Aumenta lo scontro tra Occidente e Cina

I timori comuni dei membri dell’Alleanza Atlantica verso la Cina hanno prodotto una risposta del tutto prevedibile da parte di Pechino. La tattica cinese è fare diventare diffamazione tutto ciò che è contro la Repubblica Popolare, soltanto che il palcoscenico internazionale non è quello domestico, dove l’informazione è controllata e le critiche represse. Pechino nega di porre in atto sfide sistemiche contro la sicurezza internazionale, che è, ormai, l’opinione ufficiale e comune dell’occidente, o almeno dei governi occidentali, tralasciando l’influenza che vuole esercitare sui paesi in via di sviluppo, mediante una politica di crediti che si trasformano facilmente in debiti molto onerosi, le politiche finanziarie aggressive, il mancato rispetto dei diritti civili e la crescita economica ottenuta con l’assenza di garanzie per i lavoratori, un costo del lavoro molto basso ottenuto spesso con metodi che sfiorano la schiavitù. Negare ciò è scontato perché non ci si può presentare la mondo con queste caratteristiche, ma proprio il mondo globalizzato che piace ai cinesi è il principale strumento per smascherarli. Nella nota della missione diplomatica di Pechino accreditata presso l’Unione Europea si riprende l’occidente di essere ancora fermo ad una mentalità da guerra fredda, ma questa situazione è quella creata dalla stessa Cina. Che porta avanti politiche, soprattutto interne, ma anche esterne, in completo contrasto con i valori occidentali, ed è chiaro che se ogni parte è legittimo che sostenga le proprie ragioni è legittimo che l’occidente veda per se stesso la Cina attuale, come una minaccia. Pechino è diventata una delle peggiori vittime della sconfitta di Trump: con il precedente presidente USA , la dialettica di scontro era ai massimi livelli, ma senza troppe conseguenze, inoltre l’avversione di Trump per l’Europa aveva portato ai minimi storici il dialogo con gli alleati occidentali; ben diverso l’atteggiamento di Biden, che si rivela nemico ben più temibile per la Cina, proprio perché oltre a mantenere la diffidenza verso la potenza cinese è stato capace di ricompattare l’occidente verso i tradizionali legami con gli USA: un fattore che da solo indebolisce Pechino e la isola dai mercati più ricchi del mondo, una questione a cui la Cina è molto sensibile perché funzionale a quegli obiettivi di crescita economica, che sono da molto tempo  al centro degli obiettivi cinesi, anche come elemento di geopolitica. Aldilà del terreno di scontro dell’economia, che non è affatto secondario, l’unità di visione maturata nel campo occidentale contro l’autoritarismo cinese, permette agli stati occidentali di allontanarsi dalla Cina, verso cui si era pericolosamente avvicinata a causa del peggioramento delle relazioni causato da Trump. Dal punto di vista delle conseguenze il pericolo di una Cina isolata dall’occidente è quello di un ulteriore ricorso all’ampliamento degli armamenti, direzione, peraltro, già intrapresa da tempo, che però, con questi ultimi sviluppi, potrebbe indurre Pechino ad accelerare verso dimostrazioni di forza come ha più volte minacciato. SI pensi al presidio delle vie navali di quelle che ritiene acque di sua pertinenza, delle questioni delle isole contese e della vicenda più potenzialmente pericolosa costituita da Taiwan, a cui Pechino non ha mai formalmente rinunciato, considerandola parte integrante del territorio cinese.  Ancora più oltre occorre ricordare che la Cina ha sempre affermato di volere difendere i suoi interessi, se si estende questo concetto alla difesa della possibilità di effettuare investimenti considerati strategici per i suoi obiettivi, sarà interessante vedere la reazione di Pechino di fronte ad un possibile contrasto all’attivismo cinese nei paesi occidentali. La reazione più probabile passa da una guerra commerciale, che non conviene a nessuno, perché in grado di bloccare o comprimere fortemente l’economia mondiale, tuttavia quella che ha più da perdere è proprio la Cina, se si vedesse preclusi i maggiori mercati mondiali, in quel caso sembra facile prevedere l’esibizione di una prova di forza, con conseguenze anche potenzialmente irreparabili. Prima di arrivare a quel punto però dovrà esserci il lavoro delle diplomazie, con la minaccia di un possibile ritorno di Trump sulla scena statunitense, che sarà il vero ago della bilancia per tutta una serie di situazioni in grado di rovesciare l’assetto attuale e per il quale, verosimilmente, Cina, ma anche Russia lavoreranno a favore; quindi il successo dell’occidente, anche come valori pratici ed astratti, passa per il successo dell’attuale presidente americano, che deve rendere efficace il suo progetto di rafforzamento dei rapporti con l’occidente: un compito in grado di riportare la storia sui binari dai quali era uscita.    

