Gli USA vogliono imporre le sanzioni all’Iran e si isolano dalla scena diplomatica

La questioni delle sanzioni all’Iran è sempre stato un punto fermo del programma politico di Trump, ora, alla vigilia delle elezioni presidenziali, quando la campagna elettorale si sta intensificando, il presidente statunitense rimette al centro del dibattito internazionale l’intenzione di ripristinare in maniera completa le sanzioni contro Teheran. Questa volontà è stata annunciata dal Segretario di stato americano, giustificandola con la risoluzione numero 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo l’interpretazione americana, l’Iran non avrebbe rispettato gli impegni presi con la firma dell’accordo sul nucleare, accordo dal quale gli USA si sono ritirati in maniera unilaterale. La notifica alle Nazioni Unite, avvenuta il 20 agosto scorso, della volontà statunitense avrebbe, secondo la Casa Bianca, attivato il processo di ripristino delle sanzioni con effetto dal 19 settembre 2020. La coincidenza con la campagna elettorale appare evidente, tuttavia questa intenzione pone gli Stati Uniti in un ulteriore stato di isolamento, che aggrava la posizione americana all’interno del panorama diplomatico. La reazione più eloquente è quella dell’Unione Europea, che denuncia l’illegittimità degli USA nel volere riapplicare le sanzioni. Si tratta di una illegittimità in contraddizione con il diritto internazionale, in quanto gli americani non possono riapplicare le sanzioni di un trattato dal quale si sono ritirati e, quindi, di cui non sono più sottoscrittori. Il dispregio del diritto, piegato alle necessità contingenti di politica interna, peraltro di una sola parte del paese, evidenzia come l’atteggiamento dell’amministrazione in carica sia un misto di imperizia e dilettantismo, dai quali, per l’ennesima volta, il paese ne esce malissimo. Infatti, se le reazioni di Cina, Russia e dello stesso Iran sono contrarie per ragioni di interessi politici nazionali, la posizione dell’Europa si distingue come un progressivo allontanamento dagli Stati Uniti per lo meno se al comando resterà questo presidente. Lo scontro non è solo sul provvedimento dell’applicazione delle sanzioni sulla base di un accordo dal quale Washington si è ritirato in modo unilaterale, ma anche sulla minaccia americana di applicare sanzioni a quelli stati che non si adegueranno alla decisione della Casa Bianca. L’atteggiamento americano è anche una sfida alle Nazioni Unite, uno scontro frontale che può avere conseguenze pesanti sugli equilibri della politica internazionale; infatti le minacce di sanzionare gli altri stati, che non vorranno adeguarsi alla decisione degli USA è una potenziale conseguenza della quasi certa decisione delle Nazioni Unite di non volere adempiere all’attuazione delle sanzioni. Si capisce che una diplomazia ormai costituita solo da minacce e che rifiuta ogni dialogo ed anche l’applicazione delle normali norme di comportamento rappresenta un segnale di debolezza, sia sul breve che sul medio periodo. Ma si tratta anche dell’abdicazione formale al ruolo di grande potenza da parte di un paese che si sta ripiegando sempre di più su se stesso in un momento dove il bisogno di fare fronte comune delle democrazie occidentali contro Cina e Russia appare una esigenza non più rinviabile. Non solo anche il programma “Prima l’America”, lo slogan che accompagna l’azione politica di Trump, sembra essere tradito da questo eccesso di protagonismo che è certamente contro gli interessi degli Stati Uniti. Washington non può proporsi contro l’espansionismo cinese o l’attivismo russo in maniera singolare, perché ha bisogno dell’azione congiunta dell’Europa, che, viene data sempre come sicura, ma a torto: infatti non si può pretendere che il maggiore alleato americano, già insofferente per l’azione di Trump, subisca in maniera passiva queste imposizioni; dal punto di vista commerciale l’Unione Europea non può tollerare di essere sottoposta a sanzioni in maniera illegale e la conseguenza non potrà che essere un irrigidimento dei rapporti anche su temi dove gli interessi americani avevano trovato un’intesa con l’Europa, come gli scenari degli sviluppi delle telecomunicazioni, con l’esclusione della tecnologia cinese. Questo caso mette ancora una volta in risalto come l’Europa debba trovare una modalità per essere sempre più indipendente dagli altri attori internazionali; se nei confronti di Cina e Russia c’è una distanza enorme su temi come i diritti umani, le violazioni informatiche ed anche i rapporti commerciali, che li pone sempre più come interlocutori inaffidabili; gli Stati Uniti, malgrado le politiche di Trump, restavano ancora gli interlocutori naturali, tuttavia la Casa Bianca sembra volere esercitare un ruolo sempre più egemone, che non può essere tollerato dall’Europa. Se le elezioni presidenziali americane non daranno un risultato diverso da quello prodotto quattro anni prima, le distanze con Trump sono destinate ad aumentare: a quel punto Washington potrebbe diventare non tanto diversa da Pechino o da Mosca.

