. La regione, che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, era stata assegnata agli azeri, si è staccata da Baku a causa della maggioranza di abitanti armeni, aprendo un conflitto tutt’ora irrisolto, che ha prodotto oltre 20.000 morti ed un esodo imprecisato. L’ostilità tra Armenia e Azerbaigian è anche religiosa, con gli armeni che sono di confessione cristiana e gli azeri che sono musulmani sciiti, fattore che non preclude la stretta alleanza con la Turchia, formata in maggioranza da sunniti, a causa di una lingua comune. In campo internazionale l’Armenia ha un forte legame con la Russia, mentre l’Azerbaigian proprio con la Turchia; lo scenario è aggravato dai pessimi rapporti tra armeni e turchi per l’annosa questione delle stragi che i turchi hanno perpetrato ai danni degli armeni e che Ankara non ha mai voluto riconoscere. In tutti e due gli stati, al momento, vige la legge marziale, e gli scontri hanno già causato diversi morti; la situazione, dal punto di vista internazionale, potrebbe degenerare rapidamente, soprattutto dopo, che aerei delle forze armate turche sono già entrati in azione, mentre effettivi dell’esercito di Ankara sarebbero già presenti in Azerbaigian. In questo momento Putin sembrerebbe restio ad impegnarsi in nuovo conflitto, data la presenza attiva dei militari di Mosca in Siria ed in Ucraina, dove l’impegno doveva essere limitato e veloce, ma si è trasformato in una situazione senza una soluzione in tempi brevi. Il vero pericolo è un intervento più massiccio di Erdogan, che potrebbe non lasciarsi sfuggire una occasione per ribadire il suo impegno diretto nella volontà di praticare una politica estera aggressiva, che permetta al paese turco di estendere la sua area di influenza. Ad essere di fronte sono due leader che hanno un programma internazionale molto simile, basato sul rilancio internazionale dei loro paesi, con operazioni discutibili, ma che li possano fare risultare al mondo come nuovi protagonisti della scena internazionale: una strategia che deve bilanciare i problemi interni, sia in termini economici, che politici. In Siria Mosca ed Ankara sono su posizioni opposte, con i primi che appoggiano il governo di Damasco (con Assad rimasto al potere proprio grazie a Mosca) ed i secondi ancora al fianco degli estremisti islamici sunniti (soprattutto in funzione anti curda). Aldilà delle parole di prammatica il possibile confronto agita le due diplomazie: la possibilità di un rispettivo coinvolgimento, o anche solo di minacce, potrebbe compromettere il già difficile rapporto diplomatico, che andrebbe ad influire proprio su quei fronti dove i due paesi sono contrapposti: sarebbero in grado di sopportare le conseguenze di un confronto tale anche da includere diversi attori internazionali con conseguenze molto rilevanti? Nelle ultime ore l’intervento turco avrebbe provocato il movimento di mezzi pesanti della forza militare russa, che sarebbero entrati in Armenia attraverso l’Iran. La concessione del transito di materiale bellico straniero sul suo territorio, pone l’Iran come un fiancheggiatore della Russia in opposizione alla Turchia, situazione che si inquadra bene nella ostilità di Teheran contro Ankara e che ripete lo schieramento siriano, dove per Teheran l’avversione alla Turchia si basa su motivazioni geopolitiche e religiose. L’Iran non può gradire i movimenti di Ankara quasi sui suoi confini. Inoltre si registrare anche la volontà di appoggiare l’Armenia da parte dell’Egitto: ancora una volta lo schema di distrarre la popolazione dai problemi interni, con azioni internazionali, si ripete con il dittatore egiziano. Il Cairo, peraltro patisce da tempo le iniziative turche, tra cui quella in Libia, che pone Ankara in diretta concorrenza con l’Egitto per l’influenza sui sunniti, specialmente quelli sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Occorre anche ricordare che l’Armenia si era schierata con la Grecia e Cipro, nella contesa per le risorse naturali presenti in quella parte di Mediterraneo. Non bisogna sottovalutare l’evoluzione della situazione, anche per la posizione americana che non si è ancora evidenziata; la possibilità di un conflitto molto più largo di quello tra Armenia ed Azerbaigian è una possibilità potenziale, che può allargarsi molto di più, ben oltre tutti gli attori già presenti.

