La via spagnola ed olandese per l’autonomia strategica e produttiva dell’Unione Europea, come alternativa alle visioni francese e tedesca

Dopo i quattro anni di Trump è in corso di miglioramento, per tornare sui livelli precedenti al penultimo inquilino della Casa Bianca, il rapporto tra USA ed Unione Europea, che rappresenta il fulcro della strategia nel campo occidentale di Washington. I ripetuti incontri, quelli già effettuati ed i prossimi, segnalano una volontà comune di entrambe le parti di rinsaldare i rapporti, soprattutto in una fase mondiale molto delicata e segnata dal peggioramento dei rapporti con la Cina, la Russia (che afferma la necessità strategica di tagliare i legami con Bruxelles), la Turchia, l’Iran ed altre situazioni potenzialmente pericolose ed in grado di variare profondamente gli assetti e gli equilibri attuali. Nonostante l’importanza riconosciuta da tutti i membri dell’Unione, circa il rinnovato legame con gli Stati Uniti, in Europa continua il dibattito, già obbligatoriamente iniziato durante la presidenza Trump, della necessità di una maggiore autonomia della principale organizzazione del vecchio continente, per raggiungere lo scopo di incidere in maniera efficace negli scenari mondiali con una capacità autonoma strategica e militare, ma da integrare, soprattutto con l’arrivo della pandemia, in una indipendenza produttiva, sia nella materia della medicina, che delle telecomunicazioni e di altre capacità industriali da conquistare per arrivare ad una posizione di autonomia ed indipendenza da altri soggetti: siano alleati o avversari. La questione non ha facile soluzione, perché la visione dei membri dell’Unione non è univoca e le decisioni, che dovrebbero essere rapide, sono condizionate da meccanismi di unanimità, che costituiscono il mezzo per esercitare veti e reciproci ricatti funzionali all’interesse dei singoli stati a svantaggio dell’interesse comune dell’Unione. Sostanzialmente sono due gli orientamenti maggiori, che si differenziano per il diverso atteggiamento su questo tema, centrale per lo sviluppo dell’Europa. Da una parte quello guidato dalla Germania, che propendono per la continuazione della protezione americana, attraverso l’Alleanza Atlantica e, dall’altra, l’idea francese, che ritiene essenziale trovare una autonomia europea, seppure, sempre all’interno del campo occidentale. La visione tedesca pare condizionata troppo dall’interesse particolare di Berlino, che non vuole cedere sovranità per tutelare la sua indipendenza economica, con la quale condiziona e comanda, come azionista di maggioranza l’Unione. Il parere di Parigi ricalca la grandeur francese e la vuole trasportare in Europa per fare del vecchio continente un protagonista in grado di incidere autonomamente sui temi globali. Occorre anche dire che se con la presidenza Biden si ritorna ad una situazione gradita alla Germania, l’esperienza Trump ha messo in rilievo che non esistono rendite di posizione acquisite e la necessità di una autonomia strategica europea diventa irrinunciabile se Washington adotta comportamenti di isolamento anche dai suoi abituali alleati. Dunque in questa fase la Germania può avere un atteggiamento attendista, ma resta vero, che anche con una situazione ottimale come quella presente, l’Unione si muove senza una propria identità da spendere sullo scenario internazionale, perché sempre sotto la tutela americana e questo vuole dire rinunciare a vantaggi e la possibilità di sottolineare in modo efficace la propria posizione. Di fronte a queste due tendenze i governi di Spagna ed Olanda cercano una via alternativa che possa consentire l’intervento nelle questioni globali, certamente attraverso una forza armata comune, ma anche con una capacità autonoma nel settore industriale, da perseguire non più con l’unanimità, ma con la maggioranza delle adesioni degli stati membri, cioè attraverso una nuova definizione di sovranità, che possa consentire risposte rapide e sganciate dalle organizzazioni sovranazionali in cui l’Europa è inserita, ma che spesso, hanno interessi contrastanti con Bruxelles e funzionali agli interessi del momento dei partner maggiori. Si tratta di una soluzione tutta da percorrere, ma che traccia una via chiara, anche nei confronti di chi rimane in Europa soltanto per avere i finanziamenti, senza condividerne gli scopi. La rinuncia a parti consistenti di sovranità appare un requisito imprescindibile ed in aperto contrasto con le visioni francesi e tedesche ed anche i rapporti tra stati settentrionali con quelli mediterranei sono un ostacolo perché conflittuali nei rispettivi interessi, tuttavia cominciare a discutere di una opportunità che sia anche in grado di sovvertire le gerarchie attuali, appare come una opportunità unica ed irrinunciabile per fare del mercato più ambito del mondo anche un indiscusso protagonista, capace di diffondere ed affermare la propria visione in competizione con i soggetti internazionali che ne hanno ora il monopolio.     

Le giuste sanzioni contro la Cina e il comportamento diplomatico incoerente dell’Unione Europea

