L’Unione Europea deve prendere le distanze da Pechino ed avere un ruolo decisivo nella difesa dei diritti umani

I gravi rapporti tra USA e Cina non potranno non avere ripercussioni sugli equilibri internazionali, come, in parte sta già avvenendo; tuttavia occorre interrogarsi su quali sono gli aspetti e le ricadute e come questi influenzeranno l’Europa normalmente inquadrata nel blocco occidentale. Il vecchio continente, ed in particolare l’Unione Europea, stanno vivendo un periodo difficile dovuto a tensioni interne, causate dalla rigidità delle istituzioni di Bruxelles, dalla crescita dei nazionalisti e dalla presenza di posizioni contrarie, che sono culminate con l’abbandono del Regno Unito. L’Unione è sempre stato un punto fermo dell’Alleanza Atlantica, ma con la presidenza Trump i legami sembrano essersi allentati. Anche la politica economica americana, richiusa su se stessa, ha obbligato Bruxelles nella ricerca di altri partner, al di fuori delle scelte abituali. Risulta indubbio che gli USA hanno lasciato un vuoto a causa della politica isolazionista di Trump, che ha sottovalutato gli effetti di volere concentrarsi principalmente sulla politica interna, tralasciando le ricadute e gli effetti del disimpegno in politica estera, proprio sul bilancio complessivo della posizione americana nel mondo. Pechino, pur con tutte le sue contraddizioni, ha saputo abilmente sfruttare questa assenza anche in ragione di una disponibilità di liquidità molto ingente. Le crisi economiche del mercato più importante del mondo, l’Europa, sono state un grande alleato per la politica espansionistica della Cina, perché gli hanno permesso di stabilire degli avamposti entro zone in cui, prima, l’accesso era precluso. Sulla necessità ed anche convenienza di stipulare affari con Pechino, c’è poco da dire, tuttavia la consapevolezza di stringere legami con una dittatura non è mai stata esaminata troppo a fondo soltanto per meri calcoli di convenienza. La Cina ha instaurato una sorta di soft power economico basato sulla facilità di investimenti di cui al momento opportuno presenterà il conto; intanto ha guadagnato il silenzio quasi uniforme sulle repressioni degli uiguri, del dissenso politico e del mancato rispetto dei diritti umani. Attualmente gli Stati Uniti non sono un partner affidabile, tuttavia non possono essere paragonati alla Cina, malgrado la gestione maldestra e quasi autolesionista della politica estera, le continue pessime figure del suo presidente ed anche la mancata tutela a cui il popolo americano è stato sottoposto per il problema della pandemia. Ora per l’Europa il problema non è da che parte schierarsi, nonostante i disagi con gli USA, appare chiaro, proprio in conseguenza del peggioramento del comportamento cinese, sia nel caso di Hong Kong, che nella persecuzione dei dissidenti all’estero, che la permanenza nel campo occidentale non può essere messa in discussione; piuttosto per Bruxelles occorre avanzare nel guadagnare un ruolo sempre più importante come attore internazionale, in grado di criticare e sanzionare i comportamenti della Cina, ma non solo. Interrompere i rapporti con stati dittatoriali come la stessa Russia, peraltro già oggetto di sanzioni o l’Egitto e la Turchia, solo per citarne alcuni, deve diventare una priorità, oltre che un vero e proprio programma politico. La prima mossa deve essere quella di interrompere i contatti con Pechino per lo sviluppo della tecnologia del 5G, dove sarebbe meglio scegliere una soluzione alternativa ed interna all’Unione, proprio per la peculiarità e l’importanza delle comunicazioni. Assumere un atteggiamento di non subalternità agli Stati Uniti in materia militare è altrettanto importante per gestire direttamente crisi come quella libica, che riguarda da vicino tutto il continente. Per fare ciò occorre superare le differenze in materia economica e la strada dei bond europei sembra un ottimo inizio, fare delle pressioni e scelte anche nette nei confronti di quelli stati, come quelli dell’ex blocco sovietico, che non sembra abbiano recepito gli ideali europei (d’altronde se l’Unione è rimasta anche senza Regno Unito, può benissimo rinunciare a nazioni che hanno solo preso senza dare), allontanarsi dalla Cina, prima di tutto sul piano economico, perché, alla fine, l’Europa è più essenziale per Pechino piuttosto che il contrario. Essere accondiscendenti o fare finta di nulla sui diritti umani vuole dire avvallare queste politiche e si tratta di scelte che prima o poi si ritorceranno contro a chi le ha fatte. La presidenza tedesca può essere l’occasione per andare in questa direzione: l’autorevolezza tedesca, specie in questa nuova versione post pandemia, può aggregare le nazioni realmente interessate, ad andare verso un obiettivo comune ed accrescere il ruolo europeo nel panorama mondiale anche come punto di riferimento per la tutela e la difesa dei diritti umani. Non sembra ma si tratta anche di un investimento economico.

