La Cina sempre più attiva nella UE

La Cina continua la sua politica di espansione economica in Europa, forte della propria grande capacità di liquidità il colosso di Pechino approffitta delle debolezze create dalla crisi finaziaria dei membri UE. Dopo avere acquistato titoli di stato spagnoli ora tocca a quelli greci, la difficoltà di Atene è nota: la situazione di crisi costringe la Grecia ad essere una facile preda di chi dispone di ingenti quantitativi di liquidità; per la Cina è un’ulteriore occasione per entrare dalla porta di servizio nella zona di influenza dell’euro, la strategia non è casuale, il dibattito che imperversa sulla svalutazione della moneta cinese impone a Pechino strategie alternative per la propria politica economica e la leva della rivalutazione va azionata piano per non compromettere l’alto tasso di esportabilità delle proprie merci. Insinuarsi fin dentro l’euro permette al dragone cinese di combattere la battaglia economica dal di dentro della moneta più forte manovrando discrete fette di debito pubblico nella valuta più apprezzata e nel contempo anche il rapporto con il dollaro viene influenzato indirettamente. Non basta, l’accordo con la Grecia prevede anche l’uso del porto del Pireo come server della marina mercantile cinese, un concreto punto d’appoggio gestito direttamente nel cuore dell’europa, che facilita ancora di più il movemento delle merci prodotte da Pechino, una soluzione logistica di primordine. Quindi dopo l’azione in Africa per accaparrasi le materie prime, che continua con accordi favoriti dalla povertà dei paesi africani oggetto di attenzione, ora, complice la crisi finaziaria, si agisce direttamente sul vecchio continente, continuando l’operazione di colonizzazione economica del mondo. Di fronte a questo sviluppo l’Unione Europea appare impreparata ed al solito divisa, la mancanza di una azione comune e condivisa non si è accusata mai come ora, tanto che pare ormai insufficiente anche una singola azione comunitaria ancorchè condotta con tutti i requisiti necessari, è ormai evidente la necessità di un accordo più stringente con gli USA per limitare l’espansionismo cinese, in questo quadro dovrebbero essere riconsiderate le politiche eccessivamente liberistiche fin qui adottate per considerare di intraprendere una qualche strategia protezionistica.

Guerra di aiuti in Pakistan: le alternative alle soluzioni militari

La UE annuncia che il finanziamentoper gli aiuti umanitari per il Pakistan ammonta a 150 milioni di euro; tale finanziamento, sollecitato dall’ONU per fronteggiare l’emergenza va aldilà del puro aiuto umanitario. Siamo in uno stato diviso in tre, la parte al confine dell’Afghanistan risulta praticamente sotto il controllo diretto dei Talebani, la parte mediana è sottoposta ad una sorta di regime misto, dove il conflitto tra forze regolari e ribelli è una costante, infine nella sola zona della capitale vi è una autorità assoluta del governo in carica. I recenti disastri naturali hanno fornito ad Al Qaeda una nuova strategia per aumentare il proprio consenso: mediante il proprio braccio umanitario, missioni organizzatissime fornite di personale medico, cucine da campo e sostanziosi aiuti umanitari, i qaeddisti  hanno operato fattivamente portando concreti aiuti alle popolazioni colpite dagli eventi atmosferici, chiaramente insieme agli aiuti è arrivata anche la propaganda, che ha avuto gioco facile in territori già profondamente influenzati dall’estremismo islamico. La nuova strategia è però anche il segnale della necessità del cambio dei metodi dei Talebani, probabilmente il lavoro voluto da Obama, incentrato non solo sull’azione militare, ma anche sulla ricerca del consenso sul territorio, deve avere dato i suoi frutti. In quest’ottica deve leggersi la ricerca di finanziamenti occidentali da indirizzare verso il Pakistan, l’azione sociale è giustamente vista come complementare all’azione militare, oramai non più sufficiente da sola. L’importanza strategica della posizione del paese confinante con l’Afghanistan è sempre più vista come determinante  per l’esito della guerra ed anche i recenti sconfinamenti delle truppe NATO sul suolo di Islamabad lo testimonia.