La feroce repressione dei cinesi turcofoni di religione islamica, etnia di maggioranza della regione cinese dello Xinjiang, ha provocato delle sanzioni da parte dell’Unione Europea; le sanzioni colpiscono quattro cittadini e funzionari della Repubblica Popolare cinese per protratte violazioni dei diritti umani perpetrate attraverso la deportazione di massa, arresti arbitrari e trattamenti degradanti, tenute contro cittadini cinesi di etnia uigura. La politica di assimilazione, senza rispetto alcuno dei diritti umanitari, del governo cinese di questa parte di popolazione è in atto da tempo, ma le sanzioni europee arrivano soltanto ora ed hanno la particolarità di essere le prime dai tempi dei massacri di Tiananmen avvenuti nel 1998. In tutto questo periodo la Cina ha assunto un ruolo di partner strategico nell’economia europea, che era meglio non contraddire. In realtà queste ultime sanzioni emesse sono comunque più simboliche, che efficaci, dato, appunto, che hanno colpito soltanto quattro cittadini cinesi e non la Cina in quanto entità nazionale; tuttavia è implicito che il messaggio per Pechino sia stato di una pesante critica alla sua sovranità: un insulto inconcepibile per il governo cinese, che ritiene i propri affari interni come materia inviolabile. La risposta ufficiale della Cina è stata una rappresaglia non proporzionata, che ha voluto colpire direttamente le istituzioni europee, sanzionando dieci persone, che comprendono parlamentari e funzionari di Bruxelles. L’Unione Europea ha applicato in modo coerente quanto già applicato alla Russia e ad altri paesi per le repressioni che hanno provocato le violazioni dei diritti umani. All’azione europea si sono affiancati gli USA ed il Regno Unito, che non hanno voluto mancare all’occasione di mostrare a Pechino la rinnovata coesione occidentale, soprattutto per Washington è essenziale dimostrarsi in prima linea contro quello che ritiene il maggiore avversario sistemico di questa fase storica, sia per ragioni economiche che geostrategiche. Il compattamento occidentale ha provocato una maggiore vicinanza tra Cina e Russia, con Mosca ora, però, in condizione subalterna a Pechino, mentre non si può non rilevare che l’attivismo cinese ha attirato in una personale zona di influenza i nemici degli USA, tra gli altri Iran e Corea del Nord, con i quali intrattiene rapporti commerciali malgrado le sanzioni americane ed europee. Circa le sanzioni europee occorre fare alcune riflessioni, essendo giusta la decisione di Bruxelles in senso assoluto, occorrerà verificare come evolverà questa situazione di tensione diplomatica, se, cioè, avrà ricadute anche sui troppi rapporti commerciali che intercorrono tra le due parti e che, senz’altro, convengono all’Europa, ma di più e per svariate ragioni, tra cui non solo quelle economiche, convengono di più alla Cina. La situazione che si è venuta a creare nel campo occidentale e, soprattutto, con il cambio alla Casa Bianca, potrebbe allentare i legami, da parte di Bruxelles, con la Cina e così permettere una maggiore autonomia, economica e produttiva a favore dell’Europa. Se si vuole percorrere la strada della tutela dei diritti umani, anche al di fuori dei propri territori, diminuire i rapporti commerciali con la Cina ed il suo modo di essere, cioè prenderne le distanze in maniera significativa e non solo simbolica, appare un percorso obbligato. Se le intenzioni ed anche i comportamenti europei circa la tutela dei diritti sembrano doverose e condivisibili, meno limpido appare, però, l’avvicinamento con la Turchia, che ha certamente delle ragioni strumentali sulle quali non si può che dare un giudizio fortemente negativo. Finanziare Ankara per mantenere sul suo territorio i profughi diretti in Europa, può essere una ragione di ordine pratico ma che è in antitesi con la volontà di difendere i diritti umani: una contraddizione troppo evidente per non guardare con occhi diversi anche le sanzioni cinesi; oltretutto riavvicinarsi ad un regime che massacra i curdi, verso i quali l’Europa, ma anche l’occidente intero, dovrebbe avere solo sentimenti di gratitudine e quindi di protezione e che va verso il disconoscimento del trattato di Istanbul contro la violenza femminile, appare un controsenso anche senza volere ergersi a difensori dei diritti umani. La percezione è quella di una istituzione europea con un atteggiamento ondivago, che non riesce a mantenere una linea retta, un comportamento coerente con quanto si prefigge: secondo ciò la Turchia dovrebbe avere lo stesso trattamento della Cina e sarebbe ancora poco (peraltro le sanzioni contro la Cina sono, è già stato detto, poco più che simboliche). La speranza è quella di non andare incontro ad una delusione, che per l’argomento trattato, potrebbe avere conseguenze sulla fiducia dei cittadini, non recuperabili.       