La mancata riforma del trattato di Dublino brutto segnale per l’Europa

La definizione di meccanismo di solidarietà obbligatoria flessibile è la definizione burocratica dell’insieme delle proposte che dovrebbero riformare, ma non superare, il regolamento di Dublino; infatti all’opposizione all’iniquo trattato fatta da Vienna e dai paesi del patto di Visegrad, si sono aggiunte la Germania ed i paesi nordici, che erano le mete di destinazione più ambite dai migranti. Se è vero che la pressione migratoria ha creato in questi paesi problemi interni di natura politica, che i governi preferiscono governare nella maniera più agevole, cioè cercando delle regole interne all’Unione per una distribuzione, risulta altrettanto vero che i paesi costieri più sottoposti agli arrivi, Italia e Grecia soprattutto, ma anche Spagna, restano responsabili per i migranti che sbarcano sulle loro coste, lasciando la questione di ordine nazionale e non ancora completamente sovranazionale, cioè di competenza di Bruxelles. A prescindere che l’approvazione della nuova regolamentazione deve essere approvata dai pesi membri, siamo di fronte all’ennesima soluzione improvvisata di fronte ad un problema che resta comunque non arginabile, per il quale servono soluzioni che vanno oltre i confini europei, ma per il quale occorre una gestione tale che deve essere in grado di garantire accoglienza senza dare occasione alle forze politiche sovraniste e anti europee di avere una scusa per la loro esistenza. Il nuovo meccanismo prevede che i paesi dell’Unione possano scegliere di fornire aiuto ad un altro stato in difficoltà con i flussi migratori con ricollocamenti o rimpatri, secondo quote calcolate attraverso i dati di prodotto interno lordo e numero della popolazione; tuttavia questa redistribuzione potrebbe essere poco di più che su base volontaria, infatti sarebbe contemplata la possibilità del rifiuto della redistribuzione, compensato dall’obbligo della gestione del rimpatrio dei migranti. Malgrado Bruxelles presenti il piano come un giusto compromesso tra i paesi che materialmente accolgono i migranti e le nazioni che li rifiutano, il meccanismo appare ancora troppo sbilanciato a favore di questi ultimi, soprattutto perché non prevede sanzioni efficaci, se non quella dell’obbligo di accogliere i migranti che non saranno riusciti a fare espatriare. L’assenza di regole sanzionatorie più dure, come il taglio dei contributi europei, lascia l’Unione in balia di paesi che non hanno evidentemente recepito gli ideali fondativi dell’Europa e che usano l’Unione soltanto come bancomat, senza obbligo. La sensazione è che la permanenza di questi stati sia funzionale agli interessi economici tedeschi, grazie, prima di tutto al basso costo della manodopera, occorrerebbe, invece, interrogarsi sulla reale convenienza generale di questi stati all’interno di una Unione di cui rifiutano non solo gli obblighi, ma spesso emanano leggi contrarie al diritto europeo.  Se si vuole guardare agli aspetti positivi, pochi, si può registrare un timido avanzamento sulla ricerca di una politica comune sui flussi migratori, ma che, sull’aspetto della riforma del trattato di Dublino, lascia tutto inalterato. Il problema è anche morale, ed è un aspetto dal quale Bruxelles non può continuare a sfuggire, limitandosi a comunicati incolori e di prammatica sulla solidarietà alle persone migranti. I casi dei lager in Libia o della situazione dei campi in Grecia, non possono essere tollerati da chi si pone come esempio di civiltà. Italia e Grecia hanno le loro colpe, ma hanno dovuto trovare delle soluzioni discutibili perché non hanno avuto l’aiuto europeo, peraltro queste soluzioni sono state vantaggiose anche per Bruxelles. L’atteggiamento comune