La via spagnola ed olandese per l’autonomia strategica e produttiva dell’Unione Europea, come alternativa alle visioni francese e tedesca

Dopo i quattro anni di Trump è in corso di miglioramento, per tornare sui livelli precedenti al penultimo inquilino della Casa Bianca, il rapporto tra USA ed Unione Europea, che rappresenta il fulcro della strategia nel campo occidentale di Washington. I ripetuti incontri, quelli già effettuati ed i prossimi, segnalano una volontà comune di entrambe le parti di rinsaldare i rapporti, soprattutto in una fase mondiale molto delicata e segnata dal peggioramento dei rapporti con la Cina, la Russia (che afferma la necessità strategica di tagliare i legami con Bruxelles), la Turchia, l’Iran ed altre situazioni potenzialmente pericolose ed in grado di variare profondamente gli assetti e gli equilibri attuali. Nonostante l’importanza riconosciuta da tutti i membri dell’Unione, circa il rinnovato legame con gli Stati Uniti, in Europa continua il dibattito, già obbligatoriamente iniziato durante la presidenza Trump, della necessità di una maggiore autonomia della principale organizzazione del vecchio continente, per raggiungere lo scopo di incidere in maniera efficace negli scenari mondiali con una capacità autonoma strategica e militare, ma da integrare, soprattutto con l’arrivo della pandemia, in una indipendenza produttiva, sia nella materia della medicina, che delle telecomunicazioni e di altre capacità industriali da conquistare per arrivare ad una posizione di autonomia ed indipendenza da altri soggetti: siano alleati o avversari. La questione non ha facile soluzione, perché la visione dei membri dell’Unione non è univoca e le decisioni, che dovrebbero essere rapide, sono condizionate da meccanismi di unanimità, che costituiscono il mezzo per esercitare veti e reciproci ricatti funzionali all’interesse dei singoli stati a svantaggio dell’interesse comune dell’Unione. Sostanzialmente sono due gli orientamenti maggiori, che si differenziano per il diverso atteggiamento su questo tema, centrale per lo sviluppo dell’Europa. Da una parte quello guidato dalla Germania, che propendono per la continuazione della protezione americana, attraverso l’Alleanza Atlantica e, dall’altra, l’idea francese, che ritiene essenziale trovare una autonomia europea, seppure, sempre all’interno del campo occidentale. La visione tedesca pare condizionata troppo dall’interesse particolare di Berlino, che non vuole cedere sovranità per tutelare la sua indipendenza economica, con la quale condiziona e comanda, come azionista di maggioranza l’Unione. Il parere di Parigi ricalca la grandeur francese e la vuole trasportare in Europa per fare del vecchio continente un protagonista in grado di incidere autonomamente sui temi globali. Occorre anche dire che se con la presidenza Biden si ritorna ad una situazione gradita alla Germania, l’esperienza Trump ha messo in rilievo che non esistono rendite di posizione acquisite e la necessità di una autonomia strategica europea diventa irrinunciabile se Washington adotta comportamenti di isolamento anche dai suoi abituali alleati. Dunque in questa fase la Germania può avere un atteggiamento attendista, ma resta vero, che anche con una situazione ottimale come quella presente, l’Unione si muove senza una propria identità da spendere sullo scenario internazionale, perché sempre sotto la tutela americana e questo vuole dire rinunciare a vantaggi e la possibilità di sottolineare in modo efficace la propria posizione. Di fronte a queste due tendenze i governi di Spagna ed Olanda cercano una via alternativa che possa consentire l’intervento nelle questioni globali, certamente attraverso una forza armata comune, ma anche con una capacità autonoma nel settore industriale, da perseguire non più con l’unanimità, ma con la maggioranza delle adesioni degli stati membri, cioè attraverso una nuova definizione di sovranità, che possa consentire risposte rapide e sganciate dalle organizzazioni sovranazionali in cui l’Europa è inserita, ma che spesso, hanno interessi contrastanti con Bruxelles e funzionali agli interessi del momento dei partner maggiori. Si tratta di una soluzione tutta da percorrere, ma che traccia una via chiara, anche nei confronti di chi rimane in Europa soltanto per avere i finanziamenti, senza condividerne gli scopi. La rinuncia a parti consistenti di sovranità appare un requisito imprescindibile ed in aperto contrasto con le visioni francesi e tedesche ed anche i rapporti tra stati settentrionali con quelli mediterranei sono un ostacolo perché conflittuali nei rispettivi interessi, tuttavia cominciare a discutere di una opportunità che sia anche in grado di sovvertire le gerarchie attuali, appare come una opportunità unica ed irrinunciabile per fare del mercato più ambito del mondo anche un indiscusso protagonista, capace di diffondere ed affermare la propria visione in competizione con i soggetti internazionali che ne hanno ora il monopolio.     