Londra aumenterà il suo arsenale nucleare

Fin dal suo arrivo al potere Boris Johnson ha avuto l’intenzione di effettuare una revisione della sicurezza del Regno Unito di fronte ai mutamenti della scena politica internazionale ed alle nuove minacce che derivano dalla variazione degli interessi geostrategici che sono seguiti ai diversi assetti di potere, causati soprattutto dalla globalizzazione. Su questa intenzione ha influito l’uscita dall’Unione Europea, che ha richiesto un nuovo disegno della strategia di difesa da parte di Londra. Nonostante la pandemia abbia rallentato questo processo le minacce principali che il governo inglese valuta come più pericolose restano la Russia e la Cina, ed entrambe sono potenze nucleari. Questa considerazione è alla base della nuova volontà inglese di cambiare la sua politica di non proliferazione nucleare e di andare verso un rafforzamento dell’arsenale atomico. Pur restando all’interno dell’Alleanza Atlantica, come uno dei principali membri, l’uscita da Bruxelles, obbliga Londra ad agire come uno dei principali paesi con una strategia di difesa non coordinata ad altre organizzazioni sovranazionali, ma basata sulla propria indipendenza e singolarità. Ciò non vuole dire che Londra non intenda collaborare con gli alleati occidentali, ma che, in prima battuta, in caso di minacce, voglia disporre di una autonomia decisionale e di disponibilità di armi tale da rispondere anche da sola ad attacchi potenziali. La previsione è quella di aumentare le proprie testate nucleari da 180 a 260, per incrementare anche una deterrenza preventiva, che ricorda la strategia della guerra fredda, qui, però, applicata oltre la logica bipolare. Londra si impegna a non utilizzare le armi atomiche contro quegli stati che hanno firmato nel 1968 il Trattato di non proliferazione nucleare, tuttavia questo impegno potrà essere rivisto in caso di minacce nei suoi confronti da parte di paesi con arsenali contenenti analoghe armi atomiche, chimiche, biologiche o comunque di capacità comparabile derivanti dal progresso tecnologico futuro. Il Regno Unito individua come principali minacce Cina e Russia, però verso Pechino l’atteggiamento di Londra pare più cauto: anche se la Repubblica Popolare è vista come una sfida di sistema ai valori e principi britannici, le relazioni commerciali tra le due parti devono continuare fino a che la reciproca collaborazione potrà essere compatibile con gli interessi inglesi e ciò non deve precludere a sfide comuni come quella contro il cambiamento climatico. Peggiori si configurano le relazioni con Mosca, con la quale il terreno di scontro è stato sull’attività dei servizi segreti russi sul suolo inglese, più volte implicati in violazioni, omicidi ed attentati, secondo Londra. Su questo versante l’aumento dell’arsenale nucleare non sembra essere uno strumento diretto a scongiurare la volontà russa di operare con i suoi metodi discutibili, tuttavia è innegabile una valenza di deterrenza ì, anche simbolica, che Londra vuole assumere per avvertire i propri rivali. Se la volontà di effettuare una proliferazione nucleare è sempre una cattiva notizia, anche per gli USA, Washington non può, però, non apprezzare la volontà espressa da Londra di una maggiore collaborazione e cooperazione, soprattutto dopo la sostituzione del presidente Trump, una personalità che ha spesso causato scontri con i primi ministri inglesi, con Biden, ritenuto un interlocutore più affidabile. La decisione di aumentare l’arsenale nucleare ha prodotto pesanti critiche nel Regno Unito, perché interrompe una lunga serie di primi ministri, sia conservatori, che laburisti, che si sono impegnati nella riduzione degli ordigni atomici. Un’ultima considerazione è ancora necessaria: che una personalità controversa e spesso imprevedibile come Boris Johnson abbia a disposizione un arsenale nucleare ancora più grande, non è una buona notizia per gli assetti mondiali ed i loro equilibri; infine la credibilità di uno dei membri del trattato sul nucleare iraniano, che aumenta la sua potenza atomica assume un significato molto equivoco: se Teheran dicesse che vuole la bomba atomica a scopo di deterrenza contro quelle che ritiene minacce, cosa potrebbe controbattere Londra?

Il possibile procedimento contro il principe ereditario saudita in Germania, come nuova forma di lotta contro i crimini contro l’umanità

La denuncia dell’associazione Reporter senza frontiere, depositata in Germania, con un dossier di 500 pagine, contro il principe ereditario Mohamed bin Salman ed altri membri della sua cerchia, accusati per l’omicidio del giornalista, avverso al regime, Jamal Khasoggi, avvenuto in Turchia nel 2018, diventa un’arma giuridica dell’occidente contro l’Arabia Saudita. Questa iniziativa arriva dopo che il presidente Biden ha tolto il segreto al dossier della CIA, voluto da Trump, sulle responsabilità effettive, come mandante dell’omicidio del giornalista. La quasi contemporaneità delle due iniziative dimostra come il legame tra USA ed Unione Europea si è rinsaldato con il nuovo inquilino della Casa Bianca. In realtà manca ancora il pronunciamento del pubblico ministero del tribunale dove è stata presentata la denuncia, ma il proseguimento dell’azione legale è dato per scontato, anche se la Germania non ha alcun legame con la vicenda, i tribunali tedeschi dovrebbero dichiararsi competenti sui fatti per effettuare un procedimento contro presunti crimini contro l’umanità, grazie alla conformità delle leggi tedesche ed al principio del diritto internazionale della giurisdizione internazionale. Deve essere specificato che si tratterà soltanto di una azione senza alcun effetto pratico, dato che è scontato il rifiuto, in caso di condanna, di estradizione da parte dell’Arabia Saudita, che ha espresso molto chiaramente il proprio atteggiamento sulla vicenda condannando, prima alla pena di morte, poi commutata in pene detentive, imputati di cui non sono state fornite le generalità, il che potrebbe volere dire che la condanna è stata emessa contro nessuno e soltanto per salvare le apparenze per i rapporti con l’occidente; tuttavia il valore politico di effettuare soltanto un procedimento contro una delle massime cariche saudite per violazioni contro l’umanità, assume un chiaro significato di discredito verso il principe ereditario, che lo squalifica nei rapporti di tipo diplomatico che intenderà intraprendere con altri soggetti internazionali. La Germania può essere una sorta di capofila per i paesi occidentali nella tutela dei crimini contro l’umanità, usati in maniera funzionale come azione diplomatica e quale discriminante dei rapporti internazionali; certamente si è all’inizio di un processo di questo tipo, del quale si dovrà valutare attentamente le implicazioni e le ricadute sui rapporti commerciali ed economici tra gli stati. A questo proposito deve essere considerato con attenzione l’atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti: Washington ha reso pubblico il rapporto che svela la responsabilità del principe ereditario, ma non ha emesso alcun procedimento o sanzione contro di lui, limitandosi a esprimere il proprio diniego dai rapporti istituzionali con il principe e considerando legittimo come interlocutore soltanto il regnante attuale. Si tratta di una posizione dettata dalla necessità di mantenere gli attuali legami con il regno Saudita, basati su reciproca convenienza di carattere geopolitico, tuttavia nel caso il principe ereditario diventasse il legittimo, per le leggi saudite, nuovo sovrano del paese, il problema non potrebbe essere di facile soluzione. Quello che appare è che si sta provando a gestire con una nuova metodologia, situazioni purtroppo già ben presenti da tempo, ma la domanda è se queste pratiche potranno valere a livello universale o se saranno usate solo per casi sporadici, secondo le esigenze contingenti o le convenienze del momento. Ad esempio il caso più eclatante è la Cina, che, malgrado le difficoltà attuali, intrattiene rapporti commerciali con tutto l’occidente, ma ha anche comportamenti sicuramente colpevoli verso gli Uiguri, contro i quali è in atto una feroce repressione che alcuni giudicano come un vero e proprio genocidio, così come nei confronti della protesta di Hong Kong, senza contare l’atteggiamento verso il Tibet ed il dissenso interno; tutto materiale sufficiente per una serie di processi per crimini contro l’umanità. Queste considerazioni valgono per molti altri stati, compresi la Russia e l’Iran, con il quale l’occidente cerca di riallacciare i rapporti sul nucleare interrotti da Trump. La questione è molto ampia ed ha ostacoli non facilmente sormontabili, ma, in questo momento, è importante sottolineare l’inizio di pratiche giurisdizionali, la cui applicazione potrebbe rappresentare il futuro della lotta ai crimini contro l’umanità: un percorso difficile ma che merita di essere sviluppato e collegato ai rapporti tra gli stati, proprio per emarginare ed isolare quei soggetti internazionali responsabili di queste violazioni.    

