Afghanistan: prove di exit strategy

La nuova linea della NATO in Afghanistan è la ricerca del dialogo con i Talebani, senza però rinunciare all’opzione militare. Si tratta di un primo passo avanti nel difficile processo di pacificazione nazionale che il nuovo corso che l’amministrazione Obama cerca di perseguire anche in funzione di un progressivo e possibile sganciamento dalla palude afghana. A facilitare la decisione di trattare con i Talebani è anche il nuovo atteggiamento della popolazione afghana, sempre più provata dal conflitto all’interno del proprio paese, infatti ad ogni livello sociale sta maturando il convincimento che i Talebani sono parte integrante del paese ed anche il loro punto di vista va considerato, anche nell’ottica di un governo democratico come ambisce ad essere la nuova nazione afghana. Certo mancando la sconfitta militare ed assodata la situazione di stallo la ricerca di soluzioni alternative più che una scelta è un bisogno, ma ammettere la necessità della ricerca del dialogo è comunque un passo avanti nella ricerca di una possibile soluzione definitiva. Militarmente, nonostante tutti gli sforzi compiuti ed il dispigo di mezzi ed investimenti profusi appare ormai impossibile conseguire il successo, d’altronde la storia è con i talebani, si sono dimostrati invicibili con l’esercito sovietico ed anche ora, con quello americano sono sostanzialmente in vantaggio. Nonostante questo la Nato non rinuncia all’opzione militare cercando, prima di arrivare ad una qualche forma di accordo, di infliggere più perdite possibili ai Talebani con lo scopo di farli arrivare alle trattative il più deboli possibile per assicurare a Karzai di trattare da migliori posizioni. La via della trattativa non è comunque facile, i Talebani non sono un blocco monolitico, vi sono differenze causate dall’appartenenza tribale ma sopratutto diversità di vedute causate dalle differenze di età: più concilianti i vecchi capi, tra cui reduci anche dalla prigionia di Guantanamo, più intransigenti le nuove leve perchè ancora più permeate dagli insegnamenti, sempre più estremisti, delle scuole coraniche, unica possibilità di formazione culturale in tutti questi anni. In questo quadro di difficile gestione la NATO e gli USA giocano la carta della ragionevolezza sperando di aprire  la porta della strategia di uscita.

Ritorna il G7

La politica valutaria cinese sarà oggetto della resurrezione del G7, infatti un nuovo vertice delle sette potenze economiche si terrà a porte chiuse per elaborare strategie di contrasto alla direzione intrapresa da Pechino in materia monetaria. Si tratta di un fatto per certi versi eccezionale dato che verranno esclusi i restanti paesi componenti il G20 e non sarà nemmeno previsto un incontro successivo con il titolare economico del governo Cinese. Sembrava ormai impossibile escludere da vertici economici i paesi emergenti: non solo la Cina, ma anche Brasile ed India, tuttavia l’urgenza di contrastare gli effetti svalutativi della moneta cinese ha impresso una sterzata di fatto antiglobalizzazione da parte dei vecchi poteri economici. Sembra il boomerang che si abbatte contro chi ha decantato la globalizzazione (forse pensata a senso unico), ed anche questa riunione ristretta ne è la prova; cosa si vuole e cosa significa questo vertice ristretto? Si vuole riportare le leve del comando economico del pianeta in mano ai vecchi padroni o piuttosto è l’estremo tentativo degli stessi di preservare un potere ormai sfuggitogli dalle mani? L’azione monetaria cinese con le svalutazioni che l’ha contraddistinta intende imprimere una spinta alle esportazioni che l’occidente non può più contenere, l’invasione dei prodotti cinesi ha di fatto contribuito, in una congiuntura caratterizzata dalle crisi finanziarie, a comprimere le produzioni nazionali e le loro esportazioni mettendo in ginocchio interi comparti, questa situazione va inquadrata nel peggiore momento economico e sociale per l’occidente ed è logico che i governi le provino tutte per limitare le perdite. La minaccia è una introduzione dei dazi sui prodotti cinesi a cui però seguirebbe una risposta di Pechino altrettanto dura dal lato monetario  andando ad innescare probabilmente un aumento dei prezzi delle materie prime di cui si avvantaggerebbero i paesi produttori, è alla fine questo il timore maggiore che deve avere spinto il G7 a riformarsi; difficile dire cosa accadrà, il filo su cui si cammina è sottile ed ogni decisione non condivisa a livello planetario rischia di innescare turbolenze difficili da governare, speriamo che in questo scenario l’Europa, con le sue divisioni non faccia il vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Il sud del mondo nuovo motore economico del pianeta