La pandemia favorisce il fenomeno delle spose bambine

Oltre gli effetti sanitari provocati dalla pandemia, si è parlato più volte delle ricadute sull’economia, facendo rilevare le pesanti contrazioni del prodotto interno lordo degli stati più avanzati. Evidentemente il problema esiste e provoca problemi sociali, che, per ora, solo ammortizzatori sociali elaborati soltanto nei paesi più evoluti ne hanno permesso il contenimento. La crisi economica dei paesi più ricchi provoca effetti nelle economie più povere, in paesi dove il reddito a disposizione delle fasce più deboli della società si aggira sul limite della sopravvivenza. L’effetto combinato della crisi delle economie più ricche, che provocano la diminuzione delle commesse e degli aiuti presso i paesi più poveri ha generato una riduzione della ricchezza nelle nazioni che è andata ad impattare direttamente sui redditi delle famiglie, riducendo in maniera consistente una quantità finanziaria disponibile spesso già insufficiente. L’aumento esponenziale delle diseguaglianze in società non strutturate per una mobilitazione sociale ha provocato altri effetti per contenere la scarsa capacità di spesa. Uno di questi è l’aumento del fenomeno delle spose bambine, che provengono dalle famiglie più povere in stato di indigenza grave. Questa consuetudine è   presente in Asia e riguarda un numero sempre maggiore di adolescenti comprese nella fascia di età tra i 9 ed i 14 anni, ma secondo le Nazioni Unite i casi arrivano a riguardare ragazze fino ai 18 anni; le stesse Nazioni Unite stimano che il grave problema riguardi circa 12 milioni di bambine. L’azione di associazioni umanitarie ed organizzazioni non governative aveva ridotto il fenomeno grazie ad una azione che favoriva l’accesso all’istruzione ed a servizi sanitari più evoluti per le ragazze asiatiche. Tuttavia l’incremento della povertà causato dalla pandemia ha associato un processo culturale mai cancellato con la situazione di bisogno di tante famiglie, a cui deve essere sommato lo stato di difficoltà finanziaria delle associazioni umanitarie e non governative, che non possono disporre della liquidità necessaria per assolvere ai loro compiti. Il fenomeno sembra essere sottovalutato dagli stati occidentali, impegnati nelle problematiche interne inerenti alle crisi sanitarie ed ai problemi economici, ma rappresenta un elemento che, oltre alla gravità intrinseca del problema, contribuisce al mantenimento un clima che implica una serie di cause culturali che possono andare a favorire lo sviluppo di situazioni favorevoli al radicalismo. Occorre ricordare che la pratica del matrimonio precoce è tipica di molti paesi islamici interessati dall’estremismo ed intaccare il matrimonio precoce potrebbe significare intaccare il radicalismo nelle sue basi culturali. Oltre questa visione deve essere ben presente la necessità di innalzare i redditi delle famiglie più povere per diminuire la povertà che genera diseguaglianza e, nello specifico, traumi derivanti da violenze e gravidanze indesiderate nelle spose bambine, anche perché questa pratica non avviene solo nelle comunità islamiche ma anche in quelle indù e cristiane. L’azione delle associazioni umanitarie e dei movimenti non governativi è essenziale per continuare a lottare per la diminuzione delle spose bambine ed anche le Nazioni Unite dovrebbero incrementare la loro azione in attesa della sconfitta della pandemia; proprio per questo sarebbe importante che istituzioni come l’Unione Europea mettessero nei loro programmi gli investimenti necessari per intervenire in prima persona e per supportare chi già opera sul campo.