Le sanzioni contro la Russia come metodo politico dell’Unione Europea

L’Unione Europea intende applicare per la prima volta il provvedimento legislativo ispirato alla legge americana, che consente di colpire le violazioni dei diritti umani senza alcuna limitazione geografica. Destinataria delle valutazioni conseguenti all’applicazione della normativa sarà la Russia, che sarà colpita da un regime di sanzioni proprio a causa della violazione dei diritti umani avvenuta a causa dell’attività del governo di Mosca. La risposta di Bruxelles vuole essere una reazione alle provocazioni del Cremlino circa le repressioni delle proteste avvenute sulle piazze russe ed al trattamento recentemente riservato all’Alto rappresentante europeo durante la sua visita nella capitale della Russia. Se i fatti contingenti, che hanno provocato la reazione europea sono quelli sopracitati, anche la volontà europea di definire i prossimi rapporti con il paese russo ha contribuito con un peso rilevante, sulle ragioni che hanno provocato la determinazione dell’Unione di emettere le sanzioni contro Mosca. Quello che è in corso tra Unione Europea e Russia è un confronto non certo pacifico, determinato dal rifiuto di Mosca di rispettare le decisioni della Corte europea dei diritti umani, sia in senso generale, che particolare, soprattutto se riferita al trattamento riservato in modo plateale ai dissidenti più famosi; tuttavia le misure che saranno adottate saranno molto circoscritte ed andranno a colpire un numero limitato di alti funzionari del paese russo, senza toccare le cariche statali più elevate. Si tratta, evidentemente, più di un atto politico, che veramente sanzionatorio, una sorta di segnale verso i prossimi comportamenti di Mosca, un avvertimento diretto contro il Cremlino ma anche per dimostrare il sostegno alla politica americana del nuovo presidente, che ha reso centrale nella sua politica la lotta in difesa dei diritti umani, che deve intendersi non solo a livello generale, ma anche come strumento di pressione politica nei confronti degli avversari principali: la Russi a, appunto, e la Cina. Una maggiore valutazione della misura europea, potrà comunque essere meglio valutata quando i rappresentanti dei ventisette paesi emetteranno la lista dettagliata dei funzionari che saranno colpiti dalle sanzioni. I paesi europei sono consapevoli della necessità di non compromettere in maniera irreparabile i rapporti con Mosca, giacché la continuazione del dialogo su temi quali il cambiamento climatico e l’accordo con l’Iran per il nucleare, restano temi centrali nelle rispettive agende politiche; inoltre la vicinanza geografica impone comunque una maggiore cautela nelle rispettive relazioni; da qui deriva la necessità di un comportamento il più uniforme possibile tra i ventisette stati europei, per evitare divisioni, che potrebbero costituire occasioni da sfruttare, non solo per la Russia, ma anche per altri possibili paesi avversari. Questi fattori aiutano a capire la scelta di un approccio morbido su un tema comunque diventato centrale nella politica europea, ma la cui applicazione deve essere deve essere ponderata in relazione alle situazioni contingenti ed in special modo, in questa fase, deve essere prevalente l’esigenza del mantenimento dei contatti diplomatici, proprio come strumento fondamentale di risoluzione dei contrasti. Appare evidente come le difficoltà presenti siano cause ostative a questi processi, tra cui la prima fra tutte è la sostanziale ingerenza in affari interni dello stato russo, tuttavia nel modello internazionale, che sta emergendo con sempre maggiore forza, la necessità del rispetto dei diritti umani ha assunto una importanza sempre maggiore, che travalica la propria importanza peculiare per investire tematiche molto più vaste, come il rispetto delle minoranze politiche ed etniche fino ad arrivare ad essere un fattore di perequazione commerciale ed industriale in un mondo sempre più globalizzato. L’esempio cinese, che propugna un globalismo commerciale, con tutti i vantaggi del caso, non può essere disgiunto dal rispetto dei diritti, intesi anche come fattore capace di evitare le distorsioni delle produzioni perseguite senza il rispetto dei lavoratori, sia nei diritti, che nelle tutele, che nelle adeguate forme salariali, che possono alterare le forme di concorrenza, attraverso l’abbassamento del costo del lavoro raggiunto sia con un uso strumentale del mancato rispetto dei diritti, inteso sia come mezzo politico, che come messo di produzione. Le due dimensioni non sono slegate e spesso sommate in maniera intrinseca e proprio per questo l’Unione deve usare il favorevole momento politico della presenza di un presidente USA particolarmente sensibile all’argomento, per diventare una protagonista nella difesa dei diritti.