Anni duri per L'Europa

La politica di contenimento del deficit pubblico che si sta cercando di intraprendere parte da un principio inequivocabilmente giusto e corretto. La crisi greca ha scottato troppo i governanti di eurolandia per non lasciare il segno. La strada che si sta per iniziare a percorrere prevede uno stravolgimento del modo di pensare e costruire i bilanci pubblici, si dovrà trattare di un capovolgimento addirittura della filosofia di costruire i budget dei capitoli di spesa. Non dovranno più essere previsti sforamenti delle previsioni, non solo, se ci saranno, le nazioni “colpevoli” saranno sanzionate mediante il prelievo da un fondo creato preventivamente con questo scopo esclusivo. La cosa non è da poco, significa limitare l’azione dei governi, che non potranno più, ad esempio, prevedere politiche di espansione economica per contrastare periodi di depressione mediante lavori pubblici, ci sarà una contrazione dell’emissione dei certificati del tesoro, che anzi dovranno essere uno strumento destinato a morire per non favorire l’incremento del debito. Si capisce come la resistenza di paesi che tradizionalmente usano questi strumenti per governare la propria economia sia strenua, ma il processo è ineluttabile, potrà avere delle attenuazioni, come la prevista riduzione della multa in caso di assenza o poca entità del debito privato, ma non potrà essere fermato, semmai essere soltanto frenato. Chiaramente ci saranno ricadute forti sulla vita dei cittadini, i governi dovranno ragranellare più soldi possibile per fare fronte ai nuovi limiti imposti, la prima via è senz’altro un’ulteriore contenimento della spesa pubblica, ma con quali implicazioni sul tessuto sociale? La seconda è un aumento obbligato delle tasse, anche qui si cammina sulla lama di un coltello: la classe media ha subito compressioni tali da chiedersi quale sia attualmente il suo perimetro, d’altro canto la tassazione ulteriore delle imprese avrebbe come unico risultato la compressione dei già scarsi posti di lavoro e neppure il tanto decantato aumento della produttività non sarebbe che una panacea perchè sottoposto a tasse crescenti. Resterebbero le rendite, capitolo non ancora troppo toccato in tutta l’unione, forse sarà il momento che cadrà questa fortezza, staremo a vedere. Esauriti questi strumenti consueti ci si dovrà affidare all’abilità dei politici, che dovranno essere sempre più bravi a creare politiche economiche con pochi mezzi, sperando non incorrano nella tentazione di gettarsi in alchimie quali l’uso di strumenti finanziari d’azzardo. La speranza è di una politica economica continentale sempre più con una guida centrale che coordini dall’alto l’azione economica dei singoli governi con provvedimenti di indirizzo chiari ed univoci.

Europa e debito pubblico

La UE prova a trovare un’intesa sul debito pubblico, quello che si delinea, aldilà degli interessi comuni sui quali esistono dichiarazioni di facciata, è uno scontro tra Germania e Francia. La prima è paladina della politica del rigore, anche in forza di un’exploit economico che, giunto ad una poltica economica afficace,  ne ha sostanzialmente sistemato i conti; dall’altra parte Parigi guida le fila dei paesi maggiormente indebitati che con i loro bilanci pesano negativamente sul bilancio complessivo dell’unione. E’ una battaglia innanzitutto sui principi di gestione del debito, quelle che si fronteggiano sono due visioni diametralmente opposte di intendere un bilancio statale. La visone tedesca tende verso un’operatività di manovra ben delineata, con paletti e staccati sicuri fuori dai quali il movimento finaziario non deve mai uscire, appare una politica di più lungo periodo che può garantire stabilità e margini di progresso per un ente sovranazionale che assomma dentro di se ben ventisette economie differenti con le proprie peculiarità e distorsioni, è chiaro che una regolazione ferrea appare come l’unico mezzo di governo per evitare pericolosi dissesti. I contrari alla posizione tedesca vogliono mani più libere nella gestione del debito pubblico per avere maggiore elasticità nell’affrontare le evenienze economiche man mano che si presentano, vogliono in sostanza un approccio diametralmente opposto alla rigidità auspicata da Berlino, tale visione è chiaramente più funzionale alle situazioni contingenti ma non può essere ricompresa in una visione a 360 gradi come dovrebbe imporre un quadro di alleanza basata non solo su di un lato politico ma sopratutto economico. Molto del futuro dell’europa si gioca su di questa contrapposizione, la continua evoluzione dell’economia globale impone scelte nette e veloci, la politica economica del vecchio continente deve dare risposte più rapide ma l’autoregolamentazione comune e condivisa pare essere la strada maestra per indicare quell’univocità dell’azione economica, che ormai pare improcrastinabile nell’agglomerato di nazioni  che si chiama Unione Europea.