La pandemia blocca l’istruzione nel mondo

Il segretario generale delle Nazioni Unite ha lanciato un allarme circa la situazione della scuola; si tratta di un allarma e livello mondiale causato dalla chiusura degli istituti scolastici ed università, che riguarda oltre 160 nazioni mondiali, pari ad un miliardo di studenti, di cui più di 40 milioni di bambini. La mancata possibilità della frequenza scolastica, soprattutto nelle fasce di età che riguardano le scuole dell’infanzia, delle elementari e delle scuole medie, significa un deficit che va da quello dell’apprendimento a quello della socialità e della capacità di stare insieme, che sarà potenzialmente capace di creare grandi deficit relazionali negli adulti di domani. Un ulteriore aspetto è legato alla scuola come strumento sociale anche di ammortizzatore nei confronti delle famiglie che non possono contare su di un aiuto nella custodia dei figli. Questa mancanza rischia di provocare la perdita di entrate economiche, se un genitore deve abbandonare il lavoro. Le soluzioni di emergenza con la didattica a distanza hanno evidenziato che questa scelta ha solo parzialmente riempito le lacune provocate dall’insegnamento diretto, sia per la poca preparazione dei docenti a questa soluzione improvvisa, sia per le difficoltà tecnologiche ed anche per la diseguale distribuzione degli strumenti informatici nelle famiglie. Tuttavia l’invito del segretario delle Nazioni Unite ad una riapertura degli istituti scolastici, compatibilmente con il controllo della possibile trasmissione del virus, pone delle domande sulla opportunità di questa scelta senza una adeguata sicurezza circa il controllo della diffusione del virus e delle sue cure. Il pericolo di una maggiore diffusione del contagio o di un ritorno dello stesso nei paesi dove i numeri della pandemia sono calati, secondo alcuni virologi, sembrerebbe proprio legato alle fasce più giovani della popolazione, che potrebbero agire come veicolo preferenziale del virus. Se non vi è certezza assoluta di queste ipotesi, non vi è nemmeno la sicurezza contraria. La scelta, al momento, sembra limitarsi esclusivamente su limitare gli effetti immediati della pandemia con il prezzo da pagare in termini di mancata istruzione ed anche di perdita di socializzazione della popolazione più giovane. Si tratta di un dilemma terribile, che investe l’economia nel breve e nel lunghissimo periodo, una scelta che non può essere tutta da una parte piuttosto che dall’altra. Le soluzioni che devono essere trovate devono essere per forza delle mediazioni, capaci anche di trovare soluzioni immediate che potrebbero anche non essere più valide nello stesso breve periodo. Quello che manca per stabilizzare la situazione, ma non solo per quanto riguarda l’istruzione, è avere un metodo di esame sicuro ed a prezzo accessibile, una cura certa ed un vaccino senza controindicazioni, che possa essere diffuso a livello mondiale, quindi con un costo minimo. Al momento queste tre condizioni non sembrano essere vicine, quindi occorre sforzarsi per trovare soluzioni temporanee. D’altra parte i pericoli denunciati dalle Nazioni Unite sono senz’altro veri e certi: una crisi educativa avrebbe il risultato di aumentare le diseguaglianze sia tra stati ricchi con quelli poveri, sia all’interno delle stesse nazioni progredite, con gli studenti appartenenti ai ceti alti certamente favoriti rispetto a quelli dei ceti medi e poveri. Soltanto soluzioni temporanee, ma chissà per quanto, elaborate dai governi locali o sovranazionali, quando questi hanno la possibilità di fornire indirizzi politici, possono creare dei presupposti, comunque temporanei e mai definitivi, perché la didattica in classe non è sostituibile, per limitare i danni dell’attuale situazione. I rimedi sono già stati usati, anche se in modo limitato, l’incremento della didattica a distanza, che deve però essere intervallato da periodi ritorni in classe (con tutte le precauzioni possibili) necessita di contributi per l’acquisto di apparecchiature informatiche per le famiglie (ostacolo non difficile da superare, grazie al costo sempre minore delle apparecchiature informatiche), ma soprattutto con la maggiore diffusione delle reti di trasporto informatiche, sia nella diffusione della fibra ottica, che nell’accelerazione del servizio 5G. Quello che la pandemia ha evidenziato è stata l’impreparazione, a livello generale ma soprattutto dei paesi poveri circa il ritardo delle infrastrutture di comunicazione, sempre più essenziali allo sviluppo sociale ed economico, inteso come fattore capace di limitare gli effetti dell’isolamento sull’istruzione ma anche come moltiplicatore della capacità produttiva.