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale annunciano l’avvento dei nuovi ricchi: infatti, secondo le recenti statistiche dei due enti, il motore economico del pianeta si sposta verso sud. Complice la recente crisi finanziaria che ha favorito la stagnazione economica dei paesi cosidetti ricchi sono sempre più i paesi emergenti ad interpretare il ruolo di locomotiva economica, sono loro a trainare il pianeta. Le cause che hanno generato la crescita economica sono un mix di fattori tecnologici, sociali e politici  infatti il progresso tecnologico giunto alla crescita numerica della classe media ha generato un circolo economico virtuoso tra produzione e consumi, politicamente, poi, si è cercato una maggiore integrazione tra i sud del mondo, favorita anche da politiche del credito in grado di sostenere la crescita infrastrutturale, volano essenziale per la produzione e la circolazione delle merci. E’ chiaro che questi aspetti genereranno ulteriore ricchezza favorendo una maggiore diffusione del benessere facendo intravedere l’inizio della fine della povertà nelle nazioni meno sviluppate. Si deve tenere presente che ci sono diversi aspetti da mitigare come le varie e pesanti differenze sia sociali che economiche presenti negli strati sociali di questi paesi, queste discrepanze favoriscono un mercato del lavoro eccessivamente deregolamentato che non tiene conto delle esigenze di sicurezza dei lavoratori e generano, in un quadro di mercato globale, fenomeni di concorrenza sleale verso la produzione di quei  paesi  dove le leggi sul lavoro sono molto più ferree. Un’altro aspetto riguarda la qualità della vita in relazione ai fenomeni di inquinamento favoriti dalle legislazioni vigenti nei paesi in via di sviluppo per favorire la spinta dell’industrializzazione; i governanti di questi paesi dovranno studiare metodi di allineamento agli standard occidentali per rendere migliore l’ambiente anche tenendo conto di una sempre maggiore integrazione della totalità degli stati mondiali; il fenomeno è ineludibile ma un governo sopra le parti che ne gestisca lo sviluppo potrebbe accelerare questo processo ed è in quest’ottica che deve auspicarsi un coinvolgimento più massiccio di organizzazioni come l’ONU, che potrebbero cogliere l’occasione per aumentare concretamente il proprio prestigio.

NATO e Pakistan ai ferri corti

Sale la tensione tra Pakistan e NATO, durante una azione contro ribelli afgani al confine con lo stato di Islamabad due elicotteri Apache avrebbero sconfinato  per colpire gli insorti frattanto riparati oltre la linea di demarcazione tra i due stati. Il Pakistan con questo incidente coglie l’occasione per rivendicare una azione coordinata con la NATO nell’azione militare contro i fondamentalisti islamici, ma tale richiesta non pare avere seguito, l’organizzazione di Bruxelles non ha mai mostrato eccessiva fiducia nel governo pakistano, preferendo tenerlo ai margini delle manovre; infatti le risposte alle proteste del ministro degli esteri pakistani sono state di circostanza, Bruxelles afferma di avere operato nel quadro del mandato affidato all’organizzazione atlantica, suscitando le ire del Pakistan che ha minacciato di passare alle vie di fatto nel caso di una ripetizione dell’evento. L’incidente ha in sostanza, dimostrato ancora una volta la scarsa fiducia di cui gode il Pakistan in seno alla NATO: con questo governo soltanto un paese tollerato.