Unione Europea: la Francia contesta il budget degli armamenti

La Francia solleva il problema del budget militare dell’Unione Europea: a fronte del riarmo a cui si assiste sulla scena mondiale, la UE taglia la spesa per gli armamenti. La tesi francese è che questo porterà ad un ridimensionamento oltre che del peso militare, anche di quello politico, con ovvie ricadute sia in termini di prestigio, e quindi diplomatici, sia intermini economici, peraltro strettamente collegati con i primi. La Francia, forse, tende a trasferire anche in campo europeo la propria classica “grandeur” e teme che la UE prenda un posto subalterno nella scena mondiale. Da un lato questo pare essere vero, militarmente non sembra possibile competere con gli USA e con la Cina che sembrano sempre più le due superpotenze con le quali il globo deve fare i conti, se se non con investimenti pesanti e continui, che permettano di potere affrontare qualunque scenario di guerra possa presentarsi; questo è visto come condizione essenziale per potere contare sempre di più sulla scena diplomatica e quindi economica: è, infatti, ormai risaputo, che il rientro economico che deriva da interventi militari (piani e commesse di ricostruzione) si guadagna solo con il massiccio dispiegamento di forze nel teatro di guerra interessato. Il postulato è questo: a maggiori interventi militari, sostenuti da corposi investimenti, seguono commesse che ripagano, con lauto guadagno, l’intervento militare dispiegato. L’indotto perverso che si è creato di fatto è ormai questo ed è chiaro che con una riduzione del budget sia implicita anche una riduzione dei guadagni. Peraltro la scelta della UE è dettata da una politica, specialmente in una fase di crisi come l’attuale, che tende a beneficiare altri settori rispetto all’armamento, giusto o sbagliato che sia la valutazione è questa. Esisterebbe un’altra strada per cercare il prestigio internazionale senza mostrare i muscoli e sarebbe rafforzare l’azione diplomatica comune, con una sola politica estera autorevole ed univoca, ma questa ipotesi per il momento è ancora osteggiata.

L'Islanda, un nuovo membro per la UE?

Probabilmente fra un anno l’Islanda potrebbe andare al referendum per entrare nell’Unione Europea; per ragioni culturali dovute all’isolamento fisico del territorio, il popolo islandese è orgoglioso del proprio isolamento, che, negli anni, tenedolo anche un poco in disparte dalla storia, lo ha preservato dalle invasioni e dalle guerre; non da quelle finanziarie, però. La grande crisi finanziaria del 2008 ha messo sotto una luce diversa  questo magnifico isolamento, per molti se ci fosse stata la protezione dell’ombrello comunitario avrebbe mitigato gli effetti nefasti del dissesto che ha duramente colpito l’isola. In Islanda esistono due grandi settori produttivi: l’agricoltura e la pesca; il primo è sempre stato considerato strategico per l’autonomia alimentare del paese, il ceto contadino è geloso custode delle tradizioni del paese e vede l’ingresso in europa come una serie di restrizioni e contingentamenti che ledono l’autonomia del settore, anche la pesca, l’altro settore trainante del paese non vede di buon occhio l’affiliazione all’unione, infatti grazie al deprezzamento della moneta locale sono aumentate le esportazioni incrementando il guadagno del comparto, anche in questo caso le quote ferre comunitarie fanno temere un calo dei guadagni. Gli europeisti portano a favore dell’ingresso in europa i benefici derivanti dai controlli finanziari, dal sostegno alla ricerca, all’energia ed alla sicurezza; ed anche per quanto riguarda le obiezioni dei settori della pesca e dell’agricoltura viene controbattutto che le decisioni di Bruxelles verrebbero comunque concordate con un commissario islandese ed inoltre l’Unione Europea a fronte di contingentamenti della produzione interverrebbe con sussidi e finanziamenti. Per L’Unione Europea si tratterebbe del ventottesimo membro, forse non strategico, ma in grado di proseguire il processo di unificazione in ambito continentale.