Lo sfruttamento riguarda dieci milioni di minorenni

Lo sfruttamento delle persone nel mondo riguarda oltre 40 milioni di persone, superiore al numero di abitanti di paesi come Canada e Polonia o Iraq. Si tratta di un fenomeno che, per lo più rimane nascosto ed alimenta lo sfruttamento del lavoro minorile o la tratta degli esseri umani, impiegati come schiavi in diversi settori produttivi, non solo in paesi senza alcuna tutela dei diritti, ma anche in democrazie occidentali. Certamente una delle cause di incremento di questo fenomeno sono le forzate emigrazioni delle popolazioni colpite da guerre, carestie e difficile situazione politica degli stati di provenienza. Queste emigrazioni, che avvengono senza alcuna tutela e protezioni da parte dei paesi ricchi, che anzi spesso le osteggiano in diversi modi, e delle organizzazioni internazionali mettono in condizione di debolezza persone abbandonate a se stesse e facile preda delle organizzazioni malavitose. Quindi sulla questione politica, ma anche sanitaria, si va ad innestare una questione legale che riguarda tutti, perché, oltre a favorire lo sfruttamento delle persone, favorisce la crescita delle organizzazioni criminali, che trovano con facilità una manodopera a costi bassissimi o nulli. Dei 40 milioni di persone che riempiono le statistiche dello sfruttamento, si stima che quelle sotto i 18 anni, i minorenni, siano circa dieci milioni, una percentuale, quindi, del 25%. Questo dato rende ancora più grave la rilevanza del fenomeno, soprattutto se si pensa che l’impiego che riguarda la maggioranza di questi minori è connesso con lo sfruttamento sessuale. La pandemia ed il conseguente lockdown, ha creato un incremento della domanda di servizi a contenuto erotico, con il consumo cresciuto anche del 30% in alcuni stati europei; questi servizi, profondamente connessi con il crimine cibernetico, impiegano sempre più minorenni, con una prevalenza, di circa il 68% del totale, un dato però fermo al 2016 per l’Europa, di persone di sesso femminile. Che il dato del 68% femminile del totale degli sfruttati minorenni non sia più stato aggiornato da quattro anni rappresenta un fattore eloquente anche per quanto riguarda le possibilità e le volontà di contrasto del fenomeno; occorre anche ricordare che la chiusura imposta dalle istituzioni delle scuole, seppure giustificata, ha eliminato un fattore di controllo e prevenzione sociale, che ha favorito l’utilizzo dei minorenni in impieghi nel lavoro sommerso ed illegale. La pandemia ha comunque accentuato un fenomeno già presente, che ha le sue basi in quelle comunità etniche dove gli introiti finanziari si basano sull’illegalità e che sfruttano lo stato di necessità e l’assoluta debolezza, rappresentata dal fatto di essere al di fuori dei propri paesi, delle vittime. L’aspetto dello sfruttamento minorile, pur se presente anche nelle nazionalità dell’Unione, ha logicamente una provenienza connessa con l’immigrazione, specialmente quella clandestina e la presenza dei movimenti contrari agli stranieri, sposta l’attenzione politica che sarebbe necessaria per la tutela dei minori a causa anche dei sempre minori investimenti in prevenzione e controllo, basata sulla rete che possono fornire gli enti locali, che si sono visti decurtare i contributi centrali. Sebbene il caso dello sfruttamento sessuale sia il più increscioso, per gli ovvi risvolti morali, i settori coinvolti sono anche altri e comprendono anche il commercio, la ristorazione ed il terziario. Risulta così essenziale che a livello europeo occorrano leggi preventive e repressive del fenomeno, ma anche un maggiore coordinamento delle polizie nazionali e, soprattutto, un atteggiamento univoco verso la questione migratoria, di cui questo fenomeno fa parte ed è ricompreso. Tollerare in Europa, che dovrebbe essere la patria del diritto, simili violazioni significa screditare l’intero impianto legale del vecchio continente. Non è facile conciliare le diverse posizioni sui migranti, ma, almeno, assumere una posizione unitaria sulle violazioni dell’infanzia e dell’adolescenza, anche di chi proviene dall’estero in maniera non legale, dovrebbe rappresentare un punto sul quale l’unità di vedute dovrebbe essere garantita. La questione rientra anche nel contrasto alle organizzazioni che sfruttano il traffico di esseri umani prima, durante e dopo l’arrivo dei migranti, guadagnando da proventi illeciti e quindi rinforzandosi sempre di più con maggiori entrate economiche. Legislazioni più severe con pene maggiori e prevenzione con strutture adeguate e capaci di intercettare i casi specifici saranno anche un investimento contro la malavita interna e proveniente dall’estero.      

USA e Cina verso la nuova guerra fredda

Dunque il destino del mondo è quello di vivere una nuova guerra fredda, che rischia di protrarsi molti anni. Però le analogie con il conflitto a distanza tra USA ed URSS sono molto poche, a parte il confronto tra una democrazia ed un regime non democratico. Dal punto di vista economico tra la Pechino attuale e la Mosca degli anni che vanno dal secondo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino, non ci sono similitudini. Ora la Cina sta giocando un ruolo praticamente paritario con gli USA sulla scena economica, ed anzi questa competizione è ritenuta la vera causa del confronto a distanza. Certamente esistono i problemi legati alla svolta sempre più autoritaria di Pechino, con l’intensificazione della repressione dei musulmani, la sempre maggiore negazione dei diritti civili ed umanitari e la lotta con il dissenso ingaggiata ad Hong Kong, effettuata, tra l’altro, con il mancato rispetto di un trattato internazionale. Ma se la controparte è rappresentata da Trump e dalla sua politica di supremazia americana, soprattutto in economia, questi argomenti, seppure validi e condivisibili, paiono una sorta di pretesto per inasprire il rapporto con Pechino. Sicuramente il comportamento cinese è deprecabile, fatto di provocazioni, di un uso sempre più consistente dello spionaggio industriale, di comportamenti equivoci, come nel caso della pandemia partita proprio dai territori della Cina. Washington ha sfruttato tutto questo contesto, non agendo da prima potenza mondiale, cercando di coinvolgere gli alleati sul piano politico per un contrasto efficace, basato su programmi e principi, ma ha dato l’impressione di volere tutelare la sua supremazia economica per esclusivi vantaggi nazionali. Trump invidia al presidente cinese la grande autonomia e la capacità decisionale praticamente illimitata e questo non ne fa il campione degli interessi del campo occidentale, anche perché predilige i risultati economici rispetto a quelli politici, come il rispetto dei diritti, proprio come succede a Pechino. Questa è anche la ragione del timido atteggiamento degli europei verso l’attuale amministrazione della Casa Bianca, che, inoltre, sono lontani in senso geografico, dalle dispute che hanno maggiormente coinvolto paesi del campo occidentale, come Giappone, Australia o anche l’India nei confronti di Pechino. Al contrario nelle popolazioni di USA e Cina esiste un dato comune molto sconfortante: in entrambi i popoli ed in maniera simmetrica vi è una avversione verso l’altro paese (66% degli americani hanno una opinione sfavorevole sulla Cina, bilanciata dal 62% dei cinesi che hanno la medesima opinione verso gli USA), che rappresenta un elemento che non può essere tenuto in considerazione ed anche sfruttato dalle rispettive amministrazioni. Una prova è che il concorrente di Trump alle prossime elezioni presidenziali americane, Joe Biden, ha già espresso tutta la sua contrarietà alla politica cinese; l’unica speranza è che sposti l’attenzione dall’economia a temi politici di più ampio respiro. Tuttavia il problema contingente è che le due economie sono fortemente interconnesse, infatti da entrambe le parti vi è bisogno di materie prime e prodotti lavorati che sono prodotte dal paese avversario; Trump ha adottato la strategia dei dazi commerciali (peraltro imposti anche agli alleati) per ridurre il divario della bilancia commerciale con la Cina, una strategia miope, che non ha tenuto conto della bilancia commerciale globale degli Stati Uniti e che ha innescato analoghe contromisure cinesi. Procedere su questa strada non conviene a nessuno dei due contendenti, ma restano le incognite militari legate agli aspetti geopolitici, che sono in stretta relazione con le vie di comunicazioni marittime delle merci nei mari del Pacifico e del confronto sulla crescita degli armamenti. La situazione attuale, pur con un livello di pericolosità elevato, non sembra potere trasformarsi in un conflitto armato, anche se le occasioni potenziali di scontri non mancano, quanto assestarsi su di un conflitto non tradizionale basato sull’uso delle tecnologie per influenzare le rispettive opinioni pubbliche, un incremento dello spionaggio ed, eventualmente, lo sfruttamento di conflitti locali a bassa intensità. Se questo può sembrare un buon segnale per la pace mondiale, ma non per tutti, è anche vero che è la situazione migliore per mantenere alto il livello di una guerra che si può definire fredda, con tutti i rischi del caso: dal ritorno dell’equilibrio del terrore e della proliferazione nucleare, fino a pesanti ripercussioni mondiali sull’economia, con aumento dei prezzi e limitazione della circolazione di prodotti e servizi e quindi ritorno di fenomeni come quello dell’inflazione.  Non è facile dirimere questa situazione, soprattutto pensando alla costante mancanza di diritti nel paese cinese e nella volontà di Pechino di esportare il proprio modello, un pericolo dal quale l’Europa deve assolutamente preservarsi.