Le giuste sanzioni contro la Cina e il comportamento diplomatico incoerente dell’Unione Europea

La feroce repressione dei cinesi turcofoni di religione islamica, etnia di maggioranza della regione cinese dello Xinjiang, ha provocato delle sanzioni da parte dell’Unione Europea; le sanzioni colpiscono quattro cittadini e funzionari della Repubblica Popolare cinese per protratte violazioni dei diritti umani perpetrate attraverso la deportazione di massa, arresti arbitrari e trattamenti degradanti, tenute contro cittadini cinesi di etnia uigura. La politica di assimilazione, senza rispetto alcuno dei diritti umanitari, del governo cinese di questa parte di popolazione è in atto da tempo, ma le sanzioni europee arrivano soltanto ora ed hanno la particolarità di essere le prime dai tempi dei massacri di Tiananmen avvenuti nel 1998. In tutto questo periodo la Cina ha assunto un ruolo di partner strategico nell’economia europea, che era meglio non contraddire. In realtà queste ultime sanzioni emesse sono comunque più simboliche, che efficaci, dato, appunto, che hanno colpito soltanto quattro cittadini cinesi e non la Cina in quanto entità nazionale; tuttavia è implicito che il messaggio per Pechino sia stato di una pesante critica alla sua sovranità: un insulto inconcepibile per il governo cinese, che ritiene i propri affari interni come materia inviolabile. La risposta ufficiale della Cina è stata una rappresaglia non proporzionata, che ha voluto colpire direttamente le istituzioni europee, sanzionando dieci persone, che comprendono parlamentari e funzionari di Bruxelles. L’Unione Europea ha applicato in modo coerente quanto già applicato alla Russia e ad altri paesi per le repressioni che hanno provocato le violazioni dei diritti umani. All’azione europea si sono affiancati gli USA ed il Regno Unito, che non hanno voluto mancare all’occasione di mostrare a Pechino la rinnovata coesione occidentale, soprattutto per Washington è essenziale dimostrarsi in prima linea contro quello che ritiene il maggiore avversario sistemico di questa fase storica, sia per ragioni economiche che geostrategiche. Il compattamento occidentale ha provocato una maggiore vicinanza tra Cina e Russia, con Mosca ora, però, in condizione subalterna a Pechino, mentre non si può non rilevare che l’attivismo cinese ha attirato in una personale zona di influenza i nemici degli USA, tra gli altri Iran e Corea del Nord, con i quali intrattiene rapporti commerciali malgrado le sanzioni americane ed europee. Circa le sanzioni europee occorre fare alcune riflessioni, essendo giusta la decisione di Bruxelles in senso assoluto, occorrerà verificare come evolverà questa situazione di tensione diplomatica, se, cioè, avrà ricadute anche sui troppi rapporti commerciali che intercorrono tra le due parti e che, senz’altro, convengono all’Europa, ma di più e per svariate ragioni, tra cui non solo quelle economiche, convengono di più alla Cina. La situazione che si è venuta a creare nel campo occidentale e, soprattutto, con il cambio alla Casa Bianca, potrebbe allentare i legami, da parte di Bruxelles, con la Cina e così permettere una maggiore autonomia, economica e produttiva a favore dell’Europa. Se si vuole percorrere la strada della tutela dei diritti umani, anche al di fuori dei propri territori, diminuire i rapporti commerciali con la Cina ed il suo modo di essere, cioè prenderne le distanze in maniera significativa e non solo simbolica, appare un percorso obbligato. Se le intenzioni ed anche i comportamenti europei circa la tutela dei diritti sembrano doverose e condivisibili, meno limpido appare, però, l’avvicinamento con la Turchia, che ha certamente delle ragioni strumentali sulle quali non si può che dare un giudizio fortemente negativo. Finanziare Ankara per mantenere sul suo territorio i profughi diretti in Europa, può essere una ragione di ordine pratico ma che è in antitesi con la volontà di difendere i diritti umani: una contraddizione troppo evidente per non guardare con occhi diversi anche le sanzioni cinesi; oltretutto riavvicinarsi ad un regime che massacra i curdi, verso i quali l’Europa, ma anche l’occidente intero, dovrebbe avere solo sentimenti di gratitudine e quindi di protezione e che va verso il disconoscimento del trattato di Istanbul contro la violenza femminile, appare un controsenso anche senza volere ergersi a difensori dei diritti umani. La percezione è quella di una istituzione europea con un atteggiamento ondivago, che non riesce a mantenere una linea retta, un comportamento coerente con quanto si prefigge: secondo ciò la Turchia dovrebbe avere lo stesso trattamento della Cina e sarebbe ancora poco (peraltro le sanzioni contro la Cina sono, è già stato detto, poco più che simboliche). La speranza è quella di non andare incontro ad una delusione, che per l’argomento trattato, potrebbe avere conseguenze sulla fiducia dei cittadini, non recuperabili.       