Londra aumenterà il suo arsenale nucleare

Fin dal suo arrivo al potere Boris Johnson ha avuto l’intenzione di effettuare una revisione della sicurezza del Regno Unito di fronte ai mutamenti della scena politica internazionale ed alle nuove minacce che derivano dalla variazione degli interessi geostrategici che sono seguiti ai diversi assetti di potere, causati soprattutto dalla globalizzazione. Su questa intenzione ha influito l’uscita dall’Unione Europea, che ha richiesto un nuovo disegno della strategia di difesa da parte di Londra. Nonostante la pandemia abbia rallentato questo processo le minacce principali che il governo inglese valuta come più pericolose restano la Russia e la Cina, ed entrambe sono potenze nucleari. Questa considerazione è alla base della nuova volontà inglese di cambiare la sua politica di non proliferazione nucleare e di andare verso un rafforzamento dell’arsenale atomico. Pur restando all’interno dell’Alleanza Atlantica, come uno dei principali membri, l’uscita da Bruxelles, obbliga Londra ad agire come uno dei principali paesi con una strategia di difesa non coordinata ad altre organizzazioni sovranazionali, ma basata sulla propria indipendenza e singolarità. Ciò non vuole dire che Londra non intenda collaborare con gli alleati occidentali, ma che, in prima battuta, in caso di minacce, voglia disporre di una autonomia decisionale e di disponibilità di armi tale da rispondere anche da sola ad attacchi potenziali. La previsione è quella di aumentare le proprie testate nucleari da 180 a 260, per incrementare anche una deterrenza preventiva, che ricorda la strategia della guerra fredda, qui, però, applicata oltre la logica bipolare. Londra si impegna a non utilizzare le armi atomiche contro quegli stati che hanno firmato nel 1968 il Trattato di non proliferazione nucleare, tuttavia questo impegno potrà essere rivisto in caso di minacce nei suoi confronti da parte di paesi con arsenali contenenti analoghe armi atomiche, chimiche, biologiche o comunque di capacità comparabile derivanti dal progresso tecnologico futuro. Il Regno Unito individua come principali minacce Cina e Russia, però verso Pechino l’atteggiamento di Londra pare più cauto: anche se la Repubblica Popolare è vista come una sfida di sistema ai valori e principi britannici, le relazioni commerciali tra le due parti devono continuare fino a che la reciproca collaborazione potrà essere compatibile con gli interessi inglesi e ciò non deve precludere a sfide comuni come quella contro il cambiamento climatico. Peggiori si configurano le relazioni con Mosca, con la quale il terreno di scontro è stato sull’attività dei servizi segreti russi sul suolo inglese, più volte implicati in violazioni, omicidi ed attentati, secondo Londra. Su questo versante l’aumento dell’arsenale nucleare non sembra essere uno strumento diretto a scongiurare la volontà russa di operare con i suoi metodi discutibili, tuttavia è innegabile una valenza di deterrenza ì, anche simbolica, che Londra vuole assumere per avvertire i propri rivali. Se la volontà di effettuare una proliferazione nucleare è sempre una cattiva notizia, anche per gli USA, Washington non può, però, non apprezzare la volontà espressa da Londra di una maggiore collaborazione e cooperazione, soprattutto dopo la sostituzione del presidente Trump, una personalità che ha spesso causato scontri con i primi ministri inglesi, con Biden, ritenuto un interlocutore più affidabile. La decisione di aumentare l’arsenale nucleare ha prodotto pesanti critiche nel Regno Unito, perché interrompe una lunga serie di primi ministri, sia conservatori, che laburisti, che si sono impegnati nella riduzione degli ordigni atomici. Un’ultima considerazione è ancora necessaria: che una personalità controversa e spesso imprevedibile come Boris Johnson abbia a disposizione un arsenale nucleare ancora più grande, non è una buona notizia per gli assetti mondiali ed i loro equilibri; infine la credibilità di uno dei membri del trattato sul nucleare iraniano, che aumenta la sua potenza atomica assume un significato molto equivoco: se Teheran dicesse che vuole la bomba atomica a scopo di deterrenza contro quelle che ritiene minacce, cosa potrebbe controbattere Londra?