La pandemia accresce la carestia alimentare mondiale

Uno degli effetti del coronavirus, oltre l’emergenza sanitaria, è l’aumento della povertà e la conseguente insufficienza alimentare per diversi paesi, che, pur in un quadro di povertà, non erano ancora stati investiti dalla carenza di cibo. L’ampiezza del problema riguarda il numero di persone che è stata toccata dalla carenza alimentare: un numero che in crescita che ammonta già a diversi milioni di persone. L’agenzia per il cibo delle Nazioni Unite, che nel 2019 ha assistito 97 milioni di persone, prevede, per il 2020, di fornire il suo aiuto a ben 138 milioni di persone. Come si vede si tratta di una dimensione enorme, la cui crescita è coincisa con lo spostamento della pandemia dai paesi ricchi a quelli poveri del mondo. L’attuale assenza del vaccino impedisce di gestire una situazione che sconfina nel caos e che potrebbe degenerare, a livello locale, in disordini ma che potrebbe investire il mondo a livello globale attraverso un massiccio aumento delle migrazioni. Specie in questo secondo caso sarebbero investiti i paesi ricchi, che hanno dimostrato una scarsa attitudine alla gestione del problema a causa anche dell’insorgere di movimenti nazionalisti, il cui scopo principale è proprio il rifiuto degli immigrati. La contrazione della ricchezza a livello globale sta generando una chiusura progressiva che alimenta l’aumento delle diseguaglianze, un fenomeno che riguarda anche i paesi ricchi, ma che ha le maggiori ripercussioni tra quelli poveri. L’assistenza alimentare non comprende solo più le nazioni poverissime, dove già le popolazioni erano vittima delle carestie alimentari per ragioni climatiche e per la presenza di conflitti armati, ma ora riguarda anche nazioni che avevano economie poco al di sopra di quella di sussistenza o che stavano attraversando una prima fase di industrializzazione. Il blocco economico imposto dalla pandemia ha provocato la contrazione della capacità di reperire i beni primari, quelli alimentari, provocando una crescente denutrizione, che deve essere combattuta prima di tutto per ragioni sanitarie e poi per motivi sociali e politici, anche di politica internazionale, come si è visto. L’agenzia delle Nazioni Unite opera, con i suoi progetti di sostegno, in 83 paesi, ma necessita di continui finanziamenti il cui fabbisogno cresce di pari passo con l’aumento dei contagi. In questo momento per sostenere lo sforzo dell’agenzia della Nazioni Unite occorre un finanziamento di 4,9 miliardi di dollari soltanto per i prossimi sei mesi; l’appello per il reperimento di questa somma è stato lanciato soprattutto verso i paesi ricchi, che avrebbero tutta la convenienza politica a sostenere questa iniziativa, ma che dovranno superare le resistenze interne spesso rappresentate dalle formazioni di destra e populiste. Il dato su cui riflettere è che entro  la fine dell’anno le persone che avranno necessità di sostegno alimentare potrebbero arrivare a ben 270 milioni, con un aumento dell’ottantadue per cento rispetto al periodo precedente l’avvento della pandemia; peraltro dal 2016, le ricadute delle crisi economiche, i cambiamenti climatici e le guerre hanno fatto registrare un aumento del 70% di chi patisce materialmente gli effetti della diminuzione o dell’assenza della disponibilità dei generi alimentari. Si comprende come in un tale scenario le ricadute della pandemia abbiano prodotto un’accelerazione della crescita della fame nel mondo. Attualmente le ricadute sanitarie della pandemia hanno i maggiori effetti sul tema della carenza alimentare nei territori dell’America latina, dove nelle aree urbane, non nelle campagne, la perdita di un numero ingente di posti di lavoro unita al calo delle rimesse degli emigranti ha provocato una elevata necessità di assistenza alimentare. Si comprende come una economia che sta tendendo alla sussistenza ponga problemi futuri anche per i paesi ricchi che detenevano grandi quote di mercato in questi territori, per i loro prodotti commerciali. Ma, per il futuro a preoccupare è il continente africano, alla vigilia della stagione dei monsoni, il settore agricolo è già compromesso dall’invasione delle locuste e la situazione della pandemia appare in crescita, nonostante il problema di reperire dati ufficiali sicuri. L’aumento del 135% delle persone africane che sono in situazione alimentare critica impone uno sforzo da parte dei paesi occidentali che non è più rinviabile, ma per essere efficace dovrà essere solo un primo passo di un progetto più ampio, basato sulla cooperazione internazionale per assicurare ai paesi africani l’indipendenza alimentare effettiva. 