Europa e rom: il summit bulgaro-romeno

I capi di stato di Romania e Bulgaria hanno dato vita ad un summit sul problema dei rimpatri dei rom in relazione all’entrata in vigore dei loro paesi all’accordo di Schengen. Si tratta del primo incontro del genere trai due paesi coinvolti nei rimpatri forzati decisi dal governo francese. I due capi di stato hanno concordato che stabilire una espulsione sulla base del criterio etnico è inaccettabile, ed inoltre la questione delle minoranze non può essere una materia ostativa all’adesione del trattato di libera circolazione, ma il problema dei rom rimane , l’auspicio è una soluzione a livello europeo che preveda progetti di lavoro, assistenza medica e scolarizzazione dei minori, con le istituzioni comunitarie direttamente coinvolte. Il presidente bulgaro ha sottolineato che quando il rom è stanziale non può essere ritenuto nomade per il solo fatto di appartenere all’etnia rom. Sostanzialmente è stato un incontro positivo a cui occorrerà verificare se le istanze dei due stati saranno recepite dalla UE; politicamente invece si hanno avuti due giudizi differenti causati dall’appartenza partitica dei due presidenti: il premier bulgaro, di provenienza centro-destra ha specificato di non avere avuto problemi con Sarkozy, mentre il premier romeno, di centro-sinistra, ha criticato l’operato francese.

Al Qaeda versus Francia (ed Europa)

Il rapimento del personale francese della società AREVA, che gestisce le miniere di uranio del Niger, è un colpo strategico non solo all’economia di Parigi, ma anche agli altri paesi europei a cui la Francia vende l’energia elettrica (Italia,  Spagna, Inghilterra e Germania). Questo atto terroristico appare avere come scopo minacciare il cuore economico dell’Unione Europea attraverso il principale produttore di energia nucleare, il fatto ha anche valenza simbolica si cerca di colpire un produttore di energia nucleare come l’occidente che, di fatto concorre, all’impedimento per fare partire l’Iran con i reattori nucleari. La situazione della scelta dell’obiettivo deve fare riflettere, Al Qaeda non ha colpito a caso: in questo momento la Francia appare debole nel teatro internazionale per i fatti delle espulsioni dei rom, ed una ulteriore esposizione sulla scena mondiale ne fa un soggetto debole in un momento dove occorrerebbe un basso profilo e non essere al centro della scena. Nonostante il riserbo mantenuto filtrano notizie su di una azione militare condotta da forze francesi d’elite  su suolo straniero, l’intervento, peraltro autorizzato per la prima volta in 25 anni, dal Niger, mette la Francia in una sovraesposizione mediatica in questo momento non opportuna. Intanto sul territorio nazionale la nazione transalpina vive una in uno stato di psicosi da attacco terroristico, le minacce di Al Qaeda sono ritenute reali e tutti i dispositivi di controllo sono allertati al massimo grado dopo gli avvertimenti seguiti al fallito attacco compiuto con la Mauritania contro la base qaeddista in Mali. E’ comunque chiaro che la Francia, pur essendo l’obiettivo principale, non è il solo, l’uranio scarseggia e le miniere del Niger che riforniscono i reattori francesi sono spesso oggetto di attacchi da parte della guerriglia quindi  tendono, in ultima analisi a creare problemi ad uno dei motori dell’economia europea. Questo fatto segna un cambio strategico delle azioni terroristiche alzando il livello degli obiettivi e le conseguenze delle azioni, per ora i tentati sabotaggi sono ancora marginali ma non è da escludere un’escalation verso obiettivi più ambiziosi come gli oleodotti che numerosi attraversano zone che possono finire sotto il controllo o comunque permettere l’azione dei qaeddisti.