Gli USA vicini al rientro nell’accordo per il nucleare iraniano

Il trattato sul nucleare iraniano, sottoscritto nel 2015 da Iran, Unione Europea, Germania e dai membri permanenti delle Nazioni Unite: USA, Cina, Francia, Inghilterra e Russia aveva lo scopo di impedire la proliferazione degli armamenti nucleari nella Repubblica islamica, garantendo a Teheran una minore pressione delle sanzioni economiche già imposte da Washington. Con l’elezione di Trump, gli USA invertirono il proprio comportamento adottando l’abbandono unilaterale dal trattato, con il conseguente reinserimento di nuove sanzioni energetiche e finanziarie contro l’Iran e contro chi avrebbe mantenuto rapporti commerciali con Teheran. Il cambiamento di atteggiamento americano, condizionato dalla vicinanza strategica di Trump con Israele ed Arabia Saudita, fu caratterizzato dalla così detta strategia di massima pressione, che secondo l’ex presidente degli Stati Uniti, avrebbe dovuto portare ad azzerare la volontà di possedere armamenti nucleari iraniana, mediante una politica di sanzioni più dura. In realtà, Teheran, pur sottoposto ad una situazione particolarmente pesante a causa dell’aumento dell’inflazione, del deprezzamento della propria moneta e di una grave recessione, provocate dall’atteggiamento della Casa Bianca, ha intrapreso una politica di arricchimento dell’uranio, sviluppando una tecnologia, che seppure non è stata ancora in grado di arrivare alla creazione della bomba atomica, ha creato grave apprensione, sia a livello regionale, che globale. Il fallimento della strategia statunitense di Trump, e dei suoi alleati israeliani e sauditi, ha compreso anche l’innalzamento del livello della tensione causato dagli attentati in cui sono morte personalità iraniane coinvolte nei programmi di ricerca per l’arricchimento dell’uranio. Il nuovo presidente americano Biden, fin dalla campagna elettorale, ha inserito nel proprio programma di politica estera la possibilità del rientro degli USA nell’accordo sul nucleare iraniano, valutando negativamente le conseguenze dell’uscita che si sono concretizzate in un isolamento internazionale degli Stati Uniti e nella maggiore precarietà degli equilibri regionali. Biden ha chiesto un cambio di atteggiamento preventivo degli iraniani, con una riduzione dell’attività nucleare, in cambio del quale l’Iran ha proposto una prima riduzione delle sanzioni, come segno tangibile di buone intenzioni per la prosecuzione delle trattative. A questo scopo sarà anche fondamentale la ripresa del dialogo tra i funzionari iraniani e l’Agenzia per la ricerca atomica, per favorire le ispezioni delle centrali nucleari; a questo scopo fin dal prossimo mese di aprile si aprirà un ciclo di incontri per stabilire reciprocamente le regole delle ispezioni; frattanto il presidente iraniano ha deciso autonomamente di sospendere le operazioni per l’arricchimento di uranio, che ha determinato il ritiro della mozione di sfiducia di alcuni paesi europei contro l’Iran, proprio presso l’Agenzia atomica. I segnali di distensione sembrano indicare la possibilità della ripresa pratica dell’accordo, grazie anche all’impulso dell’azione di stati come la Germania e la Russia, che si sono esposte per ripristinare la situazione precedente all’ascesa di Trump alla Casa Bianca, tuttavia lo sviluppo positivo potrebbe essere garantito soltanto dalla permanenza di Biden o comunque di un democratico nella più alta carica statunitense. Come dimostrato, infatti, dall’assurdo comportamento di Trump, il ritiro unilaterale dall’accordo non ha comportato alcuna sanzione per che questo ritiro ha effettuato, contravvenendo alla firma ed agli impegni assunti dal proprio, senza una violazione accertata da parte di Teheran, ma soltanto per una diversa valutazione politica dell’accordo stesso. Questa situazione, quindi può garantire quattro anni di mantenimento dell’accordo, ma non può impedire la situazione che si è creata con Trump. Nonostante questa considerazione, che deve essere tenuta comunque ben presente, bisognerà favorire in questo lasso di tempo un differente approccio con l’Iran, permettendo alla sua economia di crescere, in maniera di favorire la creazione di una rete di legami, sia diplomatici, che commerciali, in grado di garantire una differente modalità di considerare l’arma atomica da parte degli iraniani. Se Teheran si atterrà al rispetto della non proliferazione nucleare per tutto questo periodo conseguirà una credibilità sufficiente a non provocare il ritiro unilaterale, anche di fronte ad una rielezione di Trump o di un suo emulo. Pur restando  sostanziali differenze e contrasti in politica estera con l’occidente, l’obiettivo di non avere una nuova bomba atomica in una regione così delicata del mondo, deve essere conseguito con una priorità assoluta.

Il possibile procedimento contro il principe ereditario saudita in Germania, come nuova forma di lotta contro i crimini contro l’umanità

La denuncia dell’associazione Reporter senza frontiere, depositata in Germania, con un dossier di 500 pagine, contro il principe ereditario Mohamed bin Salman ed altri membri della sua cerchia, accusati per l’omicidio del giornalista, avverso al regime, Jamal Khasoggi, avvenuto in Turchia nel 2018, diventa un’arma giuridica dell’occidente contro l’Arabia Saudita. Questa iniziativa arriva dopo che il presidente Biden ha tolto il segreto al dossier della CIA, voluto da Trump, sulle responsabilità effettive, come mandante dell’omicidio del giornalista. La quasi contemporaneità delle due iniziative dimostra come il legame tra USA ed Unione Europea si è rinsaldato con il nuovo inquilino della Casa Bianca. In realtà manca ancora il pronunciamento del pubblico ministero del tribunale dove è stata presentata la denuncia, ma il proseguimento dell’azione legale è dato per scontato, anche se la Germania non ha alcun legame con la vicenda, i tribunali tedeschi dovrebbero dichiararsi competenti sui fatti per effettuare un procedimento contro presunti crimini contro l’umanità, grazie alla conformità delle leggi tedesche ed al principio del diritto internazionale della giurisdizione internazionale. Deve essere specificato che si tratterà soltanto di una azione senza alcun effetto pratico, dato che è scontato il rifiuto, in caso di condanna, di estradizione da parte dell’Arabia Saudita, che ha espresso molto chiaramente il proprio atteggiamento sulla vicenda condannando, prima alla pena di morte, poi commutata in pene detentive, imputati di cui non sono state fornite le generalità, il che potrebbe volere dire che la condanna è stata emessa contro nessuno e soltanto per salvare le apparenze per i rapporti con l’occidente; tuttavia il valore politico di effettuare soltanto un procedimento contro una delle massime cariche saudite per violazioni contro l’umanità, assume un chiaro significato di discredito verso il principe ereditario, che lo squalifica nei rapporti di tipo diplomatico che intenderà intraprendere con altri soggetti internazionali. La Germania può essere una sorta di capofila per i paesi occidentali nella tutela dei crimini contro l’umanità, usati in maniera funzionale come azione diplomatica e quale discriminante dei rapporti internazionali; certamente si è all’inizio di un processo di questo tipo, del quale si dovrà valutare attentamente le implicazioni e le ricadute sui rapporti commerciali ed economici tra gli stati. A questo proposito deve essere considerato con attenzione l’atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti: Washington ha reso pubblico il rapporto che svela la responsabilità del principe ereditario, ma non ha emesso alcun procedimento o sanzione contro di lui, limitandosi a esprimere il proprio diniego dai rapporti istituzionali con il principe e considerando legittimo come interlocutore soltanto il regnante attuale. Si tratta di una posizione dettata dalla necessità di mantenere gli attuali legami con il regno Saudita, basati su reciproca convenienza di carattere geopolitico, tuttavia nel caso il principe ereditario diventasse il legittimo, per le leggi saudite, nuovo sovrano del paese, il problema non potrebbe essere di facile soluzione. Quello che appare è che si sta provando a gestire con una nuova metodologia, situazioni purtroppo già ben presenti da tempo, ma la domanda è se queste pratiche potranno valere a livello universale o se saranno usate solo per casi sporadici, secondo le esigenze contingenti o le convenienze del momento. Ad esempio il caso più eclatante è la Cina, che, malgrado le difficoltà attuali, intrattiene rapporti commerciali con tutto l’occidente, ma ha anche comportamenti sicuramente colpevoli verso gli Uiguri, contro i quali è in atto una feroce repressione che alcuni giudicano come un vero e proprio genocidio, così come nei confronti della protesta di Hong Kong, senza contare l’atteggiamento verso il Tibet ed il dissenso interno; tutto materiale sufficiente per una serie di processi per crimini contro l’umanità. Queste considerazioni valgono per molti altri stati, compresi la Russia e l’Iran, con il quale l’occidente cerca di riallacciare i rapporti sul nucleare interrotti da Trump. La questione è molto ampia ed ha ostacoli non facilmente sormontabili, ma, in questo momento, è importante sottolineare l’inizio di pratiche giurisdizionali, la cui applicazione potrebbe rappresentare il futuro della lotta ai crimini contro l’umanità: un percorso difficile ma che merita di essere sviluppato e collegato ai rapporti tra gli stati, proprio per emarginare ed isolare quei soggetti internazionali responsabili di queste violazioni.    