La difficile relazione tra Unione Europea e Russia

Le relazioni tra Unione Europea e Russia sembrano vicine ad un punto di rottura, anche se la situazione appare tutt’altro che irrimediabile, come hanno dimostrato le dichiarazioni contrastanti del ministro degli esteri russe, minacciose contro Bruxelles, e quelle del suo portavoce, che le ha, in parte smentite. L’attuale stato, molto problematico, tra le due parti, è dovuto alla risposta repressiva da parte della polizia russa nei confronti delle manifestazioni avvenute nelle piazze del paese russo da parte dell’opposizione. Le dure critiche dell’Unione verso il Cremlino hanno provocato una strategia di Mosca che ha come obiettivo quello di anticipare le possibili mosse ufficiali di Bruxelles. Alla concreta possibilità che l’Europa voglia imporre nuove sanzioni alla Russia, il governo di Mosca potrebbe controbattere con la rottura totale delle relazioni diplomatiche. La minaccia rivela lo stato di assoluto timore di Mosca per sanzioni che potrebbero riguardare settori nevralgici per l’economia russa e ne mette in risalto una debolezza diplomatica, che consegue ad una crisi interna sempre più grave. La possibilità di una rinuncia unilaterale alle relazioni con l’Europa appare come un tentativo estremo di evitare un isolamento che sarebbe il risultato di nuove sanzioni da parte europea; questo fattore si unisce anche alla necessità di dimostrare una potenza ed un peso internazionali, che appaiono in declino, soprattutto nello scenario continentale. Per Putin appare fondamentale riguadagnare posizioni all’estero per rinforzare la propria posizione in patria e questo intendimento potrebbe essere compromesso con una condanna internazionale non solo a parole, ma perseguita con fatti concreti come delle nuove sanzioni, che andrebbero ad aggiungersi a quelle già presenti. In realtà le minacce russe hanno evidenziato come le istituzioni europee si siano trovate impreparate alla reazione di Mosca ed abbiano reagito con preoccupazione ma anche con risentimento verso l’Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza dell’Unione, a causa di una condotta contraddittoria nella recente visita nella capitale russa. Le critiche all’Alto rappresentante sono giustificate per mancanza di un atteggiamento più deciso nei colloqui con il ministro degli esteri russi, che ha reso evidenti le perplessità sull’incarico conferito; tuttavia senza le minacce russe, probabilmente queste critiche non sarebbero emerse in maniera così netta, tanto da determinare anche la richiesta delle dimissioni proprio da parte di alcuni paesi europei. Peraltro le minacce di Putin hanno sortito l’effetto di una posizione ufficiale europea tendente a scongiurare la rottura delle relazioni diplomatiche, soluzione maggiormente voluta dallo stato tedesco. Il risultato del capo del Cremlino dovrebbe però essere provvisorio, appare impossibile, infatti che l’Europa limiti la sua condanna alle repressioni russe senza il seguito di fatti concreti, anche in ragione della presenza sulla scena internazionale del nuovo presidente americano, che ha rivendicato un maggiore ruolo per gli USA nei confronti del rispetto dei diritti. Il coordinamento tra Washington e Bruxelles non può non passare per una condanna verso Mosca, ma è legittimo pensare che in questo frangente la Casa Bianca lasci l’iniziativa all’Europa, che deve stabilizzare le proprie posizioni di autonomia faticosamente acquisite durante la presidenza Trump. L’intenzione di Biden è lasciare autonomia politica all’Unione per instaurare un rapporto paritario nel quadro di collaborazione e difesa comune, che, tra gli altri, ha proprio nella Russia uno degli obiettivi principali. Il compito europeo quindi sarà di mantenere la propria fermezza contro le repressioni russe, senza tralasciare una soluzione diplomatica soddisfacente per entrambe le parti, ma che non deve risultare come subalterna alle minacce di Mosca.   