Crisi di Hong Kong, Cina, USA ed Europa

L’evoluzione dei fatti che riguardano la Cina, relativi non solo alla questione del dissenso interno e la relativa repressione, ma anche quelli di Hong Kong, che hanno ottenuto maggiore rilevanza dalla stampa mondiale ed il complicato rapporto con Taiwan e le relative implicazioni internazionali, pongono delle questioni pericolose per la stabilità mondiale, a cominciare dai rapporti tra Pechino e Washington, che hanno subito un netto peggioramento. Se sul fronte interno cinese, il mancato rispetto dei diritti civili è maggiormente tollerato, perfino per quanto riguarda la repressione dei musulmani cinesi, il problema di Hong Kong sembra essere più sentito in occidente. L’atteggiamento cinese di avversione al teorema di un paese due sistemi (politici) deve essere inquadrato proprio nella necessità di stroncare il dissenso interno, togliendo l’esempio di pluralismo sul suolo cinese. Questo obiettivo è ora considerato prioritario anche rispetto ai risultati economici ed alle relazioni internazionali. Gli USA valutano sanzioni contro il sistema finanziario di Hong Kong, che sul breve periodo potranno avere effetti pesanti sulla possibilità di operare sul fronte della finanza, all’interno del mercato americano, tuttavia il governo cinese ha avviato da tempo un depotenziamento di Hong Kong nel quadro generale dell’importanza finanziaria a favore di altre piazze che sono maggiormente sotto il controllo del governo centrale. L’ostinazione che Pechino percorre nell’atteggiamento contro Hong Kong rivela che, ormai, ne ha sacrificato la capacità operativa all’interno del mondo finanziario per esercitare il maggiore controllo possibile. Ciò significa anche che Pechino è disposta a valutare un potenziale impatto negativo sulla sua economia da parte dell’occidente. Per il rischio è calcolato: soltanto gli USA di Trump, che è in campagna elettorale, possono cercare di esercitare una pressione sulla Cina, mentre dall’Europa, per ora non è arrivato altro che un silenzio colpevole ed irresponsabile. Tuttavia la questione di Hong Kong, pur in tutta la sua gravità, è di minore impatto rispetto a ciò che può diventare Taiwan. La Cina considera Formosa parte integrante del suo territorio e non ha mai fatto mistero di potere considerare anche di arrivare all’opzione militare per affermare il suo potere in maniera concreta. Gli USA hanno sempre mantenuto un legame con Taiwan in maniera non ufficiale, ma negli ultimi tempi, considerando il paese strategico per i traffici navali ed essenziale dal punto di vista geopolitico, hanno aumentato i contatti, suscitando più volte l’irritazione della Cina. Washington per quanto riguarda Hong Kong ha scelto un approccio impostato sulle sanzioni economiche, ma un analogo comportamento di Pechino a Taiwan non potrebbe consentire un approccio simile; ad una prova di forza cinese gli Stati Uniti non potrebbero essere passivi. Per ora la situazione è di stallo ma quelli che si confrontano sono due leader simili, che hanno fatto del sovranismo e del nazionalismo i propri punti di forza ed entrambi non sembrano volere cedere. Ci sarebbe un terzo attore che potrebbe incidere sull’economia del dialogo, se avesse la forza di una propria politica estera e la convinzione di volere difendere i diritti a qualunque costo. L’azione americana, infatti, non si muove a garanzia dei diritti universali non rispettati dall’azione e dall’ordinamento cinese, ma da una esclusiva tutela degli interessi statunitensi: un atteggiamento che squalifica rende meno rilevante il ruolo di Washington nell’arena mondiale. Questo vuoto, se non a livello militare, potrebbe essere riempito a livello politico dall’Europa, che potrebbe investire in credibilità, una dote da spendere successivamente anche su altri piani. Occorrerebbe, però una capacità di coraggio in grado di andare contro la potenza economica cinese, ma partendo dal punto di forza di avere la consapevolezza di essere il maggiore mercato mondiale. Una politica di sanzione verso i prodotti cinesi, praticata per contrastare il mancato rispetto dei diritti civili e le repressioni operate ad Hong Kong, potrebbe costituire un freno all’attuale politica di Pechino. Ciò potrebbe anche servire per ottenere, grazie politiche fiscali europee mirate, un’autonomia da una vasta serie di prodotti cinesi la cui produzione potrebbe essere riportata sul suolo continentale favorendo un nuovo sviluppo industriale. Risulta chiaro che nella fase iniziale occorrerebbe rinunciare a vantaggi economici immediati, che potrebbero essere recuperati dalle ricadute degli effetti dell’assunzione di un nuovo ruolo politico da protagonista a livello mondiale. Sarebbe uno sviluppo molto interessante.  