Calcio e diritti umani: il caso delle vittime in Qatar

Esiste un problema morale che investe il calcio internazionale: l’organizzazione dei mondiali del 2022 in Qatar. Secondo una inchiesta del quotidiano “Guardian”, le vittime tra gli operai che lavorano alla costruzione degli stadi, sarebbero già arrivate a 6.500. Sulla triste contabilità non giungono commenti dagli atleti e dai dirigenti, che tacciono su di un’ecatombe al loro servizio. Le condizioni di lavoro, disumane al limite dello schiavismo, che riguardano lavoratori non tutelati e mossi esclusivamente dal bisogno, dovrebbero essere sufficienti per mobilitare i miliardari che saranno i protagonisti degli incontri di gioco, che si svolgeranno su strutture costruite sul sangue degli operai provenienti da Nepal, India, Bangladesh, Pakistan, Filippine e Kenya. Questi lavoratori sono privati di ogni diritto, perfino quello di licenziarsi, perché viene loro ritirato il passaporto e le condizioni igieniche in cui vengono fatti vivere, sono esse stesse una causa che contribuisce all’incremento del numero dei decessi. La media di due vittime al giorno, potrebbe essere addirittura una stima effettuata per difetto, perché le autorità non permettono la circolazione delle notizie e forniscono la cifra ufficiale di appena 37 vittime a causa degli incidenti sul lavoro. Certo la strategia di non volere ricomprendere tra i morti coloro che sono deceduti per infarto, stress, caldo ed altre patologie, seppure direttamente collegate all’attività nei cantieri, riduce il conto totale, ma la scarsa considerazione dei lavoratori stranieri, sacrificati allo svolgimento della manifestazione calcistica resta una grossa macchia sull’intero movimento calcistico internazionale. Occorre ricordare che, comunque, lo sforzo costruttivo riguarda non solo la costruzione degli impianti sportivi, ma anche tutta una serie di infrastrutture che serviranno per lo svolgimento pratico del mondiale, come strade, aeroporti, sistemi di comunicazione integrati ed hotel per accogliere le delegazioni delle squadre impegnate nelle gare. Se le smentite del Qatar possono apparire scontate in una logica di un paese che non è una democrazia, meno coerente appare il comportamento dei vertici del calcio mondiale, peraltro già avvisati da una stima, peraltro superata, del 2013, effettuata da parte di una organizzazione sindacale internazionale, che parlava di una previsione di 4.000 vittime; così come tacciono le associazioni dei calciatori: una omertà incomprensibile ed ingiustificata, se non dalla visione finanziaria del ritorno dell’investimento di un mondiale giocato a quelle latitudini. Il 2022 è molto vicino, ma una reazione giustificata, in un mondo ideale, potrebbe essere il boicottaggio degli atleti e delle nazioni ad un mondiale viziato da una situazione di partenza così pesante: una reazione che potrebbe essere compresa e capita dalla grande parte dei tifosi ed appassionati di calcio. La dirigenza internazionale, frattanto, potrebbe, almeno, effettuare una inchiesta sulle reali condizioni di lavoro di chi finora è stato impiegato nella costruzione di una manifestazione, che potrebbe ritorcersi proprio contro il calcio mondiale. Anche gli sponsor dovrebbero valutare il loro appoggio a questi mondiali, la sensibilità dei consumatori è molto aumentata di fronte a certe tematiche ed anche la risposta dei telespettatori potrebbe subire una diminuzione, che potrebbe avere spiegazioni coerenti con le reazioni a questo stato di cose. In ogni caso lo sport non doveva essere mischiato con pratiche di così basso livello per il rispetto dei diritti umani.    