Il primo incontro di Biden sarà con il primo ministro giapponese: chiaro segnale per la Cina

La volontà di ricevere come primo ospite di un governo straniero, il primo ministro giapponese, da parte del presidente Biden, rivela l’alto valore simbolico che la Casa Bianca conferisce all’incontro. La visita, che si svolgerà nella prima metà di Aprile, rappresenta chiaramente un segnale verso le intenzioni della politica estera della nuova amministrazione americana e, nel contempo, una sorta di avvertimento alla Cina ed alle sue intenzioni espansionistiche nei mari orientali. Il significato politico di questo invito si concretizza nel mantenimento, in prosecuzione con la politica di Obama, della priorità in politica estera dell’attenzione sulla regione asiatica dell’Oceano Pacifico, per la sua importanza economica e strategica, funzionale agli interessi americani. Il processo di rafforzamento delle relazioni tra Washington e Tokyo è centrale, per entrambe le parti, all’interno del progetto per potere arrivare alla libertà dei mari asiatici orientali. L’incontro assume anche il particolare significato di volere riportare alla normalità le attività relative alle iniziative diplomatiche statunitensi, che la pandemia ha reso certamente più difficili. Biden, già vicepresidente di Obama, ripete, con questo incontro, quanto già fatto dal suo predecessore democratico, che incontrò come primo ospite straniero l’allora primo ministro giapponese: nella ripetizione del primo vertice internazionale dopo l’elezione, si scorge che l’intenzione di Biden è quella di riprendere il discorso di Obama, sulla centralità della regione asiatica; del resto il Giappone è considerato, fino dal termine della seconda guerra mondiale, un alleato di primaria importanza per gli USA. Sul piano delle relazioni multilaterali, gli Stati Uniti, hanno indetto anche un prossimo vertice a quattro, con la partecipazione, oltre che degli USA, anche di India, Australia e dello stesso Giappone, che rimarca la volontà di porre al centro dell’azione diplomatica americana l’attenzione sulla regione asiatica orientale, procedendo in sintonia con altri partner, dell’area occidentale, interessati al contenimento cinese. Risulta molto significativo che questo vertice era stato inaugurato nel 2007, per la coordinazione degli aiuti a seguito del terremoto giapponese, ma successivamente  era stato sospeso per la volontà congiunta indiana ed australiana di non urtare la sensibilità cinese; tuttavia la crescita della spesa militare di Pechino unita alla sua volontà di esercitare il suo potere sulla zona del pacifico orientale, considerata come propria zona di influenza esclusiva, ha causato nuove riflessioni a Canberra ed a Nuova Delhi. Per l’India, poi, la rivalità mai sopita con la Cina, essenzialmente basata su argomenti geostrategici ed economici, è aumentata per i territori contesi al confine himalayano. Nuova Delhi si è così unita alle esercitazioni militari di guerra sottomarina congiunte, compiute da USA, Australia, Giappone e Canada ed ha rafforzato la sua cooperazione militare con Washington, provocando il risentimento cinese. Questo scenario, non deve essere dimenticato, si innesta sulla già preesistente guerra commerciale tra Washington e Pechino, che resta uno dei pochi punti di contatto e continuità tra la presidenza Trump e quella di Biden: appare chiaro che ciò provoca nel paese cinese sentimenti di avversione che potrebbero favorire pericolose conseguenze di carattere diplomatico e militare in grado di alterare i precari equilibri regionali. Pechino si sente anche accerchiata dalla ripresa delle attività del vertice a quattro, che ha condannato come un pericoloso multilateralismo anti cinese e ciò potrebbe accelerare alcune iniziative della Repubblica Popolare più volte minacciate, come la questione di Taiwan, sulla quale Pechino non ha mai escluso l’intervento armato per riportare l’isola sotto la piena sovranità cinese. Quindi se l’attivismo americano appare giustificato dalle stesse iniziative cinesi, l’augurio è che l’amministrazione Biden, pur ferma nei propri propositi, sia dotata di una maggiore cautela ed esperienza di quella che l’ha preceduta.  

