La Russia torna in Afghanistan

Il ritorno della Russia in Afghanistan è sempre più vicino e stavolta di fianco alla NATO. La notizia è clamorosa ma è già preceduta da accordi per forniture all’alleanza di Bruxelles di elicotteri; quindi il dialogo è iniziato, per Obama un’alleato in più che potrebbe essere decisivo  militarmente nella lotta contro i Talebani, tuttavia questi ultimi potrebbe sfruttare a loro favore con la popolazione il cattivo ricordo lasciato dall’Armata Rossa, peraltro già sconfitta una volta. I Russi con questa manovra ammettono di temere ancora una volta, il pericolo talebano e la minaccia dell’invasione dell’islamismo estremo. Mosca teme che un progressivo sganciamento della NATO e degli USA, congiunto anche ai recenti sviluppi di politica interna (coinvolgimento dei talebani nel processo di pace) e internazionale (accordi Afghanistan  con l’Iran) porti alle sue frontiere pericolosi focolai di tensione capaci di  influenzare i paesi islamici al suo confine in funzione anti russa. La minaccia è concreta, il peso dei Talebani non accenna a diminuire grazie anche all’abilità giocata su più fronti: militare, sociale, politico e strategico. Un’altro fattore che ha deciso la discesa in campo della Russia è la volontà di bloccare il traffico di eroina che affluisce attraverso l’Afghanistan sul suo territorio e che costituisce un grosso canale di finanziamento per la parte talebana. La NATO acquisisce maggiore libertà di movimento per le sue truppe, che possono ora sfruttare le vie russe per aggirare i ribelli, questo fattore può, in parte bilanciare, la capacità di manovra che i Talebani detengono grazie alla disponibilità del territorio pakistano al confine con l’Afghanistan, territorio, che salvo in pochi casi sporadici, non è mai stato toccato dall’alleanza atlantica per non violare la sovranità di Islamabad. L’ingresso della Russia segna un punto di svolta nel conflitto afghano, il ritorno di Mosca può essere di buon auspicio per le relazioni con il patto atlantico, viceversa si possono incrinare quelle con i paesi islamici per i quali la Russia poteva fungere da cuscinetto per duri contrasti con l’occidente, in ogni caso è meglio che Mosca sia dalla parte occidentale.

Le tendenze autonomistiche nella UE

Il Presidente della UE, il belga Van Rompuy, interviene sul dibattito politico in corso nel suo paese sull’intenzione di dividere lo stato di Bruxelles da parte dei Fiamminghi. Van Rompuy critica la volontà di creare una regione con criteri ispirativi al di fuori dei canoni dell’europa unita, di non essere i fiamminghi, in sostanza, un partito, che, seppur nazionalista, non sia europeista. Il fatto si inquadra nella tendenza sempre più presente nel vecchio continente dei movimenti partitici con grande spinta localistica principalmente avversi all’Unione Europea. La nascita di questi movimenti ha caratterizzato i due decenni precedenti in tutto il continente mentre nel contempo si sviluppava la spinta unitaria europea dietro le direttive degli stati centrali. Tra i motivi dell’affermazione dei nuovi partiti localistici vi è sempre stata una certa avversione alla UE ed alla moneta unica perchè ritenuti troppo costrittivi della libertà dalla nuova burocrazia centralista di Bruxelles percepita come ulteriore fattore di blocco alle autonomie oltre ai già presenti paletti provenienti dai rispettivi stati centrali. Le regole rigide messe dall’Unione Europea, non solo in materia economica, sono state vissute come vere e proprie ingerenze nella vita quotidiana dei territori dove la spinta localistica è stata maggiore, tanto da portare alla nascita, prima di movimenti e poi di veri e propri partiti politici capaci di influenzare la totalità della vita politica dell’intero soggetto statale. Questi partiti hanno sempre contestato l’Unione Europea salvo poi lottare all’interno dei singoli stati per accappararsene i contributi a favore dei “loro” territori. Tuttavia sarebbe sbagliato congedare frettolosamente queste istanze senza cercare di capirne le ragioni per incanalare aspirazioni anche comprensibili nell’alveo comune della casa europea. Si può benissimo concepire l’unione non solo come insieme di stati ma anche come entità superiore capace di riconoscere le peculiarità di determinati territori caratterizzati da particolari emergenze storiche e culturali da ricomprendere e valorizzare nel quadro di una unione capace di valorizzare le differenze per esaltarle; gli strumenti legali e normativi ci sono, occorre sviluppare il sentimento europeista con interventi ad hoc che spengano la spinta localista con tendenza isolazionista e generino occasioni favorevoli nella vita pratica delle persone in modo da ridurre la distanza  tra le comunità ed il centro istituzionale.