Pandemia e terrorismo

Attualmente le maggiori preoccupazioni del mondo sono incentrate sulle ricadute della pandemia a livello sociale ed economico, ma le prospettive di attenzione sono scarsamente incentrate sugli sviluppi globali a vantaggio di una attenzione dei singoli stati verso la rispettiva situazione interna: si tratta di una visione comprensibile ma oltremodo ristretta, che tralascia e trascura altre emergenze a livello internazionali, i cui attori sono pronti a sfruttare questa disattenzione per volgerla a proprio vantaggio. Rientra senz’altro in questa casistica la questione del terrorismo a livello mondiale, che sembra svilupparsi maggiormente in due direzioni, soltanto apparentemente contrarie. Il riferimento è al terrorismo religioso di matrice musulmana, che, nonostante le sconfitte patite sul terreno dallo Stato islamico e da Al Qaeda, ha saputo ritagliarsi nuovi spazi, che, seppure per ora ridotti, promettono interessanti sviluppi per il radicalismo islamico. La seconda emergenza è lo sviluppo ed il consolidamento del terrorismo di matrice razzista, che si sviluppa grazie alla nuova diffusione delle idee e dei movimenti di estrema destra, spesso troppo tollerati, ma anche sostenuti da apparati governativi per ragioni funzionali. L’emergenza pandemica ha provocato un aggravamento della situazione economica a livello mondiale, la cui prima ricaduta ha riguardato, a livello mondiale, una minore attenzione ai diritti umani: questo tema è intimamente connesso con la lotta al terrorismo, perché proprio le basi culturali del rispetto dei diritti costituiscono il primo ostacolo, sia politico che pratico, per impedire la diffusione del terrorismo islamico, che ha preso di mira i vasti settori della fede musulmana, specialmente presenti in occidente, che sono collocati ai margini della società, patendo situazioni di scarsa inclusione sociale ed economica. Il terreno dello scontro si sposta dai territori mediorientali a quello dello spazio web, dove grazie alla competenza dei reclutatori nello sfruttare i social web, viene aumentato il proselitismo, con la conseguenza di creare una elevata capacità di reclutamento e potenziale mobilitazione in ogni angolo del mondo. Queste pratiche hanno avuto particolare successo nell’Asia meridionale, nel sud est del continente asiatico, in Africa orientale e meridionale, nel Sahel e nel bacino del Lago Ciad. Si tratta di territori situati in zone nevralgiche per i commerci internazionali o strategici per regolare la potenziale immigrazione verso le zone più ricche del globo. Per questi motivi è importante contrastare il fenomeno dello sviluppo del web della diffusione del proselitismo del radicalismo con strumenti culturali, in grado di fare comprendere gli errori di fondo che stanno alla base del messaggio violento, associati, però, a pratiche di aiuto concreto; questo secondo punto è più difficoltoso da attuare proprio a causa della compressione  dello sviluppo economico dovuto alla pandemia: per questo è necessario uno sforzo coordinato a livello sovranazionale e dall’intesa di più stati inquadrata in una visuale multilaterale; una necessità recepita anche dagli uffici preposti delle nazioni Unite per la lotta al terrorismo. Ma la pandemia ha favorito anche lo sviluppo di una tendenza che era registrata comunque in crescita, quella dell’estremismo di destra, e che ha saputo sviluppare temi come il negazionismo sanitario, connesso con il rifiuto delle misure di precauzione sanitarie elaborate dagli stati, convogliando la rabbia di interi settori sociali duramente provati dalla crisi e senza l’adeguato sostegno economico. L’estremismo di destra, basato anche su questioni razziali, è stato sostenuto da apparati statali in modo più o meno evidente, come accaduto negli Stati Uniti o in paesi europei, dove leggi liberticide hanno favorito le negazioni di diritti civili, politici e di espressione, creando le condizioni per una sorta di proselitismo nelle democrazie occidentali. Occorre prestare attenzione a questo tipo di terrorismo subdolo, che spesso apprezza la pratica cinese di assicurare impiego e benessere in cambio di diritti, perché costituisce un motivo di pericolo proprio per le fondamenta del pensiero occidentale. Certo l’emergenza principale si manifesta con l’attività dei gruppi della destra estrema, spesso fiancheggiati in modo semi nascosto dai partiti e movimenti sovranisti e nazionalisti, che riconoscono in questi estremismi un loro serbatoio elettorale. Questo tipo di terrorismo ha un terreno comune con il radicalismo islamico sui modi di usare le nuove tecnologie e di sfruttarle per il proprio proselitismo: una questione che pone all’ordine del giorno una modalità di regolazione dei social media, senza però sconfinare nella censura.  