è improntato all’ipocrisia, che condizione l’azione politica nel tentativo di dare tenere insieme paesi con troppi interessi e visioni contrastanti. Se l’aspetto economico è ancora predominante, quello politico non è più rinviabile: Bruxelles deve essere in grado di operare uno scatto verso quell’unità di intenti, che può assicurare il futuro dell’Unione. Atteggiamenti timidi come quello attuale sui migranti e, soprattutto, sui meccanismi sanzionatori di chi rifiuta la suddivisione degli oneri, segnalano un approccio troppo poco convinto che serve solo a chi vuole sfruttare l’occasione per mantenere una Unione debole dal punto di vista politico e, quindi, che non riuscirà a trovare quel ruolo necessario per bilanciare USA e Cina. Quella che si afferma è una visione a breve periodo che danneggia anche i paesi che non comprendono che soltanto una equa suddivisione di tutti gli oneri, di cui il problema dei migranti è solo il più evidente, può garantire anche la suddivisione dei vantaggi, soprattutto finanziari. Alla fine è questo il punto cruciale che determinerà l’esistenza europea come visione d’assieme: chi non la comprende è meglio che ne esca, come ha fatto la Gran Bretagna.

Gli USA vogliono imporre le sanzioni all’Iran e si isolano dalla scena diplomatica

La questioni delle sanzioni all’Iran è sempre stato un punto fermo del programma politico di Trump, ora, alla vigilia delle elezioni presidenziali, quando la campagna elettorale si sta intensificando, il presidente statunitense rimette al centro del dibattito internazionale l’intenzione di ripristinare in maniera completa le sanzioni contro Teheran. Questa volontà è stata annunciata dal Segretario di stato americano, giustificandola con la risoluzione numero 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo l’interpretazione americana, l’Iran non avrebbe rispettato gli impegni presi con la firma dell’accordo sul nucleare, accordo dal quale gli USA si sono ritirati in maniera unilaterale. La notifica alle Nazioni Unite, avvenuta il 20 agosto scorso, della volontà statunitense avrebbe, secondo la Casa Bianca, attivato il processo di ripristino delle sanzioni con effetto dal 19 settembre 2020. La coincidenza con la campagna elettorale appare evidente, tuttavia questa intenzione pone gli Stati Uniti in un ulteriore stato di isolamento, che aggrava la posizione americana all’interno del panorama diplomatico. La reazione più eloquente è quella dell’Unione Europea, che denuncia l’illegittimità degli USA nel volere riapplicare le sanzioni. Si tratta di una illegittimità in contraddizione con il diritto internazionale, in quanto gli americani non possono riapplicare le sanzioni di un trattato dal quale si sono ritirati e, quindi, di cui non sono più sottoscrittori. Il dispregio del diritto, piegato alle necessità contingenti di politica interna, peraltro di una sola parte del paese, evidenzia come l’atteggiamento dell’amministrazione in carica sia un misto di imperizia e dilettantismo, dai quali, per l’ennesima volta, il paese ne esce malissimo. Infatti, se le reazioni di Cina, Russia e dello stesso Iran sono contrarie per ragioni di interessi politici nazionali, la posizione dell’Europa si distingue come un progressivo allontanamento dagli Stati Uniti per lo meno se al comando resterà questo presidente. Lo scontro non è solo sul provvedimento dell’applicazione delle sanzioni sulla base di un accordo dal quale Washington si è ritirato in modo unilaterale, ma anche sulla minaccia americana di applicare sanzioni a quelli stati che non si adegueranno alla decisione della Casa Bianca. L’atteggiamento americano è anche una sfida alle Nazioni Unite, uno scontro frontale che può avere conseguenze pesanti sugli equilibri