Il debito comune europeo come prospettiva di sviluppo politico dell’Unione

Sotto l’impulso di Parigi e Berlino, che si confermano i due membri trainanti dell’Unione Europea, si delinea il futuro di Bruxelles attraverso una politica di investimenti con prestiti a bassi tassi di interesse. Il budget dovrebbe essere intorno ai cinquecento miliardi di euro a favore dei paesi più colpiti dalla pandemia e, quindi, con ricadute economiche pesanti. Questo investimento, che sarà limitato nel tempo, sembra andare nella direzione contraria a quella che fino ad ora ha contraddistinto l’Unione Europea, improntata ad una esagerata adozione di politiche di rigore finanziario. Dal punto di vista politico, se ciò corrisponderà al vero, si tratterà della dichiarazione di guerra alle ragioni del sovranismo e dei movimenti antieuropeisti. L’intenzione è quella di creare una nuova coesione tra gli stati, che deve poi avere conseguenze pratiche nella coesione sociale all’interno degli stati e tra le popolazioni delle nazioni differenti. Quello che si vuole avere sono degli effetti di lungo periodo, partendo dall’intervento già nell’immediato, con effetti tali da creare nuove dinamiche virtuose. Secondo i due leader, francese e tedesco, la risposta europea, pur con alcune battute d’arresto, ha permesso di intervenire attraverso aiuti sanitari concreti, ma ha anche messo in evidenza contrasti già presenti; valga per tutti l’esempio di quegli stati che hanno chiuso le frontiere nazionali in maniera indiscriminata. Ciò contribuisce alla volontà dichiarata di arrivare anche alla modifica dei trattati. Se ciò potesse favorire l’affermazione dei valori europei fondativi, sarà triste, ma si dovrà ringraziare l’evento della pandemia. Una ragione che sembra stare alla base di questo stanziamento così ingente è quello di ritrovare una indipendenza nella produzione di alcuni materiali sanitari, che si sono rivelati essenziali, ma che la fabbricazione è stata allocata all’estero per mere ragioni di minori costi. Ciò ha determinato una mancanza di sovranità, questa vera ed accertata, dell’Europa nel suo complesso a causa della necessità di dipendere da altri paesi e, quindi, essere soggetti alla mancanza della gestione diretta di questi materiali. Riportare la produzione di diversi beni in Europa rappresenta il primo passo per garantire una autonomia che è prima di tutto politica. Il risultato di questo stanziamento potrebbe deludere quei paesi che chiedevano importi maggiori, tuttavia esistevano però diverse tendenze nazionali che non erano favorevoli a questo finanziamento: il risultato finale dice che si è andati nettamente contro queste volontà, che avrebbero seriamente compromesso le prospettive di unione europea. Una delle conseguenze che si devono raggiungere è quella di favorire la creazione di industrie europee di primo piano, in grado di competere a livello globale con analoghi gruppi cinesi o americani, ma per fare ciò non basta iniettare nel sistema grandi quantità di liquidità, ma anche costruire un diverso approccio legale con il cambiamento del diritto della concorrenza all’interno del continente. Per fare ciò la Merkel e Macron giudicano il ruolo dei loro paesi come trainante rispetto agli altri venticinque, ciò potrà non piacere ad altri partner, soprattutto di rilievo, ma deve essere specificato, che nel momento attuale, alcune nazioni europee di primo piano non riescono ad esprimere una visione unitaria sul ruolo europeo, perché sono attraversati da contrasti anche profondi; questi paesi, che hanno, però, un grande potenziale di adesione all’Europa, possono trarre vantaggio dall’effetto trainante dello stanziamento finanziario, per poi arrivare ad avere un ruolo paragonabile a quello attuale di Berlino e Parigi. I contrasti da combattere e superare sono altri, quelli che provengono da paesi che comprimono la libertà di stampa ed i diritti civili, che favoriscono l’antisemitismo e tutti quei provvedimenti che non favoriscono la vita democratica e, che, di conseguenza, negano i valori europei e si pongono praticamente al di fuori dell’unione, perlomeno in senso morale. L’investimento finanziario serve a recuperare la fiducia della popolazione europea, attraverso una redistribuzione della ricchezza conseguita con la disponibilità di lavoro e facile accesso alla sanità, all’istruzione ed alla sicurezza; così si sconfiggono le spinte nazionalistiche, che coincidono con l’affermazione di posizioni illiberali inconciliabili con gli ideali europei. Anche in questo senso si spera in una revisione dei trattati in senso sanzionatorio verso quegli stati che non si adeguano alle normative europee. Gli intenti, quindi sono giusti, il punto di partenza pare corretto: se i risultati che seguiranno in pratica, risponderanno a queste impostazioni si potrà affermare di avere finalmente raggiunto un risultato concreto per l’Europa, dopo tanti anni di delusioni.  