Dalla sconfitta di Trump può partire la lotta al populismo

La sconfitta di Trump deve essere analizzata su di un panorama più ampio dei confini statunitensi, soprattutto dal punto di vista politico si deve guardare a come il risultato elettorale sfavorevole al campione del populismo possa avere ripercussioni a livello generale ed anche particolare nella vasta corrente mondiale, che si richiama ai valori del populismo, che, pur essendo maggiormente presente nei partiti e movimenti di estrema destra, non è di esclusivo appannaggio di questa parte politica, avendo seguaci anche in alcuni movimenti di estrema sinistra. Il primo interrogativo è se questa sconfitta possa influire, a cascata, sulle tendenze elettorali future. Un tratto distintivo di Trump al potere è stato quello di sdoganare praticamente tutti gli atteggiamenti politicamente scorretti e stigmatizzati dalle forze politiche tradizionali; deve essere però specificato che questa tendenza era già in atto e che Trump ha solo avuto il merito di aumentare a livelli fino ad allora sconosciuti, le modalità con cui superare i tabù politici, liberalizzando idee e comportamenti, che fino ad allora non erano esternate e praticate proprio per i limiti imposti dalla cultura politica vigente. La crescita di un ceto dirigente non sufficientemente preparato e avulso dalla normale dialettica politica, perché cresciuto in settori sociali caratterizzati da una visione limitata e relativa ad interessi particolari, sia di natura economica, che territoriale, ha certamente facilitato l’affermazione del populismo a livello mondiale e questa caratteristica, unita ad una legittima sfiducia nelle forze politiche tradizionali anche da parte degli elettorati che non gradiscono la svolta populista, impedisce di pensare che nel breve periodo, si possa verificare una contrazione significativa del gradimento dei valori populisti. D’altra parte l’aspetto contrario è costituito dalla capacità di mobilitazione delle forze anti populiste dovuto proprio alla profonda avversione suscitata da personaggi come Trump; questo aspetto, però, segnala una debolezza intrinseca che i partiti tradizionali dovranno superare già nell’immediato futuro: l’incapacità di suscitare consenso circa i loro aspetti programmatici, capaci per il momento, di riscuotere consensi ancora inferiori rispetto alla contrarietà al populismo, capace di aggregare e fare ritornare alle urne elettori di idee anche opposte, tipo centro destra unita con la sinistra. Su questo aspetto si evidenzia la necessità che la leadership del nuovo presidente americano non sia limitata agli Stati Uniti, ma possa rappresentare un elemento, a livello mondiale, capace di trainare quelle forze progressiste e che fanno parte dei conservatori classici, che, pur mantenendo le rispettive differenze, arrivino ad essere in grado di fare fronte comune contro l’ideologia populista. In effetti la riflessione deve vertere sulla capacità di rimanere attuali le cause che hanno favorito lo sviluppo del populismo, i cui responsabili sono ben presenti sia nei progressisti, che nei conservatori; il loro operato ha fornito sia ragioni evidenti, che percezioni sostanziali per la comprensibile crescita di movimenti che propugnano idee capaci di attecchire su ceti sociali provati dalla crisi e lasciati al di fuori del processo produttivo e della redistribuzione della ricchezza. L’inganno perpetrato a questi settori della società, purtroppo sempre più vasti, è stato quello di fomentare una lotta tra poveri (spesso con l’immigrazione, certamente non regolata, nel mirino) capace di distogliere l’attenzione della creazione di norme capaci di favorire i grandi capitali a discapito proprio degli elettori dei populisti; si è passati a combattere i grandi agglomerati finanziari per favorire l’incremento della concentrazione della ricchezza. Un altro aspetto è il dispregio dei valori dei diritti civili, che porta ad un indirizzo antidemocratico sempre più marcato nei governi populisti: questo fattore deve diventare un punto di forza nella capacità di aggregazione dei sentimenti anti populisti, ma da solo non è sufficiente per un contrasto efficace ed efficiente se non è unito ad un miglioramento delle condizioni di vita diffuse, sia praticamente che a livello percettivo dei ceti sociali che hanno abbracciato il populismo. Proprio per questo la politica di Biden dovrà essere caratterizzata da riforme in grado di interrompere il gradimento verso Trump, che ha comunque preso 70 milioni di voti, e, nel contempo, di influenzare i programmi politici degli altri leader mondiali. La sfida la populismo è soltanto iniziata.    

Gli USA dovranno cambiare atteggiamento sul commercio per cambiare la politica estera

Il presidente eletto degli Stati Uniti, Biden, dovrà mettere riparo alla politica commerciale del suo predecessore, che ha avuto anche ricadute sulla politica estera americana. Nell’epoca della globalizzazione dividere commercio da politica estera è anacronistico, perché i due fattori vanno sempre più spesso di pari passo. Soprattutto in uno scenario mondiale dove i contrasti vengono sempre di più risolti senza ricorrere alle guerre, che vengono lasciate come ultima opzione o negli scenari secondari, la competizione commerciale, come strumento di affermazione economica e quindi politica, diventa il teatro strategico per determinare supremazie e vantaggi. Trump non ha mai capito questo punto focale, che sta caratterizzando i risultati di politica estera a livello globale; chiuso nella sua strategia isolazionista, il presidente americano in scadenza, ha condotto una politica miope fatta di dazi sulle importazioni, non selettiva dal punto di vista politico: per avvantaggiare i prodotti americani ha condotto una lotta indiscriminata contro avversari ed alleati, che ha prodotto danni politici sia nel campo avverso, sia e soprattutto in quello amico. Il successo che Trump si attribuisce in campo economico, in realtà è una bugia, dato che ha approfittato delle misure lasciate in eredità da Obama e che i suoi consiglieri sono riusciti a mantenere attive. Per Biden sarà diverso, soprattutto in relazione alle guerre commerciali che Trump lascerà al nuovo presidente e che, in qualche modo dovranno essere disinnescate. Si è detto fin dall’inizio della campagna elettorale che nessuno dei due contendenti avrebbe potuto mutare l’atteggiamento verso la Cina, ciò è vero perché c’è il continuo bisogno di condannare quella che è una dittatura, come, peraltro Pechino ha più volte dimostrato e che un inquilino della Casa Bianca proveniente dal partito democratico, dovrà sottolineare con ancora maggiore forza; tuttavia un approccio differente e più diplomatico si può sperare nel prossimo dialogo tra USA e Cina, che sappia attenuare il livello dello scontro. Ma il vero punto cruciale è l’atteggiamento che Biden vorrà tenere con l’Europa e la necessità di recuperare un rapporto che il suo predecessore ha notevolmente deteriorato. Il comportamento di Trump, unito alla situazione generata dalla pandemia, ha sottolineato come per Bruxelles l’esigenza di essere sempre più autonoma è diventata una vera e propria emergenza. Questo fattore continuerà ad essere presente anche nei rapporti con la nuova amministrazione americana, anche se, come è auspicabile, i rapporti miglioreranno. D’altra parte l’Europa non può che privilegiare il rapporto con gli Stati Uniti, rispetto a quello con la Cina, i cui modi dittatoriali al suo interno ed il mancato rispetto di prassi commerciali corrette con l’estero, condizionano le valutazioni degli stati dell’Unione. Oltre alla convergenza sulla Cina, USA ed Europa devono ripartire dalla consapevolezza che, insieme costituiscono il mercato più ricco del mondo e ciò è un fattore primario che può agire da volano per entrambi le parti. Occorre anche considerare che la Cina, che si sta vedendo precluso questo mercato, sta cercando di creare alternative, come quella recentemente firmata a cui aderiscono diversi paesi, anche dell’area occidentale, come Giappone ed Australia, oltre a vari stati asiatici, che ha creato un mercato più vasto della singola area europea, ma anche dell’unione commerciale tra USA, Canada e Messico, arrivando a sommare il 40% degli scambi globali; questa associazione non ha vincoli politici e ciò rappresenta un fattore di debolezza, ma mira ad ottenere un abbassamento dei dazi doganali di circa il 90% in venti anni, integrando anche servizi e beni degli appartenenti. Questo accordo, che evidenzia la leadership cinese, è stato possibile proprio per l’abbandono del ruolo di influenza americano nel continente asiatico. Ripetere questo errore con l’Europa, ma anche con Canada e Messico, spesso altrettanto maltrattati da Trump, potrebbe essere letale per l’economia statunitense. Dall’aspetto economico globale a quello politico il passo è breve: se Washington dovesse indebolire ulteriormente il suo peso politico internazionale, il suo declino sarebbe garantito ed una eventuale volontà di riguadagnare posizioni implicherebbe un costo finanziario e sociale molto alto. Meglio sviluppare una strategia alternativa e concorrenziale alla Cina, tramite il coinvolgimento degli alleati diretti, con strumenti che prevedano vantaggi comuni, anche oltre gli aspetti economici, e l’attrazione in questa orbita di nemici di Pechino come l’India; cercando anche di sottrarre alla Cina, dal punto di vista commerciale, paesi dell’orbita occidentale, come Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, che si sono avvicinati troppo pericolosamente a Pechino.