della politica internazionale; infatti le minacce di sanzionare gli altri stati, che non vorranno adeguarsi alla decisione degli USA è una potenziale conseguenza della quasi certa decisione delle Nazioni Unite di non volere adempiere all’attuazione delle sanzioni. Si capisce che una diplomazia ormai costituita solo da minacce e che rifiuta ogni dialogo ed anche l’applicazione delle normali norme di comportamento rappresenta un segnale di debolezza, sia sul breve che sul medio periodo. Ma si tratta anche dell’abdicazione formale al ruolo di grande potenza da parte di un paese che si sta ripiegando sempre di più su se stesso in un momento dove il bisogno di fare fronte comune delle democrazie occidentali contro Cina e Russia appare una esigenza non più rinviabile. Non solo anche il programma “Prima l’America”, lo slogan che accompagna l’azione politica di Trump, sembra essere tradito da questo eccesso di protagonismo che è certamente contro gli interessi degli Stati Uniti. Washington non può proporsi contro l’espansionismo cinese o l’attivismo russo in maniera singolare, perché ha bisogno dell’azione congiunta dell’Europa, che, viene data sempre come sicura, ma a torto: infatti non si può pretendere che il maggiore alleato americano, già insofferente per l’azione di Trump, subisca in maniera passiva queste imposizioni; dal punto di vista commerciale l’Unione Europea non può tollerare di essere sottoposta a sanzioni in maniera illegale e la conseguenza non potrà che essere un irrigidimento dei rapporti anche su temi dove gli interessi americani avevano trovato un’intesa con l’Europa, come gli scenari degli sviluppi delle telecomunicazioni, con l’esclusione della tecnologia cinese. Questo caso mette ancora una volta in risalto come l’Europa debba trovare una modalità per essere sempre più indipendente dagli altri attori internazionali; se nei confronti di Cina e Russia c’è una distanza enorme su temi come i diritti umani, le violazioni informatiche ed anche i rapporti commerciali, che li pone sempre più come interlocutori inaffidabili; gli Stati Uniti, malgrado le politiche di Trump, restavano ancora gli interlocutori naturali, tuttavia la Casa Bianca sembra volere esercitare un ruolo sempre più egemone, che non può essere tollerato dall’Europa. Se le elezioni presidenziali americane non daranno un risultato diverso da quello prodotto quattro anni prima, le distanze con Trump sono destinate ad aumentare: a quel punto Washington potrebbe diventare non tanto diversa da Pechino o da Mosca.

Mosca e la crisi bielorussa

La situazione della Bielorussia rischia di diventare pericolosa per Putin e la Russia. Per la dittatura di Minsk il momento è difficile, malgrado la violenza della polizia e le repressioni seguite ai brogli elettorali, le proteste continuano ad estendersi con pesanti ricadute sulle reazioni internazionali. L’Unione Europea avrebbe individuato il paese bielorusso come un possibile obiettivo paragonandolo all’Ucraina: una situazione di potenziale ampliamento della zona di influenza di Bruxelles, probabilmente su procura di Washington. All’interno del quadro internazionale le legittime aspirazioni della popolazione della Bielorussia assumono un aspetto funzionale agli interessi delle forze esterne in gioco. Naturalmente il soggetto che ha più da perdere dall’evoluzione della vicenda bielorussa è il Cremlino; per Mosca la ripetizione di una vicenda come quella ucraina al suo confine, significherebbe una decisiva diminuzione della sua influenza regionale ed anche del suo prestigio interno, soprattutto nell’ottica di replicare la potenza dell’Unione Sovietica, progetto che contribuisce al prestigio in Russia di Putin. Una improbabile vittoria della opposizione favorirebbe