La Serbia candidata all'ingresso nella UE

La UE accetta di esaminare la candidatura della Serbia per l’ammissione all’unione, si tratta di un passo importante per entrambe le parti, per l’Unione l’ammissione della repubblica di Belgrado significa inserire nel suo “organico” un membro storicamente appartenente alla cultura europea di grande tradizione ed importanza strategica sia politica che economica ed anche militare; per la Serbia si tratta di entrare dalla porta principale in Europa con tutti gli annessi e connessi del caso sia politici ma sopratutto economici consistenti nei vantaggi della libera circolazione delle merci e l’accesso ai finanziamenti e contributi europei. Ma non tutti sono favorevoli, per ora, al nuovo membro, la tradizionale avversione dei Paesi Bassi e di una buona parte dell’opinione pubblica europea costituisce ancora un ostacolo di difficile aggiramento a causa degli strascichi della guerra balcanica sui quali non sono stati fatti grossi passi avanti; uno dei principali nodi della questione è la mancata estradizone del generale Mladic, considerato criminale di guerra, che trova senz’altro rifugio in patria, ciò è connesso con l’accusa, per Belgrado, di scarsa collaborazione per i fatti dell’ex Yugoslavia con il Tribunale Penale Internazionale. La Serbia è sotto osservazione anche per i focolai estremisti e nazionalisti che si agitano nei suoi confini, occorre ricordare che nella UE, 22 stati su 27 riconoscono il Kosovo come indipendente mentre gli altri lo considerano come provincia autonoma serba, quindi il tema del Kosovo rischia di costituire motivo di attrito tra gli stessi membri dell’unione e tra i membri che lo riconoscono indipendente e la stessa Serbia. D’altro canto è vero che numerose industrie appartenenti alla UE sono presenti in Serbia (tra cui la Fiat) ed avrebbero convenienza a velocizzare la circolazione delle merci. Il processo di integrazione sarà senz’altro lento, troppe sono le variabili politiche ed economiche da affrontare nel negoziato, necessariamente le parti dovranno cedere qualcosa, anche se sarà la Serbia a dovere fare le maggiori concessioni.

L'Europa investe in America Latina

La UE finanzierà lancia un fondo finanziario in Uruguay per la costruzione di infrastrutture per l’America latina, l’investimento serve per dotare e migliorare le regioni più interne del continente sudamericano del sistema di collegamenti viari, necessari per uno sviluppo economico autosufficiente. L’operazione avviene è in un contesto dove la povertà  è endemica nonostante le grandi risorse presenti, non è un’investimento a fondo perduto o esclusivamente sociale, sebbene le implicazioni siano anche dare una prospettiva ai popoli di quelle zone periferiche, ma anche e probabilmente sopratutto un investimento che prevede un ritorno per l’economia europea, tramite l’attività di industrie ed aziende dell’Unione Europea. Siamo in un ambito territoriale di grandi potenzialità per le risorse naturali presenti e che ha iniziato a  registrare uno sviluppo sociale consistente ma non ancora compiuto, le possibilità di espansione di un mercato interno redditizio per la produzione in loco si sposano con i possibili ritorni sia per lo sfruttamento delle materie prime che per nuovi sbocchi dove convogliare la produzione delle aziende europee. L’investimento si muove, quindi, in un terreno alternativo dove il dragone cinese non ha ancora radicato i suoi artigli in maniera consistente, in questo quadro la mossa dell’Unione Europea è densa di significati perchè operata in un’ottica di unità di intenti lodevole, che lascia ben sperare, perlomeno nella programmazione degli investimenti, è auspicabile allargare questa unità per ottenere ancora più risultati in ambiti di più pressante risoluzione