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian può allargarsi pericolosamente

La ripresa del conflitto del Nagorno Karabakh, una guerra a bassa intensità che non si è mai fermata del tutto, potrebbe aprire un nuovo fronte in Europa ed un aggravamento delle relazioni tra Mosca ed Ankara, coinvolgendo, però, anche altri attori. I fatti recenti parlano di nuovi combattimenti con le due parti impegnate nel conflitto che si accusano reciprocamente per avere attaccato per primi. La regione, che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, era stata assegnata agli azeri, si è staccata da Baku a causa della maggioranza di abitanti armeni, aprendo un conflitto tutt’ora irrisolto, che ha prodotto oltre 20.000 morti ed un esodo imprecisato. L’ostilità tra Armenia e Azerbaigian è anche religiosa, con gli armeni che sono di confessione cristiana e gli azeri che sono musulmani sciiti, fattore che non preclude la stretta alleanza con la Turchia, formata in maggioranza da sunniti, a causa di una lingua comune. In campo internazionale l’Armenia ha un forte legame con la Russia, mentre l’Azerbaigian proprio con la Turchia; lo scenario è aggravato dai pessimi rapporti tra armeni e turchi per l’annosa questione delle stragi che i turchi hanno perpetrato ai danni degli armeni e che Ankara non ha mai voluto riconoscere. In tutti e due gli stati, al momento, vige la legge marziale, e gli scontri hanno già causato diversi morti; la situazione, dal punto di vista internazionale, potrebbe degenerare rapidamente, soprattutto dopo, che aerei delle forze armate turche sono già entrati in azione, mentre effettivi dell’esercito di Ankara sarebbero già presenti in Azerbaigian. In questo momento Putin sembrerebbe restio ad impegnarsi in nuovo conflitto, data la presenza attiva dei militari di Mosca in Siria ed in Ucraina, dove l’impegno doveva essere limitato e veloce, ma si è trasformato in una situazione senza una soluzione in tempi brevi. Il vero pericolo è un intervento più massiccio di Erdogan, che potrebbe non lasciarsi sfuggire una occasione per ribadire il suo impegno diretto nella volontà di praticare una politica estera aggressiva, che permetta al paese turco di estendere la sua area di influenza. Ad essere di fronte sono due leader che hanno un programma internazionale molto simile, basato sul rilancio internazionale dei loro paesi, con operazioni discutibili, ma che li possano fare risultare al mondo come nuovi protagonisti della scena internazionale: una strategia che deve bilanciare i problemi interni, sia in termini economici, che politici. In Siria Mosca ed Ankara sono su posizioni opposte, con i primi che appoggiano il governo di Damasco (con Assad rimasto al potere proprio grazie a Mosca) ed i secondi ancora al fianco degli estremisti islamici sunniti (soprattutto in funzione anti curda). Aldilà delle parole di prammatica il possibile confronto agita le due diplomazie: la possibilità di un rispettivo coinvolgimento, o anche solo di minacce, potrebbe compromettere il già difficile rapporto diplomatico, che andrebbe ad influire proprio su quei fronti dove i due paesi sono contrapposti: sarebbero in grado di sopportare le conseguenze di un confronto tale anche da includere diversi attori internazionali con conseguenze molto rilevanti? Nelle ultime ore l’intervento turco avrebbe provocato il movimento di mezzi pesanti della forza militare russa, che sarebbero entrati in Armenia attraverso l’Iran. La concessione del transito di materiale bellico straniero sul suo territorio, pone l’Iran come un fiancheggiatore della Russia in opposizione alla Turchia, situazione che si inquadra bene nella ostilità di Teheran contro Ankara e che ripete lo schieramento siriano, dove per Teheran l’avversione alla Turchia si basa su motivazioni geopolitiche e religiose. L’Iran non può gradire i movimenti di Ankara quasi sui suoi confini. Inoltre si registrare anche la volontà di appoggiare l’Armenia da parte dell’Egitto: ancora una volta lo schema di distrarre la popolazione dai problemi interni, con azioni internazionali, si ripete con il dittatore egiziano. Il Cairo, peraltro patisce da tempo le iniziative turche, tra cui quella in Libia, che pone Ankara in diretta concorrenza con l’Egitto per l’influenza sui sunniti, specialmente quelli sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Occorre anche ricordare che l’Armenia si era schierata con la Grecia e Cipro, nella contesa per le risorse naturali presenti in quella parte di Mediterraneo. Non bisogna sottovalutare l’evoluzione della situazione, anche per la posizione americana che non si è ancora evidenziata; la possibilità di un conflitto molto più largo di quello tra Armenia ed Azerbaigian è una possibilità potenziale, che può allargarsi molto di più, ben oltre tutti gli attori già presenti.