La Cina programma il periodo che dovrà seguire la pandemia

Nel tempo della pandemia, con le previsioni di crescita economica negativa, come fattore comune degli stati mondiali, la Cina annuncia un dato atteso quantificato in un sei per cento positivo, un valore, in senso assoluto, che potrebbe apparire limitato, ma, che se tiene conto della congiuntura mondiale condizionata dal Covid-19, indica la chiara intenzione di Pechino di abbandonare le difficoltà del periodo ed avviare l’economia cinese verso una normalità, che potrebbe contribuire alla crescita economica generale. Certo questo dato rappresenta una previsione, che potrebbe non essere raggiunta, proprio per le condizioni delle altre economie, che potrebbero continuare ad avere difficoltà produttive e scarse capacitò di assorbire le merci provenienti dal paese cinese; tuttavia la sede dove è stato dato l’annuncio della previsione di crescita, il discorso di apertura della sessione annuale del parlamento cinese, il Congresso del popolo, davanti ai 3.000 delegati riuniti, ha assunto un particolare significato di solennità, anche perché alla fine della sessione sarà annunciato il quattordicesimo piano quinquennale in materia economica, che fornirà ulteriori indicazioni sulle intenzioni cinesi circa la propria economia. Il ritorno ad annunciare previsioni di crescita, dopo che nello scorso anno Pechino non aveva espresso obiettivi ed aveva concluso con una crescita del 2,3%, molto contenuta per la superpotenza cinese, significa che l’intenzione di Pechino è quella di tornare ad essere protagonista dell’economia mondiale; si deve tenere conto anche che secondo gli analisti la Cina non avrebbe espresso neppure quest’anno un dato ufficiale, al contrario avere reso pubblico il dato del 6%, rappresenta una sfida sia verso l’esterno, che verso l’interno, per potere raggiungere quelle riforme ritenute essenziali per raggiungere gli obiettivi di sviluppo quantitativo e qualitativo, che sono stati prefissati. Il primo ministro della Repubblica Popolare cinese ha espresso l’intenzione di ridurre la disoccupazione portandola al valore del 5,5% mediante la creazione di undici milioni di posti di lavoro e l’aumento del 7% della spesa destinata alla ricerca per raggiungere l’indipendenza tecnologica, soprattutto in settori strategici, come quello dei semiconduttori, dove la Cina possiede le materie prime, ma non ancora la conoscenza sufficiente per colmare il divario produttivo con USA e Taiwan. Che il momento programmatico sia cruciale per il paese cinese si capisce anche dalle intenzioni di Pechino sull’energia, dove, grazie alla continua diffusione del nucleare si vuole diminuire l’impatto delle materie prime inquinanti, anche se il carbone non verrà abbandonato del tutto, anzi si pensa di raggiungere il picco di emissioni nel 2030, per poi diminuire gradualmente a favore della maggiore pratica di energia pulita. Dal punto di vista sociale la Cina deve combattere l’invecchiamento della popolazione con nuovi programmi di natalità che arrivino a superare il divieto di due bambini per famiglia, ma, nel contempo viene confermata l’intenzione di aumentare l’età pensionabile, con l’innovazione di garantire ai meno abbienti una pensione minima. La volontà cinese di competere nell’arena internazionale da protagonista, impone la previsione di un aumento delle spese militari, calcolato nel 6,8% per investire nell’ammodernamento dell’arsenale militare: questo aumento è guardato con preoccupazione dagli analisti perché potrebbe significare, tra l’altro, la manifestazione della volontà di azioni specifiche contro Taiwan, più volte rivendicata come appartenente alla madre patria cinese, ed i territori al confine con l’India, teatro di scontri ripetuti; resta anche il problema del presidio delle vie commerciali nei mari cinesi, settori geografici considerati come zone di influenza esclusiva della Cina ma presidiate anche dagli USA a supporto dei suoi alleati. Sullo sfondo la questione della crescita militare cinese si incrocia con le problematiche di Hong Kong, per la quale Pechino ha previsto una drastica riduzione della possibilità di autonomia anche attraverso la revisione della legge elettorale e di un controllo militare sempre più serrato. Quello che traspare dai possibili sviluppi delle intenzioni cinesi è un mondo in uno stato ancora più precario e di insicurezza continua, che potrà essere mitigato da un approccio diplomatico generale a discapito delle situazioni conflittuali, anche se proprio dai temi del commercio mondiale potrebbero provenire le situazioni di contrasto notevole.  