La UE, l'ecofin ed il veto della Gran Bretagna

Ancora distanti i paesi europei sulle norme e la strategie da seguire per la definizione del patto di stabilità. La posizione di Londra è tra le più dure, il patto Parigi-Berlino, già inviso per definizione causa ragioni nazionalistiche più antiche, è visto come un trasferimento di poteri da Westmister a Bruxelles, la Gran Bretagna, tradizionalmente avversa a rinuncie di prerogative ed unioni, peraltro praticate più per necessità che per reale convinzione (vedi la UE), va verso il veto all’intesa ecofin. In casi come questo si evidenzia la mancanza normativa della UE, che non prevede sanzioni o ammonimenti, a chi vuole stare dentro l’Unione senza sostanzialmente adeguarsi alle decisioni centrali. D’altronde è già anomalo che esistano paesi dentro la UE che facciano parte della alleanza politica ma non di quella monetaria, tale fatto è un controsenso in termini, quale affidabilità può dare, in materia di politica economica comune un paese che non rientra materialmente nell’euro? Per andare avanti occorrono decisioni nette ed anche impopolari, avere paura di muoversi contro il prestigio politico, ad esempio della Gran Bretagna significa esserne in ostaggio, significa che tutte le decisioni in materia economica non saranno mai  del tutto autonome. Sarebbe necessario un out-out: o dentro con tutti gli annessi e connessi del caso o fuori del tutto; un’unione senza la moneta comune è un’unione incompleta perchè consente a chi non rientra nell’euro una libertà di manovra superiore a chi vi è dentro, facendone però ricadere i costi all’interno dell’alleanza politica. E’ il momento di rendere più forte la UE anche con decisioni forti, è necessario investire nella comunanza degli obiettivi e della condivisione totale degli scopi, nessuno è obbligato a condividerli a discapito della totalità.

Vaticano e Israele: rapporti difficili

Il Vaticano opera una sterzata storica sul problema palestinese esprimendo solidarietà al popolo palestinese ed affermando pubblicamente che l’occupazione israeliana genera il fondamentalismo. L’affermazione comprende due implicazioni, il riconoscimento ufficialee ribadito alla necessità di uno stato palestinese di pari dignità con lo stato ebraico, opzione peraltro da sempre caldeggiata oltretevere, e la condanna ai metodi isreaeliani che sottende ad una preoccupazione sempre crescente, oltre che di un’inasprirsi del conflitto, anche di una possibile  espansione del fondamentalismo più acceso, ipotesi molto temuta perchè compromissoria del dialogo tra le confessioni.  Il Vaticano ha più volte manifestato la preferenza per l’esistenza di due stati sovrani con Gerusalemme territorio indipendente, data la peculiarità religiosa della città, questa scelta può nascondere l’interesse a candidarsi come possibile  guida della parte cristiana, opzione però più volte osteggiata dello stato Israeliano che non intende avere come vicino di casa, in una qualche veste ufficiale un soggetto ingombrante come il Vaticano.  Le frizioni tra Israele e Vaticano non sono cosa nuova ma ora pare di essere ad un punto di svolta per quanto riguarda i rapporti diplomatici tra i due stati e la solidarietà al popolo palestinese così palesata non fa che allontanarli ulteriormente.

Il pericolo della svalutazione

La situazione economica mondiale ruota intorno al problema valutario, è in atto una folle rincorsa al deprezzamento, si pensa che con una politica di svalutazione si possa produrre la medicina in grado di frenare la crisi. Se questo può essere vero, ma è solo una probabilità, nel breve periodo, nel lungo la medicina si rivelerebbe peggiore del male. Perchè insistere ancora sulla svalutazione? Sembra l’ultima spiaggia di governanti senza più risorse; il Giappone, ad esempio, che è ricorso ad una svalutazione massiccia della sua moneta per vendere quantitativi maggiori della sua merce cosa farà quando dovrà acquistare le materie prime per la sua produzione industriale? Anche gli USA sembrano indirizzati su quella strada e ciò desta preoccupazione nell’intero occidente perchè quello che si può profilare è un blocco ulteriore alla locomotiva economica, che da traino si trasformerebbe in freno. Gli USA hanno un declino industriale che dura da 40 anni ed hanno risposto alla capacità industriale cinese con la finanza, come sia finita è noto a tutti, non invertire la rotta significherebbe un pericolo latente su tutto il mondo occidentale che, dal punto di vista economico è americocentrico, ma come pagare le materie prime con un dollare deprezzato? Inoltre ciò comporterebbe la caduta di influenza di Washington e le prossime riunioni dei vari G potrebbero essere altri ad organizzarle. Gli USA tentano di bilanciare la loro debolezza pressando la Cina ad una rivalutazione della loro moneta ma è una partita persa: le grandi riserve valutarie di Pechino non danno grandi spazi di manovra su questo fronte, senza l’avvallo cinese questa strada non è percorribile, d’altronde non è la Cina la sola causa dei mali economici occidentali: infatti i governi di UE e USA farebbero meglio a cercare di risolvere il problema del deficit pubblico, non più procrastinabile, vero investimento del futuro anzichè cercare con mezzucci quali la svalutazione risultati di effimero valore.