L’introduzione del welfare nei paesi poveri, come fattore di stabilità mondiale

Se uno dei problemi mondiali è costituito dalla stabilità, non solo quella tra gli stati intesa come rapporti internazionale, ma anche quella tra le popolazioni occorre agire sui profondi squilibri presenti dovuti all’aumento delle diseguaglianze. Questo fenomeno non riguarda solo i paesi poveri, dove naturalmente è acuito da circostanze contingenti, ma anche quelli più ricchi, evidenziando una trasversalità del fenomeno a livello mondiale. Appare ovvio che, oltre alle ricadute all’interno dei singoli confini nazionali, l’impatto della povertà e della diseguaglianza, che si registra a livello internazionale, incide su aspetti prettamente economici, come la produzione, la distribuzione ed il consumo delle merci fino al problema generale delle migrazioni, che tanti problemi politici continua a generare a livello planetario. I dati mondiali sulla protezione sociale dicono che oltre la metà della popolazione totale della Terra non dispone di alcuna forma di protezione relativa all’assistenza sanitaria, a tutele per le invalidità sopraggiunte o a servizi per la famiglia e sostegni economici per l’integrazione o la sostituzione di redditi insufficienti. L’insieme di questi sostegni potrebbe essere un fattore decisivo proprio contro la povertà e la diseguaglianza, anche in considerazione del fatto che, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite, il solo 45% della popolazione mondiale usufruisce di qualche forma di prestazione assistenziale e di questo 45% soltanto il 29% dispone di forme complete di strumenti sociali. Se il dato mondiale della corresponsione di reddito in forma di pensione riguarda circa il 60%, la situazione che si registra nei paesi dove il reddito medio è più basso e l’assicurazione pensionistica riguarda soltanto il 20% delle persone. Se la vecchiaia appare poco tutelata, anche l’infanzia non presenta aiuti adeguati: infatti la percentuale di paesi che dichiarano di avere qualche forma di assistenza per i bambini si attesta al di sotto del 60% della totalità delle nazioni e con consistenti differenze tra i paesi ricchi da quelli poveri. Questo scenario è stato aggravato con la pandemia, esasperando sicuramente le situazioni più critiche, ma anche nei paesi più sviluppati l’evento inaspettato ha costituito una sorpresa troppo grande per elaborare in modo veloce delle contromisure sociali in grado di fornire risposte per attutire gli effetti economici e sanitari della crisi. Secondo le stime delle Nazioni Unite la somma necessaria ai paesi in via di sviluppo per assicurare i servizi sanitari integrati da una sorta di reddito minimo si aggira sui 1.200 miliardi di euro, una percentuale che si aggira attorno al 4% del prodotto interno lordo di questi paesi e che rappresenta un impegno finanziario non sostenibile da economie sottosviluppate. Questa situazione di necessità non rappresenta però una emergenza contingente dovuta alla pandemia, ma è un aggravamento di situazioni già presenti, dovute, oltre alle crisi ricorrenti, anche al mancato rispetto degli impegni presi dalla comunità internazionale e, quindi, dai paesi ricchi, di fornire aiuti concreti ai paesi in via di sviluppo. La mancanza del rispetto di questi impegni formali, che erano tanto politici, quanto giuridici, pone i paesi ricchi in grave difetto oltre che morale anche di ordine pratico, quando si evidenzia l’incapacità della gestione dei fenomeni migratori, non solo quelli causati da guerre o carestie, ma anche e soprattutto circa il rifiuto dei migranti così detti economici. Infatti se i conflitti ed anche le carestie prevedono un altro tipo di impegno, che, peraltro dovrebbe essere dovuto e ricercato in maniera assidua e non soltanto funzionale agli interessi particolari, la mitigazione dei fattori che determinano i flussi migratori di tipo economico, potrebbe essere operata in maniera efficace in maniera tale da almeno ridurre la quantità delle persone costrette ad abbandonare il loro paese per la povertà, con interventi mirati e coordinati tali da permettere lo sviluppo di attività economiche in grado di assicurare il sostentamento delle popolazioni. Il sostegno sociale è una parte integrante ed essenziale di questi aiuti perché permette una maggiore indipendenza delle fasce di popolazione in età produttiva e ne costituisce una integrazione di reddito, diretta o indiretta, che può liberare risorse umane ed anche generare occasioni di lavoro da immettere nel bilancio totale degli occupati. La coordinazione deve partire dalle Organizzazioni internazionali, ma gli stati ricchi devono prevedere un contributo adeguato, che deve essere considerato un investimento per la loro stessa stabilità.