Biden non cambia la politica americana nei confronti della Cina

Come ampiamente annunciato già nella campagna elettorale, il nuovo presidente americano, Biden, ha mantenuto le promesse, fin dall’inizio del suo mandato, su quale piano si svolgeranno le relazioni con la Cina. La prima prova pratica è stata la prima conversazione telefonica con il capo dello stato cinese, Xi Jinping, dove il nuovo inquilino della Casa Bianca ha espresso tutte le proprie preoccupazioni per il comportamento di Pechino sia nella politica interna, con violazioni ripetute dei diritti umani, politici e civili, che nella politica estera, dove la Cina ha dimostrato più volte, attraverso una politica aggressiva, una volontà sempre maggiore di esercitare una influenza nel contesto internazionale. Questa linea che Biden ha adottato non sembra discostarsi, se non per le differenti modalità di espressione, da quella tenuta dal suo predecessore: la scelta sembra obbligata dai difficili rapporti che continuano tra i due paesi dovuti ai contrasti in materia commerciale e geostrategica. Alcuni passaggi di quella che è stata la prima conversazione tra i due uomini politici, dopo l’elezione di Biden, sono anche stati cordiali, come è dovuto dal protocollo, ma la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca, al termine del colloquio ha evidenziato la preoccupazione statunitense per le pratiche economiche scorrette di Pechino, le repressioni adi Hong Kong, le ripetute e gravi violazioni dei diritti nei confronti della popolazione musulmana della provincia dello Xinjiang e le minacce verso l’autonomia di Taiwan. Si tratta di un insieme di argomenti tali da costituire un dossier particolarmente voluminoso per l’amministrazione americana, che rappresenta un ostacolo non molto sormontabile, a relazioni normali con il paese cinese e che conferma tutte le difficoltà già registrate da Obama e Trump; peraltro Biden, avendo già ricoperto il ruolo di vicepresidente, conosce bene queste problematiche, così come conosce altrettanto bene il presidente cinese fin dal 2011. Nello specifico la dichiarazione di Biden che ha affermato di considerare prioritaria la sicurezza, la salute e lo stile di vita del popolo americano ed in relazione a ciò di impegnarsi a cooperare con la Cina in relazione a quanto ciò soddisfi gli interessi degli USA e dei suoi alleati, deve essere letta come una sorta di avvertimento verso Pechino, anche in ragione di nuove relazioni con gli abituali alleati degli Stati Uniti, i cui rapporti con Trump si erano deteriorati. Considerando prioritari i normali legami transatlantici, Washington sembra volere avvertire il paese cinese che le collaborazioni con l’Europa per la Repubblica popolare non saranno più le stesse. Biden vuole tornare a riempire quei vuoti creati da Trump che avevano permesso alla Cina di insinuarsi nei rapporti con gli stati europei grazie alla sua grande capacità finanziaria e, se l’Europa sarà il primo obiettivo da recuperare per gli Stati Uniti, appare impossibile  non pensare che questa direzione sarà seguita anche per i paesi asiatici e per quelli africani, nei primi l’azione americana sarà necessaria per contenere l’espansionismo cinese, soprattutto in quello che considera il proprio spazio di influenza naturale, nei secondi per limitare una presenza che è già male tollerata, particolare che consente uno spazio di inserimento non secondario. Sul lato dei rapporti commerciali bilaterali, proprio per tutte queste considerazioni e per le valutazioni negative circa le condotte commerciali cinesi, è praticamente certo che gli USA manterranno le sanzioni commerciali contro Pechino, al massimo queste sanzioni potrebbero essere usate come scambio per ottenere il cambio di atteggiamento cinese su specifiche questioni sulle quali sarà possibile trattare, comunque problematiche circa la condotta cinese nel commercio e nelle licenze industriali, non certo materie considerate non trattabili da Pechino come la questione di Taiwan. Ma su questo fronte non c’è spazio di trattativa neppure per Washington: uno dei primi passi della nuova amministrazione americana è stato quello di ricevere il rappresentante di Taiwan negli USA, fatto che ha costituito un segnale inequivocabile per i cinesi, oltre che una novità nelle relazioni tra i due paesi. Proprio su Taiwan si registra la maggiore vicinanza di vedute tra Democratici e Repubblicani e ciò costituisce un ulteriore argomento di importanza nella valutazione americana della questione di Taiwan e ne determina l’argomento che potrebbe essere il più importante per capire l’evoluzione dei rapporti tra USA e Cina.