La sinistra che scompare

La debacle del partito socialdemocratico svedese è l’ennesima spia della difficoltà dei partiti laburisti e di sinistra nell’arena politica europea. La sconfitta in Svezia è solo la punta dell’iceberg, ma molto significativa essendo maturata nella patria del modello svedese quello della socialdemocrazia per antonomasia. Il dato è comune nell’area europea, infatti solo sei paesi su ventisette sono governati da partiti o coalizioni di sinistra, quali sono le cause comuni che hanno caratterizzato questo trend continentale? La politica economica delle coalizioni di centro sinistra è stata caratterizzata dall’antitesi delle teorie redistributive del reddito prediligendo vie a metà tra il vantaggio dei grandi gruppi finanziario-industriali e le privatizzazioni spinte, generando ulteriore diseguaglianza sociale anzichè esercitare una azione mitigatrice sulla forbice dei redditi. Tali effetti sono stati amplificati da una delle più grosse crisi economiche avvenute negli ultimi decenni. Lapercezione degli elettori di sinistra (o centrosinistra) è stata un misto di delusione per aspettative non rispettate, l’imperizia dei governanti che in alcuni casi  hanno rasentato il dilettantismo e per l’evidente tradimento dei programmi elettorali. Anche la situazione sociale non è stata governata a sufficienza, non sono stati cioè capiti quei problemi e quelle istanze legate all’immigrazione, talvolta clandestina, e con la connessa criminalità che ha infestato l’Europa, si è preferito proseguire una politica quasi permissiva senza risolvere con il giusto rigore e con una azione politica univoca il crescente disagio della cittadinanza indigena. Con questi presupposti per le coalizioni avversarie è stato facile inserirsi nelle maglie dell’elettorato deluso e spostare a destra la barra dell’Europa,  con conseguenze non troppo positive anche per l’Unione, giacchè le posizioni dei partiti di centrodestra, sopratutto dei nuovi membri, non sono mai state tradizionalmente europeiste.

Diplomazia dilettante?

Uno spettro di diplomazia si aggira per l’Unione Europea, il trattamento della questione dei rimpatri dei rom, per il quale in questa sede non si vuole dare un giudizio di merito, con le discussioni aspre ed il dibattito non certo diplomatico che ne è seguito sparge sale sulle ferite aperte del gestione dei rapporti tra gli stati membri e tra gli stessi stati e le istituzioni internazionali. Per prima cosa lo spettacolo è stato indecoroso, non è ammissibile un metodo tale della gestione della controversia, non è possibile che manchi una forma istituzionale che permetta di dirimere la questione nel rispetto dei modi e delle forme che dovrebbero caratterizzare i rapporti internazionali, non solo, tali forme dovrebbere essere un dato di fatto certo tra paesi di una stessa organizzazione internazionale e tra di essi e le proprie figure istituzionali. Viene il dubbio di essere davanti ad una mancanza di conoscenza conclamata, non solo delle forme ma anche del protocollo che deve essere seguito in tali occasioni.  Ne consegue un sospetto atroce: a chi è in mano la diplomazia comuntaria per i rapporti al proprio interno? Siamo davanti ad una accozzaglia di dilettanti incapaci di mantenere su di una via consueta i rapporti diplomatici? Il sospetto è legittimo, ma esiste anche un’altra possibilità si vuole seguire una tattica di rottura che implichi scenari futuri? Una tattica politica che voglia delegittimare le istituzioni europee per carpirne le competenze e favorire determinate spinte contrarie al centralismo? La questione è di fondamentale importanza per la funzione politica dell’Unione, è chiaro che i paesi membri sono 27 e le risultanze elettorali dei singoli paesi sono diverse e non è stata ancora metabolizzata nelle nazioni la spinta europeista che dovrebbe accelerare il processo di unione, ma è ora di fare chiarezza sul dove si vuole andare, cioè su quale ruolo e funzione deve assumere l’Europa di fronte agli scenari mondiali ed alla velocità di cambiamento che contraddistingue la fase storica attuale; rapportarsi in questi modi, seppure di fronte ad una questione come quella dei rom che implica diritti fondamentali del cittadino europeo e che dunque,  giustifica battaglie di principio (vale per entrambe le parti), non è un segnale incoraggiante.