Il problema della frontiera Irlandese come fattore di destabilizzazione

Il controverso problema della frontiera irlandese, nel quadro dell’uscita del Regno Unito dall’Unione, è stato subito al centro di preoccupazioni da entrambe le parti; la questione del ripristino della frontiera tra le i due stati sull’isola d’Irlanda riguardava e riguarda lo storico problema del conflitto tra repubblicani e monarchici e tra cattolici e protestanti: avere superato la linea di confine è stato uno dei fatti determinanti per il termine del conflitto. L’abbandono di Londra a Bruxelles avrebbe voluto come logica conseguenza il ripristino della frontiera tra Eire ed Irlanda del Nord, con tutte le conseguenze temute e scongiurate da quando è stato firmato il trattato di pace; tuttavia Bruxelles non poteva tollerare una strada preferenziale al commercio inglese, da ambo i lati, attraverso Dublino. La soluzione è stata quella di istituire dei controlli doganali in due strutture portuali nordirlandesi per non ricomprendere Belfast all’interno dell’Inghilterra, evitando anche la dicitura Gran Bretagna perché l’Irlanda del Nord è collocata al di fuori del trattato della Brexit. Una soluzione che la premier londinese precedente aveva fortemente evitato, ma che Boris Johnson non ha potuto che accettare di fronte alle richieste di Bruxelles per accelerare il negoziato. Di fatto il mare d’Irlanda è la frontiera con l’Unione Europea e su quel confine devono essere espletate le pratiche commerciali tra le due parti sovrane. Dal punto di vista pratico l’errore compiuto dall’Europa per tutelarsi contro la predita di quantitativi di vaccini, poi subito rientrato con il riconoscimento dello sbaglio da parte di Bruxelles, ha soltanto esasperato una situazione già molto critica, che ha registrato problemi all’approvvigionamento alimentare e nei confronti dei prodotti deperibili e di animali, per la lungaggine delle pratiche burocratiche. Queste difficoltà hanno determinato criticità per le catene dei supermercati alla prese con scarsi ed insufficienti rifornimenti. C’è anche stata la percezione che il premier britannico volesse sfruttare la situazione creata da queste difficoltà per superare la frontiera del mare d’Irlanda, proponendo ai ministri delle due nazioni irlandesi di concordare le pratiche doganali per velocizzarle, cosa che ha provocato la reazione europea, che si è concretizzata con la minaccia di una azione legale, che avrebbe visto Londra sicuramente sconfitta. Tutta questa situazione ha determinato un grave stato di tensione, alimentato dai movimenti politici filo-britannici, ma anche da quelli unionisti, che si è concretizzato nelle minacce ai funzionari doganali, tanto da determinare la risoluzione del ritiro, per ora temporaneo, del personale doganale di entrambe le parti. Occorre ricordare e sottolineare che la decisione della creazione della frontiera sul mare d’Irlanda è stato un provvedimento che i nordirlandesi hanno esclusivamente dovuto accettare, senza alcuna modalità democratica, subendo una gestione organizzativa, che ha avuto delle ricadute sociali e che ha modificato in peggio i loro standard di vita. Anche in sede parlamentare, a Londra, parte della stessa maggioranza conservatrice, che sostiene il premier inglese, sta chiedendo in maniera pressante la rinegoziazione della parte di accordo che riguarda la frontiera sul mare d’Irlanda o di rinunciarvi in maniera unilaterale. Per la capitale inglese, pur non trattandosi di una sorpresa, l’alto livello dello scontento non era previsto, maggiori problemi erano pronosticati dall’atteggiamento della Scozia o del Galles, che, tuttavia, sembrano solo rimandati. Il quesito della Brexit, ha polarizzato l’attenzione sull’Inghilterra e sulle sue ragioni predominanti, ma non ha tenuto conto di questioni delicate alla sua periferia, che investono, oltre alle esigenze pratiche, anche equilibri politici, che sono stati raggiunti con difficoltà e che non devono subire alterazioni per non ritornare a situazioni ad alto tasso di rischio sociale. Se Londra ha la parte più grossa della responsabilità a causa del suo agire per niente lungimirante e ripiegato da una voglia di sovranità fuori dal tempo, anche l’Europa, seppure in maniera minore, è apparsa forse troppo arroccata sulle sue posizioni e non ha cercato una modifica al negoziato capace di trovare una sintesi in grado di risolvere una situazione potenzialmente in grado di portare sconvolgimenti sull’isola irlandese. Resta la preoccupazione per il possibile disfacimento del Regno Unito, dopo Scozia e Galles, l’ipotesi di una Irlanda unita esce rafforzata dai problemi causati dalla Brexit e Londra rischia di rimanere confinata nei limiti dell’Inghilterra: un fattore preoccupante per gli equilibri occidentali.       

La Francia discute la legge contro l’islamismo radicale

La discussione che si avvia nell’Assemblea nazionale francese sul separatismo culturale e religioso, cerca di rafforzare la laicità dello stato perseguendo, contemporaneamente, il risultato di creare una regolamentazione dei culti religiosi e, in special modo, l’impatto che la religione musulmana, specialmente quella più radicale, ha prodotto sulla società francese. La questione è molto sentita sul suolo francese ed investe questioni fondamentali, come la libertà religiosa, il contenimento dell’isolamento sociale delle periferie, che spesso ha prodotto fenomeni terroristici di naturale religiosa, il controllo dei predicatori radicali, capaci di aggregare il malcontento sociale ed indirizzarlo contro l’impalcatura della società francese, attraverso la critica delle istituzioni. Si tratta di un insieme di fenomeni che si scontrano principalmente contro i valori fondanti della repubblica francese, come la tolleranza e la laicità, inquadrate in un contesto di democrazia, spesso in contrasto con le idee radicali espresse da parte delle comunità musulmane. Certamente l’obiettivo islamico non è dichiarato espressamente dalla volontà del disegno di legge, tuttavia i rapporti tra lo stato e le comunità cattoliche, protestanti o ebraiche, non registrano problemi tali da giustificare una legge sui culti e le associazioni religiose, dove è centrale il rafforzamento dei principi della Repubblica; questa esigenza è rivolta nei confronti della religione islamica, tanto da diventare una esigenza da regolamentare con estrema urgenza. Forse, anzi, su queste tematiche si è già in ritardo, considerando che gli episodi di violenza urbana, che hanno segnato il primo trimestre del 2020 e gli attacchi integralisti dei mesi di settembre ed ottobre scorsi, sono stati soltanto i fatti più recenti di un fenomeno più antico. Intanto si vuole colpire il proselitismo da parte degli imam più radicale, per consentire di contenere, innanzitutto, il possibile separatismo dalla società francese e la costituzione di zone dove la fedeltà alla Francia ed alle sue leggi diventa come sospesa, se non proprio rifiutata. Alla base di questo ragionamento c’è la consapevolezza che per le guide delle moschee più radicali ci sia una convinzione che la legge prevalente è quella islamica su quella della Francia, rendendo oggettiva la trasgressione del principio di territorialità della legislazione vigente; si tratta di una sorta di extra territorialità autoreferenziale inammissibile per qualsiasi stato sovrano. La strada scelta è quella di un rigido controllo giudiziario, di polizia ed economico, i finanziamenti esteri sono essenziali per la sopravvivenza di queste organizzazioni al di fuori del quadro costituzionale e la loro persecuzione ne è la logica conseguenza; la chiusura dei luoghi di culto, che non si adeguano alle normative statali e l’arresto di individui che non rispettano le disposizioni saranno le misure di deterrenza previste. La tutela delle vittime di queste associazioni radicali è un altro punto fermo delle intenzioni del disegno di legge: episodi come l’odio sociale espressi attraverso la rete internet saranno punibili, per evitare conseguenze  tragiche come accaduto recentemente in Francia contro docenti contestati per i loro metodi di insegnamento contrari alle ideologie islamiche più estremiste. Gli imam più moderati si sono detti favorevoli alla proposta di legge, trovando nelle intenzioni del legislatore una volontà coincidente di eliminare i gruppi radicali e permettere di presentare l’islam come una forma religiosa rispettosa delle leggi francesi. Più sfumati i commenti dei componenti delle altre religioni, che, seppure intravvedono una potenziale ingerenza delle istituzioni nella sfera religiosa non possono che essere concordi con la volontà di eliminare un concreto politico per la vita democratica. D’altra parte il legislatore non proibisce alcun culto, ma mira a contenere soltanto alcuni effetti potenzialmente molto dannosi per la società. Inutile dire che la Francia, con una legge del genere, apre la strada per una regolamentazione sovranazionale, in ambito europeo, per combattere un fenomeno pericoloso di separatismo ed affermazione tramite la violenza, che sembra destinato a crescere senza le adeguate contromisure, anche se per ora l’emergenza francese è ben oltre la situazione che si registra nel resto dell’Unione Europea, tuttavia la crescita del radicalismo ha riservato più volte sorprese sgradite che è consigliabile anticipare, senza, comunque, ledere la libertà di culto esercitata all’interno delle leggi vigenti e nel rispetto della società nel suo complesso.     