Ricatto sul burka per la Francia

Con il ricatto di non vietare il burka in Francia, Al Qaeda fa un salto di qualità nella propria strategia terroristica; infatti oltre alle azioni militari contro obiettivi sensibili, alle normali richieste economiche di riscatto ora siamo alle richieste sul fronte della legislazione di un singolo paese sovrano. Il dibattito sull’uso del burka, non solo sul suolo francese ma in tutto il mondo occidentale, è materia di discussione anche accesa, non solo tra occidentali e musulmani, ma anche tra gli stessi occidentali: vietare un capo di vestiario può ledere o meno i diritti soggettivi della persona o, a sua volta, proteggere il diritto generale, secondo i diversi punti di vista. La questione non è semplice, visto che coinvolge valutazioni di diversi livelli è non è qui la sede per approfondirli. Il problema è l’ingerenza diretta nell’elaborazione delle leggi di uno stato, giuste o sbagliate che siano, da parte di un soggetto non solo esterno, ma neanche dotato di autorità internazionale riconosciuta; il fatto, poi, che sia una entità terroristica è solo un’aggravante in più. Non è certamente pensabile che la Francia possa, non solo cedere, ma neppure fare concessioni o deroghe, in forza di questo ricatto, alla legge che sta elaborando. Il rischio di creare un precedente da applicare in successive azioni terroristiche anche ad altri stati occidentali è concreto, anche se è chiaro che ogni stato è sovrano sul proprio suolo, la sola possibilità che si creino ulteriori evenienze di questo tipo vorrebbe dire mettere sotto continuo attacco l’intero sistema legislativo occidentale. E’ certamente un’eventualità remota ma non così impossibile, si tratta cioè di un pericolo altrettanto grave di azioni terroristiche cruente, anche se più sottile; ed è questa sottigliezza che determina il salto di qualità, sembra che la regia del movimento terroristico di Al Qaeda o sia cambiata o comunque si sia evoluta. Occorre ricordare lo sforzo in aiuti umanitari compiuto sotto il proprio nome in Pakistan, prima novità messa sullo scacchiere, ora con la richiesta di fermare una legge di uno stato sovrano un’altro passo in avanti si è compiuto. Il compito degli analisti è studiare questa evoluzione e prevedere i futuri sviluppi, il compito degli stati e delle organizzazioni internazionali è di non lasciare sola la Francia in questo frangente ed elaborare una strategia finalmente vincente del fenomeno terroristico.