Disinformazione ufficiosa ed ufficiale

Se l’Europa sta lentamente uscendo dall’emergenza della pandemia, il problema delle campagne di disinformazione, diffuse attraverso la rete, provenienti da altri stati, continua ad essere presente e rappresenta un fattore di destabilizzazione all’interno di una popolazione che non è in grado di filtrare la grande massa di informazioni a disposizione. Essenzialmente il fenomeno si può dividere in due grandi parti: la prima riguarda una propaganda non istituzionale, che si esplica attraverso l’azione di società formalmente non espressioni dei governi, ma che il loro operato rende funzionale alle istituzioni nazionali di provenienza, sebbene queste non le riconoscano ufficialmente. Il secondo filone, al contrario, si riconduce  proprio a personaggi che ricoprono cariche istituzionali e fanno la loro opera di disinformazione attraverso canali ufficiali. Del primo gruppo fanno parte organizzazioni, soprattutto, cinesi e russe, che praticano vere e proprie campagne di disinformazione con lo scopo di influenzare ed indirizzare l’opinione pubblica europea verso disposizioni favorevoli a Mosca e Pechino. La mancata provenienza da parte di canali ufficiali mette al riparo i governi russo e cinese da accuse formali, perché queste fonti sono ufficialmente disconosciute dagli esecutivi accusati di essere i mandanti delle false notizie. Oltre all’intenzione di migliorare la propria immagine in campo internazionale, le principali intenzioni sono quelle di compromettere il dibattito democratico favorendo le posizioni più estreme e quindi aumentare la divisione presente nelle società europee, dove la maggiore conseguenza è stata la nascita del sovranismo e l’antieuropeismo, che sono risultati le conseguenze più rilevanti prodotte dalle campagne di falsa informazione. Del resto già prima della pandemia l’azione incessante degli hacker si era sviluppata soprattutto in occasione degli appuntamenti elettorali per orientare il voto verso soluzioni ritenute più favorevoli per stati non democratici. La pandemia ha offerto una via ancora più facile per cercare di influenzare le opinioni pubbliche, soprattutto riguardo alle presunte reali responsabilità dei tempi, modi e cause della diffusione del contagio. L’atteggiamento cinese, in questo senso, ha destato diverse perplessità circa la provenienza del contagio ed il suo effettivo contenimento, soprattutto nelle fasi iniziali, il che ha causato un atteggiamento difensivo del governo di Pechino, spesso attuato con tattiche dubbie. Queste azioni devono essere inquadrate in politiche più ampie che possono essere considerate come veri e propri atti di ostilità verso paesi dove vigono ordinamenti di tipo democratico e dunque potenzialmente dannosi per regimi che hanno problemi con il dissenso interno. I tentativi di destabilizzazione occulta devono fare riflettere quei soggetti che sono membri dell’Unione Europea, sia a livello di singola nazione, che nel suo insieme, sulla reale lealtà di stati che tentano di boicottarli. Questo deve valere sia a livello politico che commerciale, perché stipulare accordi sempre più stretti con paesi non leali può facilitare il compito di inserimento delle organizzazioni che tentano la destabilizzazione. Per Bruxelles si sono ormai create le condizioni per attuare forme di difesa informatiche a livello comunitario, che necessitano di budget più consistenti. La prevenzione deve essere alla fonte, cioè nel contrasto di queste organizzazioni, giacché una adeguata educazione degli utilizzatori di internet è pressoché impossibile per le classi di età già oltre i quaranta anni e può essere intrapresa soltanto con una accurata formazione rivolta alle classi di età più giovani. Tuttavia l’elevata età media delle popolazioni europee e la scarsa abitudine a discernere le notizie, giunta con un uso sempre più spinto delle nuove tecnologie, anche a livello lavorativo, costituisce una facilitazione della penetrazione delle notizie false e fuorvianti. Questa condizione agevola anche le false notizie che provengono da profili istituzionali, i cui esempi più eclatanti sono il presidente USA, Trump e quello brasiliano, Bolsonaro. Spesso l’utente di internet non distingue l’opinione personale dalla falsa notizia e quello, che alla fine, è soltanto un parere, diventa una informazione fuorviante. Il tema qui è quello di usare canali istituzionali per provocare ricadute anche su stati esteri; il contrasto a queste operazioni, per certi versi, è ancora più difficile perché l’unico contrasto possibile è assicurare una risposta ufficiale contraria e puntuale, capace di coinvolgere la medesima platea di ascolto. Su questi piani si gioca la partita che riguarda la rete e la ricerca delle contromisure alla disinformazione.