la transizione del paese verso l’occidente e questo è il primo obiettivo che Mosca deve evitare, ma raggiungere ciò non è semplice né lineare. Il dittatore bielorusso è al potere da ventisei anni e non pare intenzionato a cedere e già prima del voto, durante la campagna elettorale, ha accusato Mosca di volere interferire nelle elezioni; con questa mossa, sostanzialmente, ha avvertito la Russia di potere e volere esercitare una pressione affinché il Cremlino sia pronto a fornire l’appoggio necessario, anche militare in caso di bisogno. Per Mosca la situazione con l’Ucraina è leggermente differente perché in quel caso c’erano territori dove la presenza etnica russa è consistente, Crimea e Donbass, e la rivendicazione territoriale poteva avere una qualche giustificazione anche in una posizione di violazione del diritto internazionale, Nella Bielorussia un eventuale intervento armato verrebbe interpretato come un sostegno esclusivo della dittatura bielorussa, con la conseguente reazione della emanazione di nuove sanzioni e, probabilmente, una massiccia presenza di militari occidentali alle frontiere bielorusse. L’opzione militare, quindi, pur essendo nel novero delle possibilità, appare come l’ultima possibilità alla quale il Cremlino potrebbe ricorrere. La soluzione migliore sarebbe che potesse emergere una figura al posto dell’attuale dittatore, in grado di fare concessioni all’opposizione, ma che consentisse la permanenza nell’orbita russa, ma, al momento, non sembra essere presente questa opzione, proprio perché la permanenza per ventisei anni al potere dell’attuale dittatore, non ha permesso uno sviluppo di figure alternative, anche all’interno del partito del presidente. La migliore opzione possibile per la Russia è quella di esercitare una pressione diplomatica su Minsk per allentare la repressione, in modo da attenuare l’attenzione internazionale; questa operazione, fatta nell’interesse di mantenere la Bielorussia nell’orbita ex sovietica, può essere attuata soltanto con una persuasione politica unita ad un incremento degli aiuti economici, uno sforzo notevole per una economia non in buono stato come quella di Mosca. Il punto è fino a dove vuole arrivare Minsk nelle sue richieste, che tengono conto della ritrosia russo di un impegno militare sul terreno, ed, al contrario, dove può spingersi Mosca; per il momento il Cremlino sembra prendere timidamente le distanze da Minsk, riconoscendo che nelle elezioni ci sono state modalità non chiare, sulla sincerità di queste affermazioni si incentra l’interrogativo se sono sincere o sintomo di opportunità funzionale ad esercitare la pressione sul governo bielorusso, ma, nello stesso tempo, Mosca ha negato di avere contatti con l’opposizione: smentita doverosa per ribadire in modo indiretto l’appoggio alla dittatura. Sul piano internazionale il Cremlino ha avvertito i paesi europei a non esercitare azioni di ingerenza nella crisi bielorussa, ribadendo, così, la sua volontà di mantenere la preminenza in quella che considera zona di influenza esclusiva. Infine occorre anche tenere presente che l’opposizione bielorussa, pur mantenendo un certo livello numerico, stenta ad aumentare: lo dimostra la difficoltà nella raccolta dei fondi per sostenerla e la diminuzione degli scioperi che hanno travolto il paese dopo che sono stati resi pubblici i risultati elettorali, con fabbriche che sono tornate a funzionare. La tenuta della dittatura, dopo queste fasi critiche, sembra essere la migliore soluzione per Mosca per mantenere lo status quo, anche se questo aspetto è certo sicuramente nel breve periodo e forse nel medio, ma nel lungo periodo dovranno essere elaborate strategie alternative per continuare ad esercitare l’influenza voluta.