Gli USA allertano le ambasciate

Gli Stati Uniti dimostrano di prendere sul serio la minaccia bombe alle ambasciate italiane dopo i recenti casi occorsi alle rappresentanze diplomatiche di Cile e Svizzera. Intensificata la vigilanza e messe in campo nuove procedure per evitare possibili attentati anche dopo i falsi allarmi registrati per le sedi delle ambasciate presso la Santa Sede di Albania e Finlandia. La pista principalmente indicata dagli inquirenti italiani riguarda il movimento anarco-insurrezionalista ed andrebbe inquadrata nel non facile momento legato all’approvazione della legge di riforma del sistema universitario, anche in funzione dei numerosi cortei che hanno percorso le maggiori città italiane. Tuttavia con l’approvazione della legge ed anche in concomitanza delle festività di fine anno l’ipotesi non sembra reggere per l’allentamento delle manifestazioni da parte dei gruppi studenteschi, che di fatto, non hanno raggiunto il loro proposito. In Italia, spesso la pista anarchica storicamente è andata bene per tutte le stagioni, salvo poi scoprire l’innocenza degli indagati. E’ vero che non siamo in presenza di attentati particolarmente gravi, come quelli che hanno segnato tristemente la storia italiana dove l’anarchismo ha costituito il capro espiatorio di ben altri colpevoli; qui siamo in presenza, in definitiva di atti poco più gravi  della pura dimostrazione contro obiettivi ben definiti, come la Svizzera, colpita per ritorsione a causa dell’estradizione di un componente del movimento anarchico. In quest’ottica la tesi del governo italiano potrebbe anche essere azzeccata, ma la domanda è perchè le bombe sono state inviate in questo momento? E perchè  insistere con questa strategia mantenendo sulla corda le legazioni diplomatiche anche con falsi allarmi? Lo scacchiere degli obiettivi colpiti o soltanto minacciati non sembra essere unito da un legame, ed il momento non è che un episodio tra i tanti di difficoltà vissuto dal paese italiano e sullo sfondo le grandi crisi mondiali appaiono molto lontane, ma lo stato di emergenza applicato dagli USA pone altre domande: è solo routine o si pensa che dietro questi attentati vi sia qualcosa di più taciuto o sconosciuto dalle autorità italiane? La galassia dei destabilizzatori è talmente vasta di possibilità che ogni ipotesi è aperta, ma il fatto è che lo stato di allerta non riguarda la sola sede di Roma, ma tutte le rappresentanze USA presenti nel pianeta; se Washington pensa di essere sotto attacco probabilmente pensa anche di esserlo per qualcosa di definito. In questo momento i punti caldi sono la Corea, l’Iran, la Palestina, i rapporti con la Cina, qualcuno di questi motivi può essere legato allo stato di allerta?