Pandemia, povertà e contrasto alla diseguaglianza

Gli effetti della pandemia non saranno soltanto quelli attuali, che sono ancora in corso e che sono prima di tutto di natura sanitaria. Con il solo abbassamento del contagio, non certo debellato, occorre però analizzare gli effetti, che già sono in corso, a livello economico, non solo di tipo locale ma con uno sguardo più vasto, di tipo macroeconomico. Uno degli effetti più pesanti previsti riguarda trenta milioni di persone, che vedrebbero la propria condizione peggiorare fino ad entrare nello stato di povertà estrema; questa stima, che riguarda soprattutto il continente africano, investe una moltitudine di conseguenze, che vanno ben aldilà del fondamentale aspetto morale. Una condizione così diffusa di povertà inquadrata nell’attuale contesto globalizzato non potrà non investire i flussi migratori, la maggiore facilità di reclutamento da parte di gruppi terroristici e le problematiche connesse al reperimento ed alla distribuzione delle risorse alimentari. Risulta chiaro che i paesi occidentali, specialmente quelli che si affacciano sul Mediterraneo, saranno presto sottoposti a pressioni più intense, che si rifletteranno sui rapporti tra gli stati e nelle dinamiche al loro interno; inoltre queste problematiche si sommeranno al calo del prodotto interno lordo che i paesi più ricchi stanno, peraltro già subendo. La previsione media riguarda una diminuzione circa del cinque per cento, ma per alcune nazioni questa diminuzione sarà ancora maggiore. Si capisce che le possibili conseguenze combinate dai fattori esterni ed esterni debbano essere affrontate con politiche capaci di procedere in modalità parallela e senza essere lasciate alla competenza dei singoli stati, che deve essere mitigata da organizzazioni sovranazionali, capaci di una maggiore capacità di manovra. Questo non vuole dire esautorare la sovranità dei singoli stati, che devono conservare le loro peculiarità, ma concentrare il maggior sforzo oneroso, in termini di organizzazione pratica, in organizzazioni più grandi, comunque controllate dalle singole nazioni. Il solo controllo sanitario, certamente essenziale, da solo non basta a scongiurare crisi economiche e quindi sociali; risulta essenziale la protezione dei posti di lavoro e dei redditi e quindi la capacità di spesa, specialmente a partire dai soggetti più deboli dell’insieme sociale. Questa considerazione investe a livello globale la necessità di contenere, in una prima fase, il fenomeno della diseguaglianza, per poi estendere le misure per cercare di attenuala il più possibile. Si tratta di uno sforzo enorme, che, purtroppo, non è condiviso a livello universale, sia da forze politiche, che da governi, ma che potrebbe avere effetti pratici sia dal punto di vista della politica interna, che di quella internazionale. Sul lungo periodo, cioè entro il 2030 le stime prevedono la possibilità di un aumento della povertà estrema per 130 milioni di persone, provocando uno stato di tensione sempre più alto, oltre che permanente. Secondo gli economisti delle Nazioni Unite misure di grande stimolo fiscale e monetario usate in maniera indiscriminata rischierebbero di essere deleterie, senza modalità di uso selettivo, capaci di contenere i fenomeni provocati dall’inflazione. Una iniezione di grande liquidità non orientata agli orientamenti produttivi rischierebbe di essere funzionale alla speculazione borsistica senza creare valore diffuso. Gli investimenti stanziati a seguito della pandemia devono essere orientati verso attività produttive capaci di creare lavoro e quindi reddito da redistribuire nella maniera più ampia possibile per permettere di attenuare gli effetti economici e sociale della crisi sanitaria. Ora questo è vero nelle società più evolute e complesse, ma ancora è più determinante nei paesi in via di sviluppo, che non deve vedere compressa quella tendenza economica di crescita che consente di aumentare i redditi medi pro capite, ancora troppo vicini ai redditi di sopravvivenza. Quello che è necessario comprendere è che oltre certi limiti non è più possibile comprimere i redditi dei paesi poveri, perché ciò provoca ricadute politiche in grado di compromettere equilibri già poco stabili, che si riflettono nella sfera economica e sociale globale. La pandemia, che tanti lutti e povertà ha portato sulla scena mondiale, deve essere anche una occasione per ripensare l’allocazione delle risorse globali in modo da favorire un piano complessivo di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale in grado di assicurare un livello di redistribuzione capace di intaccare le diseguaglianze, per investire nella ricerca di un livello minimo di ricchezza da assicurare per tutti.