La politica estera di Obama

Barack Obama ha tenuto il suo primo discorso all’ONU cercando di portare sulla scena delle nazioni unite il suo credo diplomatico , la sua teoria del mondo come visione globale. Tale politica è una sorta di novità rispetto alle concezioni di chi lo ha preceduto, come ad esempio i due Bush, che vedevano gli USA posizionati all’interno dell’assemblea dell’ONU come una sorta di “primus inter pares”, un membro sostanzialmente di maggiore importanza e maggior peso nelle decisioni e nell’indirizzo della politica della massima organizzazione internazionale. Obama pare voglia contraddistinguersi per un profilo più basso e coinvolgere maggiormente sia l’ONU che gli altri paesi nella gestione dei problemi e conflitti internazionali, è chiaro che questa nuova rotta è dovuta non solo all’esclusiva visione di Obama ma anche alla situazione interna contingente degli USA. Il presidente americano infatti, nonostante i successi ottenuti con la riforma della sanità ed il rispetto del rimpatrio dei primi contingenti dall’Iraq, deve combattere con una accanita opposizione interna che non permette una sostanziosa distrazione delle forze verso scenari internazionali. Obama usa anche argomenti pesanti per coinvolgere maggiormente gli altri paesi nell’azione comune, in special modo l’Unione Europea, sostenendo che la risoluzione del problema afgano, proprio per la contiguità territoriale è un problema più importante per il vecchio continente che per otlreoceano.  Con le altre superpotenze l’amministazione americana ha intrapreso un politica di dialogo che rinnega lo scontro: con la Russia sono stati intrapresi rapporti più distesi ed anche con la Cina, malgrado le differenze in materia economica si vanno cercando intese sempre più proficue. Resta il nodo Iran, anche alla luce dell’atteggiamento di Turchia e Brasile, storici alleati USA, che non hanno condannato il regime di Teheran, anche in virtù di intensi accordi commerciali che intercorrono tra questi paesi. Comunque la politica americana pare ora tendere alla ricerca di una pacificazione condivisa tra i componenti del mondo, certo affermarlo non basta ma è già un grosso passo avanti.

La lotta alla povertà dell'ONU

L’ONU si riunisce per ridurre la povertà mondiale, obiettivo ambizioso ed istituzionale per le nazioni unite. Il progetto, in realtà, coinvolge più obiettivi, dato che la povertà nel suo complesso è una somma di più fattori. Molto passa dalla riduzione della fame nel mondo attraverso la quale si combattono diverse malattie che flagellano le parti più povere del pianeta. Altre aree d’intervento riguardano la riduzione della malaria, dell’AIDS e della mortalità infantile. Ma a lato di queste emergenze, di natura medica, per sconfiggere la povertà mondiale occorre agire sugli ostacoli sociali che frenano lo sviluppo: la parità dei sessi, la mancanza endemica di scolarizzazione e la scarsità di infrastrutture che consentano uno sviluppo economico tale da consentire una qualche forma di autosufficienza e di ingresso nel mercato mondiale delle merci e della produzione in modo degno e non subalterno. E’ chiaro che gli obiettivi sono ambiziosi, ancorchè doverosi, e necessitano di finanziamenti cospicui, si parla di mille miliardi di dollari, è impensabile che in tempi di crisi economica, come l’attuale fase storica, il budget sia sostenuto soltanto dai paesi ricchi, per questo il segretatio generale dell’ONU, Ban Ki-Moon ed i suoi funzionari pensano a modi di finanziamento innovativi capaci di innescare un circolo virtuoso. I mezzi individuati sono lo sviluppo delle reti di comunicazioni, con internet e la telefonia mobile in modo di incrementare le comunicazioni anche in funzione commerciale, la tassazione dei trasporti e lo sviluppo di flussi turistici verso nuove mete sconosciute presenti nei paesi in via di sviluppo. La sfida è ambiziosa, l’augurio è che si arrivi a risultati tangibili anche in un’ottica di pacificazione mondiale da ottenere attraverso lo sviluppo economico.