Unione Europea e Cina raggiungono un accordo per il riequilibrio delle relazioni commerciali

Parallelamente ai negoziati per l’uscita della Gran Bretagna, l’Unione Europea ha portato avanti una trattativa altrettanto complicata con la Cina, che ha avuto una durata ancora più lunga che di quella con Londra; dopo setta anni, infatti, Bruxelles e Pechino hanno concluso un accordo per riequilibrare le loro relazioni commerciali, fino ad ora sbilanciate a favore dei cinesi. La conclusione della trattativa dovrebbe permettere, finalmente, l’accesso alle aziende europee al vasto mercato cinese, eliminando anche le pratiche discriminatorie con le quali la burocrazia cinese vessava gli investitori europei. L’accordo verte su tre punti principali: l’impegno di Pechino ha garantire una maggiore trasparenza sui sussidi statali forniti alle imprese cinesi, per favorire maggiori condizioni di equità per la concorrenza, una direzione verso un diverso approccio delle istituzioni cinesi per garantire condizioni di parità tra le aziende locali e quelle europee ed, infine, un rallentamento del trasferimento tecnologico, che, fino ad ora, è stato uno dei punti di forza del sistema produttivo cinese. Indubbiamente questo accordo non risolve del tutto le problematiche del rapporto con il mondo produttivo cinese, ma rappresenta un progresso nei rapporti bilaterali, anche se dopo sette anni il risultato appare inferiore alle attese e non permette di recuperare il divario che questo tempo ha creato proprio a vantaggio di Pechino; tuttavia l’accesso ad un mercato enorme come quello cinese, soprattutto nel momento nel quale la politica economica e finanziaria del governo cinese ha voluto privilegiare il mercato interno, rappresenta una occasione troppo importante, in senso assoluto, sia in prospettiva futura, che inquadrato nell’attuale momento di difficoltà economica. Concretamente la Cina apre alla concorrenza settori come quello dei servizi cloud, della finanza, della sanità privata e dei servizi in materia ambientale e del trasporto, che erano totalmente riservate ad aziende locali; l’accordo apre anche nuove prospettive nel settore manifatturiero, che costituisce una quota di più del 50% del totale degli investimenti europei in Cina; anche nel settore dell’automobile, che rappresenta ampi margini si sviluppo grazie alla trazione elettrica, ci saranno nuove opportunità grazie alla graduale eliminazione dell’obbligo di creare società miste: particolare rilevante gli investimenti europei in Cina in questo settore rappresentano la quota del 28% del totale, destinato, quindi, a crescere con la nuova regolamentazione. Più controverse le reali applicazioni, che la Commissione europea avrebbe ottenuto dalla Cina circa il maggiore rispetto dell’ambiente e, soprattutto, a riguardo dei diritti del lavoro: già in passato Pechino si era impegnata su questi temi, senza, tuttavia, mantenere la parola data; questa volta tra le rassicurazioni verso l’Europa, la repubblica Popolare cinese ha promesso di volere adottare, seppure in maniera graduale, tutte le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, si tratta di un tema che dovrebbe essere decisivo per il raggiungimento degli accordi con la superpotenza economica cinese, sia dal punto di vista morale, che di pura convenienza economica per stabilire una parità di condizioni per l’accesso del mondo del lavoro, come componente determinante del processo economico. Queste considerazioni aprono un ragionamento complesso sulla convenienza dell’accordo con la Cina: stabilito che durante la presidenza francese nel 2022, saranno compiute ampie valutazioni sulle relazioni con il paese cinese, restano i dubbi, ampiamente espressi, per la repressione operata dal regime di Xi Jinping ad Hong Kong, nei confronti delle popolazioni degli Uiguri, del Tibet e nei confronti dell’opposizione interna, anche attraverso la persecuzione di giornalisti ed attivisti dei diritti umani. Dentro le istituzioni europee non tutti sono favorevoli a questo accordo, ad esempio il presidente del Parlamento europeo per i rapporti con la Cina, ha definito il trattato un errore strategico ed il principale alleato europeo, gli Stati Uniti, hanno espresso preoccupazione; se per l’economia l’accordo può essere considerato una opportunità, in una valutazione più generale non si può non dire che il paese con cui questo trattato è stato stipulato è una dittatura, che ha tutto l’interesse, sia economico, che politico, ad avere rapporti sempre più sicuri con il maggiore mercato del mondo ed a cercare di introdursi sempre più nella società europea. Il modello cinese è guardato con invidia da molta parte del ceto dirigente delle imprese e ciò costituisce un punto di forza per Pechino, che, al contrario, dovrebbe essere stimolata, soprattutto con la leva economica, ad avvicinarsi ai valori occidentali: non il contrario.   