Angola: situazione sempre piu' difficile

La situazione in Angola sta precipitando, l’impasse del dopo elezioni non si sblocca quindi Laurent Gbagbo cerca di aprire un fronte esterno, accusando USA e Francia di essere dietro all’opposizione risultata vincente dalla tornata elettorale. La prima mossa e’ stata della CEDEAO, l’organizzazione economica dei paesi dell’Africa dell’ovest, che ha minacciato il ricorso alla forza militare per ristabilire la pace nel paese. Questo ipotetico intervento e’ diretto contro lo sconfitto delle elezioni, che rifiuta il verdetto del voto denunciando brogli, per Gbagbo dietro a questa minaccia vi e’ l’azione concordata di USA e Francia per favorire il suo avversario. La Francia, dal canto suo, e’ presente con 900 uomini sul territorio ivoriano, mentre sono 15.000 i cittadini francesi ivi residenti. Il ministro della difesa francese Juppe’ ha sottolineato che l’uso della forza spetta alla decisione delle Nazioni Unite, ma che i cittadini francesi presenti sul suolo della nazione africana saranno difesi militarmente in caso di bisogno.

Francia e Germania bloccano Schengen per Bulgaria e Romania

La Francia e la Germania hanno deciso di bloccare lo spazio di Schengen per Bulgaria e Romania e ne hanno informato la Commissione Europea. La decisione mette il dito nella piaga sul problema dei cittadini comunitari appartenenti alle nazioni di Bucarest e Sofia ed il rispettivo comportamento. Berlino e Parigi motivano la loro decisione imputando ai due paesi gli scarsi risultati nella lotta al crimine organizzato ed alla lotta alla corruzione e sul piano legislativo comunitario affermano che è necessaria l’unanimità per ratificare l’allargamento del trattato di libera circolazione. Le ragioni politiche di questa mossa stanno nel difficile momento e rapporto che i partiti al governo hanno con il loro elettorato e cercano di guadagnare consensi con una mossa ad effetto che non incida su bilanci già gravati dalla crisi. Tuttavia è innegabile che il problema in senso concreto esista ed anzi sia Bulgaria che Romania abbiano approfittato della situazione incamerando contributi destinati al problema che sono stati stornati su altri capitoli di bilancio. Ma la questione investe anche i rapporti tra i membri dell’Unione Europea confermando, di fatto, che esiste un’europa a due velocità e che l’edificio comunitario faticosamente costruito non possiede poi basi tanto solide. Il problema economico sta dietro la questione, l’investimento di risorse per combattere la criminalità richiede sempre maggiori investimenti, bloccare la libera circolazione permette di abbattere una quota considerevole del budget previsto senza troppi dolori sul fronte interno ed anche sul fronte europeo si possono tacitare le contestazioni da posizioni di forza. Funzionari dell’Unione Europea hanno comunque visitato sia Bulgaria che Romania per stilare un rapporto sui progressi dei rispettivi stati sulle materie del contendere e sulla base di questo rapporto la Commissione Europea  emetterà presumibilmente una disposizione che in ogni caso sarà fonte di contrasti.