Le minacce informatiche fattore di destabilizzazione

Se tra le grandi potenze, almeno per il momento, l’ipotesi di una guerra convenzionale pare scongiurata, il confronto tra avversari è spostato su metodologie alternative, certo meno cruente, ma, che se inquadrate nell’attuale contesto, possono produrre gravi conseguenze. Aldilà degli sgarbi e delle lotte in campo commerciale, che pure rappresentano momenti di elevata tensione, la questione degli attacchi informatici verso paesi stranieri o organizzazioni sovranazionali, è la vera emergenza attuale del confronto tra gli stati. Con la recente pandemia si sono moltiplicati gli attacchi verso strutture sanitarie e centri di ricerca, soprattutto per rubare informazioni sullo stato di avanzamento della ricerca per vaccini e farmaci contro il Covid-19.  La portata di questi attacchi contro gli Stati Uniti potrebbe compromettere il funzionamento delle strutture sanitarie americane, per cui si comprende la grande preoccupazione con cui vengono seguiti questi casi. Gli USA hanno accusato principalmente hacker cinesi ed iraniani di questi ripetuti attacchi, tuttavia i pericoli vengono anche da personale russo, come già accaduto in precedenza nei casi di competizioni elettorali. Il recente sfogo di Angela Merkel contro l’ingerenza informatica di Mosca, ha dimostrato come lo scorretto comportamento informatico possa danneggiare atteggiamenti positivi vero paesi che si rendono protagonisti di pratiche non corrette. Il problema è stato rilevato anche dal Segretario dell’Alleanza Atlantica dopo i ripetuti casi di sabotaggio informatico, che l’istituzione di Bruxelles ha dovuto subire e contro cui si è dovuta cautelare. Quello che emerge è che se non è presente una alleanza formale ed ufficiale contro gli Stati Uniti, ed in parte anche contro i suoi alleati, l’azione di Mosca, Pechino e Teheran sembra muoversi in modo univoco nell’ambito della guerra informatica. L’intento è apparso chiaro soprattutto nell’occasione di elezioni: l’azione degli hacker hanno promosso azioni per favorire partiti sovranisti ed antisistema in maniera funzionale ad interessi particolari, che tendevano cioè a dividere le alleanze sovranazionali ed a facilitare lo spazio di manovra di movimenti che hanno nel loro programma politico l’intenzione di contenere l’influenza di organizzazioni sovranazionali. Il caso dei tentativi ripetuti boicottaggi di partiti favorevoli ad una maggiore integrazione europea e, quindi, indirettamente alla stessa Unione Europea, segnala il progetto di ottenere una divisione degli stati per avere un rapporto di tipo bilaterale e quindi con minore potere contrattuale, rispetto ad accordi da stipulare con Bruxelles, che è funzionale a Mosca, ma non solo. Il controllo delle reti informatiche assume così un valore fondamentale in un quadro generale dove il ricorso diretto alle armi è ormai visto come l’ultima opzione praticabile. Su questa riflessione diventa centrale lo sviluppo tecnologico della rete 5G, sulla quale la Cina sviluppato grandi investimenti per vendere e diffondere la propria infrastruttura al resto del mondo. Ma oltre la semplice costruzione di apparecchiature, si deve operare una riflessione profonda sulla volontà cinese di trasformare la rete internet verso nuovi parametri più stringenti e controllabili in aperto contrasto con gli standard di apertura, libertà e pluralismo, che hanno contraddistinto l’uso della rete fin dalla sua nascita. L’approccio cinese è condizionato da una visione che coincide con la visione politica che Pechino ha delle libertà individuali e dei diritti: sotto questo aspetto la nuova rete che la Cina per ora propone non fornisce le garanzie di pluralismo attuali, compresse da uno uso eccessivo del controllo e della censura. Se queste condizioni diventassero lo standard vigente, le questioni delle intrusioni degli hacker sarebbero superate da una sorta di legalità tecnologica data dalla nuova impostazione dei parametri della navigazione. Certamente ciò potrebbe essere allettante anche per altri governi, perfino nell’area occidentale, ma barattare un maggiore controllo interno con la possibilità di essere sottomessi, dal punto di vista informatico, ad una sola potenza deve fare operare una riflessione profonda sull’acquisto di tecnologie costruite per essere pronte a venire impostate in specifiche modalità. Viste con questa ottica e con i numerosi precedenti le pressioni americane per sviluppare propri apparati per la rete 5G e la ricerca di imporre ai suoi alleati occidentali il rifiuto delle apparecchiature cinese è condivisibile. Però l’Europa dovrebbe essere in grado di recitare un proprio ruolo autonomo, anche dal punto di vista prettamente costruttivo, della tecnologia 5G e soprattutto essere in grado di imporre la volontà del mantenimento degli standard attuali di libertà dell’uso della rete internet mondiale.