Dopo il cambio di presidente la Cina avverte gli USA

Il Presidente cinese Xi Jinping è intervenuto all’incontro inaugurale che apriva l’edizione in versione virtuale del World Economic Forum. Il discorso del massimo esponente della Cina si è incentrato sull’esigenza di evitare una nuova guerra fredda, senza però citare in maniera esplicita il vero destinatario del messaggio: il nuovo presidente degli Stati Uniti. Per arrivare a ciò il presidente cinese ha confermato la sua difesa del multilateralismo, quello economico non certo quello dei diritti, una maggiore cooperazione globale da testare nel momento attuale della pandemia ed ha sottolineato la necessità di una maggiore importanza del ruolo dell’associazione del G20 per governare ed indirizzare il sistema globale dell’economia globale, soprattutto nella fase complicata della ripresa dalla crisi causata dall’emergenza sanitaria. Il capo dello stato della Cina non si è contraddetto presentando la sua visione dirigistica sul governo del mondo, profondamente incentrato sugli aspetti economici a discapito, come è normale, dei temi legati ai diritti civili e politici. Un messaggio che Trump, al netto degli interessi contrastanti dei due paesi, avrebbe anche potuto apprezzare; tuttavia per Biden ci sono forti elementi di contrasto di cui Xi Jinping è ben consapevole: se già il precedente inquilino della Casa Bianca non gradiva l’eccessivo presenzialismo cinese sulla scena internazionale, sostenuto da un grande riarmo, Biden ha un atteggiamento differente rispetto ai diritti, che costituisce l’aspetto maggiormente contrastante per Pechino. Il presidente cinese sembra volere anticipare questo pericolo con l’avvertimento di non provare ad intimidire o minacciare il proprio paese con sanzioni o provvedimenti tesi a contrastare lo sviluppo economico della Cina, che potrebbero portare a situazioni di scontro o anche di un contrasto più strutturato, una sorta di nuova guerra fredda in grado di bloccare l’economia globale. Questa è certamente una minaccia, ma anche una situazione molto temuta in un paese dove il problema della crescita è vissuto sempre con molta apprensione. Rispetto a quattro anni fa Xi Jinping prova un approccio differente con l’appena insediato presidente degli Stati Uniti: se per Trump il messaggio iniziale era stato di collaborazione, con Biden c’è un avvertimento a non seguire la politica isolazionista ed arrogante del suo predecessore. La lettura che se ne trae è che il presidente cinese si stia muovendo su due piani: uno interno, per dimostrare al popolo cinese la sua volontà di affermazione del paese nel contesto internazionale ed uno esterno per sottolineare la crescita della Cina, che non accetta più un ruolo di subalternità nei confronti degli USA. Il ruolo che Xi Jinping si è costruito, quello di difensore dell’economia aperta, senza barriere commerciali, per gli investimenti e gli scambi tecnologici, non è più credibile, nonostante abbia provato a ribadire la correttezza di queste ragioni, in contrasto, però, con la coerenza di una nazione che ha fatto come elemento di forza della sua forza produttiva il basso costo del lavoro, peraltro senza alcuna garanzia legale e quindi fattore di scorretta concorrenza, il mancato rispetto della proprietà intellettuale e dei brevetti e la non reciprocità degli scambi, alterando il mercato degli investimenti con pratiche scorrette verso i paesi poveri. Anche l’ultima parte dell’appello del presidente cinese rappresenta una evidente contraddizione: viene richiamata la necessità, per favorire la crescita, di abbandonare i pregiudizi ideologici nel rispetto delle differenze culturali, storiche e sociali di ciascun paese, senza però citare la repressione del dissenso, pratica comune in Cina ed a Hong Kong, ed i ripetuti tentativi di cancellare le peculiarità tradizionali e religiose come avviene in Tibet e nei confronti dei cinesi musulmani. Paradossalmente le dichiarazioni di Xi Jinping possono costituire per Biden una agenda programmatica per regolarsi con la Cina, d’altra parte già in campagna  elettorale il nuovo presidente non sembrava volere prendere una posizione troppo diversa da Trump nei confronti di Pechino, se a queste dichiarazioni seguirà un comportamento opposto, come sembra ragionevole pensare, per Biden il confronto con la Cina sarà un argomento costantemente all’ordine del giorno: sul breve periodo sarà importante cambiare i toni del confronto, anche se i temi non potranno variare sarà necessario evitare pericolosi confronti, che potrebbero degenerare; occorre ricordare la centralità delle alleanze e del quadro strategico nel pacifico orientale per Washington, come fonte di possibile conflitto, tuttavia il periodo iniziale dovrà servire a costruire un dialogo senza che gli USA arretrino di fronte alla necessità della difesa dei valori democratici ed anzi, ne siano i più strenui difensori: ciò sarà il punto di partenza per le relazioni con la Cina dopo l’uscita di scena di Trump.