Per Europa e Cina accordi sui temi economici

La Cina si adopererà per mantenere in buona salute uno dei suoi migliori clienti: l’Unione Europea. In occasione dell’apertura dei colloqui bilaterali sinoeuropei attraverso la dichiarazione ufficiale del vicepremier cinese ha affermato di appoggiare le azioni intraprese da UE e FMI per fronteggiare il debito di alcuni paesi particolarmente in difficoltà, mentre il ministro del commercio estero di Pechino ha dichiarato di prestare grande attenzione al fatto che la crisi del debito europeo sia costantemente sotto controllo. Le preoccupazioni cinesi sono legittime e duplici, la Cina ha come clienti pregiati i paesi europei, che però sono anche investitori e portatori di know-how essenziale per la crescita costante e per l’innalzamento della qualità dei prodotti locali, ma è anche creditrice in quanto detentrice di titoli emessi da tutti i paesi UE. Una situazione  di difficoltà più o meno grave dei paesi europei fa subito scattare il segnale di allarme per l’economia cinese, quindi le istituzioni devono subito attivarsi per bloccare o almeno sedare le crisi sopraggiunte. Già in passato la Cina è intervenuta direttamente per sostenere l’euro, il caso greco è solo quello più eclatante, ma in questa occasione si assiste ad una vera e propria dichiarazione di intenti, non certo disinteressata. Nel vertice bilaterale gli accordi raggiunti prevedono una collaborazione per una crescita sostenibile ma sopratutto per un approccio non protezionistico ai commerci internazionali, eventualità molto temuta dalla Cina e più volte minacciata dagli USA; guadagnare questo impegno dall’Europa significa molto per Pechino, perchè vuole dire che con la UE non si dovrebbe aprire un fronte di mancato accordo sulle tematiche del commercio estero, permettendo maggiore concentrazione sulla battaglia per l’apprezzamento della moneta cinese attualmente combattuta con Washington.

Coree fine dell'incubo?

La Corea del Nord rompe il preoccupante  silenzio dall’inizio delle esercitazioni della Corea del Sud e dichiara, attraverso l’agenzia KCNA, che alle manovre militari di Seul non vale la pena di reagire. Sembra così concludersi positivamente il pericoloso tira e molla seguito al bombardamento dell’isola sudcoreana sul confine dei due stati effettuato da Pyongyang. Evidentemente si tratta di una vittoria della diplomazia che ha operato alacremente al di fuori dei riflettori, tutto il mondo tira un sospiro di sollievo ma le questioni di fondo risultano ancora sul tappeto. L’atomica nordcoreana, il sempre maggiore peso cinese, il controllo delle vie di comunicazione e trasporto marine, il tutto inquadrato nella contrapposizione di alleanze ed equlibri che ruota intorno al rapporto conflittuale tra USA e Cina, con la UE spettatore interessato. La fine della vicenda, se vera fine è stata, segna un punto a favore della collaborazione tra gli stati e l’ONU, che hanno fattivamente collaborato per scongiurare il pericolo di un conflitto sui cui esiti non si potevano prevedere le conseguenze. Molto importante l’azione della Russia, che pur non essendo coinvolta in modo diretto, come USA e Cina, ha voluto assumere un ruolo di protagonista nella soluzione della questione. Probabilmente la molla che ha fatto scattare un impegno tanto fattivo è stato anche il pericolo che l’ago della bilancia si spostasse a favore di uno dei contendenti maggiori che stavano dietro le due Coree, compromettendo così l’equilibrio attuale. In questo momento storico così particolare se lo status quo subisce variazioni di così grande portata, come sarebbe potuto accadere in uno scenario possibile, rischia di innescare una reazione a catena sullo scenario internazionale di portata non facilmente quantificabile. Più defilata la posizione della UE, che ha assunto un ruolo quasi subalterno nella questione, d’accordo che le due Coree sono lontane, ma uno scenario globale come l’attuale richiede un impegno ed una presenza di maggiore peso in tutti i punti caldi ed i nodi cruciali del panorama complessivo.