L’Unione Europea contro gli attacchi cibernetici

Nel 2019 l’Unione Europea si è dotata di uno strumento capace di creare ritorsioni contro gli attacchi informatici. Sebbene tale strumento sia tutt’altro che agile, a causa della regola che le sanzioni debbano essere comminate con il voto unanime dei 27 membri, la volontà di tutelarsi contro i crimini informatici ed i cyber attacchi risulta essere un fatto politico rilevante. Con lo spostamento dei conflitti da quelli convenzionali a quelli asimmetrici e la crescita del potenziale dello spionaggio, praticato da lontano, appunto attraverso l’uso di sistemi informatici, la sola azione dei singoli stati non è più sufficiente, soprattutto proprio dal punto di vista politico per controbattere con sanzioni, che, se prese a livello comunitario, hanno una maggiore rilevanza, non solo in senso punitivo, ma anche preventivo. La presa d’atto della crescita delle minacce cibernetiche a livello sovranazionale costituisce una importante variazione sul comportamento degli stati europei, abituati a combattere in maniera singola questo tipo di attacchi. Il fatto che ora si sia raggiunta l’unanimità e quindi si sia deciso per una risposta diplomatica a livello collettivo, rappresenta un risultato che vuole indicare un atteggiamento ed un avvertimento agli stati che usano queste pratiche; anche i destinatari delle sanzioni, che non sono paesi di secondo piano, visto che rispondono al nome di Cina, Russia e Corea del Nord.  Le azioni degli hacker che hanno provocato le misure sanzionatorie sono state dirette contro aziende appartenenti a paesi dell’Unione, che hanno patito ingenti perdite finanziarie, furto di dati sensibili di numerosi utenti ed aziende, con la conseguente richiesta di riscatto in denaro per la restituzione delle informazioni, spionaggio industriale e blocco della fornitura di energia elettrica. L’impulso maggiore a percorrere la via delle sanzioni, tuttavia è venuto dalla Germania e dalla sua Cancelliera, spiata dalla Russia proprio mentre collaborava per un riavvicinamento tra Bruxelles e Mosca. Recentemente si è venuto a conoscenza di una probabile intrusione cinese all’interno dei server del Vaticano per conoscere in anticipo le intenzioni della diplomazia del Papa nei confronti di Pechino. Si tratta, evidentemente solamente di alcuni casi che affiancano i vari tentativi di alterare le campagne elettorali in diversi stati, perpetrati con mezzi i informatici e più volte riscontrati. La necessità, quindi, di risposte adeguate alle minacce ha avuto come conseguenza quella di trovare l’unanimità dei paesi dell’Unione: un evento molto raro e con una enorme rilevanza politica. Le sanzioni comminate comprendono una serie di misure che impedisce il divieto di viaggio e dimora sul territorio dell’Unione, il congelamento dei beni ed il divieto di accedere a fondi europei. Se nel caso cinese ed in quello nordcoreano gli autori degli attacchi erano società, non formalmente collegate con i regimi di provenienza, le sanzioni contro la Russia hanno riguardato, tra gli altri, il dipartimento delle tecnologie speciali dei servizi di intelligence militari russi, noto come Direttorio generale dello stato maggiore delle forze armate della Federazione russa.  Probabilmente al fatto che è stato scoperto il diretto coinvolgimento di Mosca, ha causato la reazione più forte degli stati sanzionati. Il Cremlino, dopo avere specificato che le sanzioni non sono state giustificate, ha minacciato risposte simmetriche alle sanzioni subite, secondo la regola della diplomazia russa. In ogni caso queste vicende segnalano come sia necessario che lo strumento adottato diventi più flessibile e pronto ad elaborare risposte non solo diplomatiche, che sono l’ultima fase del processo, ma anche dal punto di vista dell’azione sia difensiva che offensiva, intesa soprattutto in senso preventivo. Le numerose potenzialità che offre la guerra cibernetica investono una molteplicità di argomenti, che vanno oltre gli aspetti militari, ma che riguardano i segreti industriali, la ricerca tecnologica e medica, il controllo di acquedotti, centrali elettriche e della burocrazia di ogni singolo paese. Ogni aspetto della nostra vita può ricadere sotto la minaccia informatica ed in un’ottica sovranazionale, il danno subito da un singolo paese non può non avere effetti e ripercussioni sugli altri. Quindi l’esigenza di una maggiore agilità passa dalla riduzione dell’unanimità e da una maggiore autonomia dello strumento contro gli attacchi informatici, ma  raggiungere questi obiettivi non sarà agevole, anche se la spinta dettata dalle emergenze potrà favorire questa direzione.