USA e Taiwan sono più vicine: rischio o opportunità per Biden?

A pochi giorni dalla decadenza di Trump, come presidente degli Stati Uniti, l’amministrazione uscente della Casa Bianca lascia in eredità al nuovo presidente Biden un atto politico ostile verso la Cina, che non potrà non rendere complicate le relazioni tra Pechino e la nuova amministrazione di Washington. In pratica il Segretario di Stato, in uno dei suoi ultimi atti amministrativi, ha eliminato le restrizioni vigenti tra i funzionari americani e quelli di Taiwan. Sebbene gli USA non hanno mai riconosciuto formalmente Formosa, ne sono il principale alleato, cui forniscono ingenti quantità di materiale bellico, e gestiscono i rapporti con la capitale Taipei attraverso l’Istituto americano di Taiwan, denominazione dietro la quale si cela una vera e propria ambasciata statunitense ufficiosa. Anche la decisione di inviare l’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite in visita a Taiwan, dopo la recente missione del Segretario alla salute degli Stati Uniti, rappresenta un motivo di profondo risentimento da parte di Pechino; d’altro canto tutti questi provvedimenti hanno l’altissimo gradimento dell’amministrazione di Taipei, che vede la fine delle discriminazioni bilaterali tra Stati Uniti e Taiwan, condizionate, proprio dalla continua pressione cinese. Per pechino Taiwan è considerata una parte non alienabile del territorio cinese ed anche se Taipei sta funzionando come uno stato indipendente, la riunificazione con la madre patria è una parte irrinunciabile del progetto cinese di esercitare in modo efficace la sua sovranità sull’isola. Per Pechino è una condizione non negoziabile per avere rapporti diplomatici con la Cina non averne con Taiwan, infatti, al momento sono soltanto sette, tra cui il Vaticano, le nazioni che hanno relazioni formali con Taipei. Donald Trump, senza spingersi a stabilire l’ufficialità dei rapporti con i passi formali, che sono richiesti a livello internazionale, ha stabilito rapporti molto cordiali, se non amichevoli, con Taiwan, che vanno inquadrati nel programma di contenimento del gigante cinese in quella che Pechino reputa la sua zona di influenza esclusiva. Come non è un mistero la collaborazione tra i militari statunitensi e quelli di Formosa, oltre alle già citate forniture di armi, al contrario i toni cinesi si sono alzati, fino a rendere pubblica la possibilità di rendere possibile una opzione armata per la riconquista dell’isola. Le questioni che ne derivano sono essenzialmente due: l’azione del Segretario di stato è stata fatta, sicuramente, senza un coordinamento con la prossima amministrazione e ad un primo esame appare come una azione di disturbo, pur se inquadrata nella logica prosecuzione politica del programma di politica estera di Trump. Non sappiamo ancora come Biden voglia impostare i rapporti sulla Cina: dal programma elettorale è apparsa una volontà di rapporti più distesi nei modi, ma più o meno coincidenti sulla volontà di identificare Pechino come il competitore principale a livello internazionale e la volontà di limitarlo il più possibile. In questo programma rientra un nuovo rapporto con l’Europa, per ridimensionare i rapporti tra Bruxelles e Pechino, ma anche contenere la potenza cinese proprio sulla linea dei suoi confini, considerando la grande importanza delle vie di comunicazione del lato asiatico dell’Oceano Pacifico, che non può essere lasciata alla gestione cinese. La questione è sia di carattere commerciale, che geopolitico. Un ampliamento del peso politico cinese, che potrebbe passare da quello economico a quello militare, non può essere tollerata, ne da un politico repubblicano e neppure da uno democratico: d’altronde già Obama aveva spostato l’attenzione principale degli Stati Uniti dall’Europa alle regioni asiatiche intorno alla Cina, ritenendo molto più importante dal punto di vista strategico per gli USA, questa regione. Il Segretario di stato uscente, apparentemente avrebbe fatto un atto a danno di Biden, ma, in realtà, potrebbe avere accelerato un processo che la nuova amministrazione americana avrebbe dovuto comunque compiere, dato che per Washington l’alleanza con Taiwan appare irrinunciabile proprio a causa delle minacce cinesi, che, se portate a compimento, priverebbero gli Stati Uniti di una posizione strategica irrinunciabile per il controllo parziale della regione. Certo è un equilibrio fortemente instabile perché soggetto a potenziali e continui incidenti, tra due parti il cui accordo su questo tema è al momento impossibile.  