Le questioni irrisolte di Londra dopo l’uscita dall’Europa

L’accordo raggiunto in extremis, tra Unione Europea e Regno Unito, aldilà delle dichiarazioni opportuniste del premier britannico, che ha sottolineato come il legame tra le due parti resterà comunque dal punto di vista emotivo, storico, culturale e strategico, segna la fine del travagliato processo di uscita di Londra dal progetto dell’Europa unita e rappresenta un fallimento per entrambe le parti, che solo il tempo dirà quali saranno gli effetti reali ed i relativi vantaggi e svantaggi. Le dichiarazioni trionfalistiche che provengono da Londra hanno soltanto un fondamento politico, naturalmente funzionale alla Brexit, grazie alla ripresa della piena sovranità di Londra, che senza i vantaggi, spesso ingiustificati, accordati da Bruxelles, avrà problemi di diversa natura sul piano economico già nel breve periodo, ma che potranno acuirsi in maniera più grave nel medio e lungo periodo e non potranno essere risolti da accordi bilaterali di piccola entità, come il recente patto commerciale tra Londra ed Ankara. Nonostante l’approvazione del testo concordato con Bruxelles sia molto probabile, la grande parte di popolazione contraria all’uscita dall’Europa è rappresentata dalla spaccatura presente nei Laburisti, che, seppure ufficialmente favorevoli, devono scontrarsi con una forte opposizione interna, a causa dell’accordo considerato fortemente sfavorevole per gli operai, dal Partito Nazionale Scozzese, dove la questione dell’uscita dal Regno Unito è tornata di attualità proprio per l’abbandono dell’Unione, dal Partito Liberal democratico ed infine dal Partito Democratico unionista. I dissidi maggiori, quelli che potrebbero dare più problemi, riguardano la questione della pesca, che ha tenuto a lungo bloccate le trattative, dove è ritenuta ancora eccessiva la presenza dei pescherecci dell’Unione nelle acque inglesi, fattore che viene percepito come una ingerenza ancora troppo forte sulla sovranità britannica; inoltre è presente e molto sentito, il problema delle esportazioni dal Regno Unito, che costituiscono una materia molto discussa fin dal 1973, anno di entrata nella Comunità Economica Europea, se Bruxelles intenderà applicare le normative europee, potrebbero verificarsi situazioni di mancata congruità, che danneggerebbero decisamente l’attività di esportazione. Queste condizioni hanno favorito nel settore un senso di sfiducia nel governo, che è accusato di scarso impegno su questi temi e, sostanzialmente, di avere tradito tutto il comparto produttivo delle esportazioni per raggiungere più in fretta il risultato della Brexit. Il peso maggiore nell’economia inglese è rappresentato dal settore dei servizi finanziari, un terziario avanzato che è prosperato proprio grazie all’integrazione europea; attualmente la borsa inglese verrà considerata alla stregua delle principali borse estere, come New York o Singapore, senza più godere dei vantaggi garantiti dall’Europa: il concreto pericolo è che su questo stato di cose non ci sia la variazione auspicata da Londra e ciò ridurrebbe di molto il giro d’affari del comparto finanziario nazionale che avrebbe sicuramente pesanti ricadute sul prodotto interno lordo nazionale. Infine la questione scozzese è il vero pericolo, perché potrebbe favorire una dissoluzione del Regno Unito, proprio a partire dal territorio scozzese, che potrebbe generare un effetto a catena con implicazioni anche per il Galles e l’Irlanda del Nord. La permanenza di Edimburgo nel Regno Unito è stata determinata, seppure con poca differenza, proprio dalla garanzia della permanenza nell’Unione Europea, venuta meno questa condizione, un nuovo referendum avrebbe un risultato probabilmente differente; proprio per questo motivo da Londra rifiutano una nuova consultazione popolare sull’argomento, decisione rafforzata dai sondaggi che danno i favorevoli all’indipendenza il 60% dell’elettorato scozzese. Oltre alla tradizionale esigenza di autonomia, l’opinione pubblica scozzese è scontenta per il trattamento che i prodotti locali diretti in Europa, subiranno in conseguenza della devoluzione inglese. Con le elezioni del parlamento scozzese previste nel 2021 un risultato fortemente favorevole agli indipendentisti metterebbe il governo di Londra in grave difficoltà. Per quanto riguarda l’esame che il Parlamento europeo si è riservato dalla lettura delle circa duemila pagine del testo dell’accordo, che verranno esaminate a partire dai primi giorni di gennaio, sono presenti diverse incognite sull’approvazione a causa dei giudizi sfavorevoli sull’accordo dovuti alla sensazione delle troppe concessioni verso Londra, soprattutto da parte di Parigi. La possibilità di un “No deal” non è completamente scongiurata: da una parte e dall’altra, ma in prospettiva i problemi di Londra sembrano troppi per un percorso agevole, anche in caso di approvazione da entrambe le parti.