Integrazione: sfida di crescita per l'Europa

Dove sta andando l’Europa sui temi dell’integrazione? La domanda è sempre più di attualità vista la direzione che si sta prendendo nelle decisioni politiche dei vari stati. E’ qui inutile fare un excursus sui fatti di attualità, che sono ben conosciuti da tutti; certo alcuni casi sono più eclatanti e mantengono su di essi i riflettori più di altri, come il caso francese sui rom o, da ultimo, l’ingresso di un partito dichiaratamente xenofobo al concorso per la formazione del nuovo governo olandese, tuttavia quella che deve essere ricuperata è una visione d’assieme capace di affrontare il problema in maniera fattiva. Infatti una continua analisi dei singoli fatti fa apparire una visione frammentata quando è necessario, invece capire i fattori comuni che portano alla radice del problema. Non si tratta di un mero esercizio accademico di materia sociologica, quello che è in gioco è il futuro della convivenza nel territorio degli stati europei, processo ineludibile e impossibile da bloccare. Gli effetti della globalizzazione, nonostante gli sforzi continueranno a riversare persone nei nostri stati con culture e tradizioni diverse con le quali si dovrà convivere; favorire i processi di integrazione dovrà sempre più essere materia di intervento nelle varie articolazioni di cui si compone uno stato, soluzioni di forza non saranno più sufficienti a governare il fenomeno come modus operandi consueto ma dovranno essere l’ultima ratio. E’ chiaro che per perseguire processi di integrazione efficienti e condivisi si dovrà investire in tempo, denaro e materiale umano, trovando sempre nuove soluzioni duttili e flessibili ma sopratutto veloci dato che la mancata integrazione genera costi indotti sempre maggiori e sempre meno sostenibili sia dal punto di vista economico che sociale. Le differenti visioni politiche destra e sinistra rischiano di fossilizzarsi in visioni opposte che non portano ad alcun risultato, se da un lato le forze conservatrici tendono ad affrontare il problema con soluzioni di forza dall’altro lato si tende a troppo permissivismo, questa visione è certamente semplicistica ma vuole inquadrare le linee guida che si sono affermate nella gestione del processo; quello che è sempre mancato è una legislazione articolata in diritti doveri che ponga al centro della questione la singola persona in quanto tale e non la massa di immigrati in quanto tale vista come un insieme informe di individui; porre al centro la persona con i suoi bisogni, la sua realtà ma anche con i suoi nuovi doveri significa stimolare la nuova realtà di cittadino all’interno del nuovo paese permettendogli la creazione di una nuova identità in cui riconoscersi. Deve essere questo il nuovo paradigma  e la nuova sfida con cui i governanti devono confrontarsi, il punto di partenza per risolvere alla radice il problema.

Verso l'accordo UE-Libia per l'emigrazione

La Ue e la Libia hanno emanato un comunicato congiunto che annuncia la probabilità di una cooperazione per una fattiva soluzione del problema dell’emigrazione clandestina transitante dalle coste libiche. Il problema è spinoso quanto risaputo, da un lato la Libia usa la regolazione del flusso migratorio clandestino con l’intento di fare pressione sui paesi europei per strappare contratti e consenso internazionale, dall’altro lato del mediterraneo l’Europa si trova ad affrontare per provare a regolamentarlo, se non proprio a limitarlo, l’ormai principale canale via mare attraverso il quale i clandestini sbarcano sul vecchio continente. Le implicazioni sociali che ruotano agli accordi con la Libia sono più di una: innazitutto il trattamento riservato alla popolazione clandestina riservato dalle forze di Tripoli, è infatti risaputo con quali metodi vengono trattati i migranti e quindi la domanda che si deve fare la UE è se è moralmente lecito trattare da pari a pari con un governo che, perlomeno non usa metodi ortodossi, come più volte provato? E’ chiaro che si guarda la questione soltanto da questo punto di vista la risposta non può che essere negativa, ma esiste la questione pratica del rischio di essere inondati da carrette del mare con il povero carico di esseri umani allo sbaraglio. Gli stati devono governare questa questione anche perchè gli esecutivi sono sempre più sottoposti a pressioni da parte di gruppi certamente non disposti bene verso l’emigrazione clandestina, il problema è un serbatoio di voti potenziale e quindi la soluzione migliore è una gestione almeno regolata se non del tutto almeno nelle parti fondamentali direttamente dalla UE. Quello che viene previsto però prevede un piano che cerca di andare alla fonte dell’emigrazione, infatti lo stanziamento iniziale di 5 miliardi di euro per i paesi africani è destinato ad iniziare un programma di sviluppo che cerchi di favorire concrete possibilità di lavoro per i possibili migranti nei loro stessi paesi, questa via è l’unica percorribile anche se occorrerà controllarela destinazione effettiva dei finaziamenti. Per quanto riguarda la richiesta di Gheddati di 5 miliardi per stoppare i clandestini, è definitivamente tramontata, la Libia si accontenterà di 50 milioni di euro con l’impegno di un trattamento più umano dei migranti. Le premesse sono buone vedremo gli sviluppi.