La battaglia per i diritti sconosciuta in patria

Dopo la sedia vuota di Liu Xiaobo, un’altra sedia non è stata occupata, se non dalla bandiera cubana, infatti Guillermo Farinas non ha potuto ritirare il premio Sakharov 2010 per la libertà di pensiero, nonostante l le molte pressioni del presidente del Parlamento Europeo Buzek. Cuba ha trattenuto il dissidente bloccando il permesso di espatrio. I regimi assoluti sono sempre più messi in difficoltà dalle premiazioni di rilevanza internazionale che costituiscono una cassa di risonanza enorme e permettono di focalizzare le problematiche dei diritti umani sulle quali i governi e  le pubbliche opinioni dei paesi occidentali sono molto sensibili. Ma se all’esterno le situazioni sono conosciute, grazie alla grande pubblicità mediatica, all’interno dei paesi di origine dei premiati, quelli oggetto di critiche per la mancanza dei diritti, la pubblica opinione interna è tenuta pressochè all’oscuro. Molti cinesi non conoscono la vicenda del premio Nobel, proprio grazie a quei diritti che sono negati e per la cui denuncia vengono assegnati i premi riferiti alle battaglie dei diritti umani. La censura operata è feroce, il controllo delle fonti d’informazione provenienti dall’esterno è serrato, ma c’è anche un’azione più subdola, che i governi degli stati dittatoriali hanno imparato bene dal capitalismo: l’introduzione di un sempre maggiore livello di consumismo teso ad addormentare le coscienze. Non è un caso che Cuba abbia aperto da poco il proprio mercato ai beni di consumo una volta vietati e che la Cina sia ormai il paradiso dei centri commerciali. La popolazione reduce da anni di povertà e penuria è stata frastornata con un’invasione di prodotti, peraltro costruiti a prezzi insostenibili sul piano dei diritti, che ha sortito il sonno della ragione. La nuova condizione sociale associata al più stretto controllo statale si è così rivelata una miscela letale che non permette di prendere coscienza dell’azione dei pochi che si battono per i diritti di tutti.

La UE contro i trafficanti di esseri umani

Importante decisione della UE, dopo il silenzio sul Nobel per la pace. La nuova direttiva è diretta contro i trafficanti di esseri umani, rafforzando la protezione delle vittime. I campi di applicazione della nuova norma, che dovrà essere recepita dalle legislazioni nazionali entro due anni, abbracciano una vasta gamma di reati connessi con la tratta delle persone, infatti mira a colpire l’industria del sesso, l’ambito del lavoro, che comprende un’ampia casistica che va dallo sfruttamento fino all’impiego forzato, la mendicità, il matrimonio illegale ed anche il commercio degli organi. La normativa era già da tempo allo studio, malignamente si può collegare la sua uscita all’assenza di prese di posizioni ufficiali sulla vicenda del Nobel, quasi un lavaggio delle coscienze; tuttavia la nuova direttiva è un passo avanti nel cristallizzare in modo normativo la concezione della protezione dell’essere umano, è mettere nero su bianco cose che dovrebbero essere scontate, piuttosto, quello che salta subito agli occhi è il ritardo con cui si è arrivati alla stesura del dettato normativo. Sarà interessante vedere come i singoli stati si rapporteranno al recepimento della norma, visto che la gran parte dei governi della UE è composta o appoggiata da partiti e movimenti che considerano tali diritti solo in base ad un diritto di cittadinanza limitato e  che sono chiusi rispetto all’esterno, hanno tendenze conservative su basi territoriali fino a fare del razzismo la loro bandiera; ci troviamo, insomma, di fronte ad una gamma molto estesa di visioni  di fronte allo straniero ed anche una legge che dovrebbe essere scontata a livello universale  potrà essere ostacolata grazie ad artifici parlamentari. Tra le conseguenze imprevedibili anche i rapporti  tra gli stati, si pensi al comportamento del governo libico con i migranti, la sanzione contri i trafficanti si potrà estendere anche a uomini delle istituzioni di paesi dittatoriali? Se si, quali saranno le implicazioni? Gli interessi toccati sono molti e le difficoltà non poche, ma la scrittura della norma è già un punto di partenza.