La Cina di fronte alle nuove sfide per la sua economia

La necessità per la Cina di aumentare la propria autosufficienza sarà il tema centrale del quinto plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. I 376 membri, 346 uomini e 30 donne, che compongono il Comitato Centrale dovranno tracciare la strada per l’economia cinese del futuro, condizionata sia dalla pandemia, che dai rapporti con gli Stati Uniti e cercare soluzioni per raggiungere quanto indicato dal Presidente Xi Jinping. I politici cinesi sono ormai arrivati alla conclusione che chiunque sarà il vincitore della competizione elettorale americana, l’ostracismo commerciale degli USA contro la Cina continuerà; questo fattore unito alla pandemia potrebbe rafforzare la tendenza mondiale alla deglobalizzazione, che rappresenta il vero pericolo per la crescita economica cinese. Per ora la Cina ha risposto bene, in termini di crescita del prodotto interno lordo, ma sta crescendo nel mondo una avversione alle pratiche commerciali cinesi, alla politica repressiva nel suo territorio ed anche all’invadenza nei paesi stranieri, sia europei che africani, tendente a condizionare la politica economica ed anche politica dei paesi dove opera Pechino, mediante l’uso della grande liquidità, che si trasforma in crediti spesso strumento di ricatto.  Se l’economia è l’interesse principale nel breve periodo, la Cina, sul medio periodo, vuole essere un leader globale anche sul piano internazionale: per questa ragione il Comitato Centrale deve elaborare un piano quinquennale, fino al 2025, per lo sviluppo economico, ed uno di più lungo periodo, fino al 2035, che consenta di preservare l’economia del paese, tenendo conto delle tensione di tipo geopolitico e di fronte ad un previsto calo delle esportazioni, proprio in funzione di accrescere il prestigio internazionale del paese. La prima necessità è quella di ridurre le esportazioni a basso valore e puntare su una maggiore crescita della domanda interna, fino ad ora il vero punto debole dell’economia cinese. Si tratta della soluzione della “doppia circolazione”, un modello che prevede un minore affidamento sulla domanda esterna, compensato da una maggiore capacità di approvvigionamento delle materie prime, innovazioni tecnologiche e produzioni di maggiore valore. Un peso maggiore del ciclo domestico permetterebbe di prevenire e ridurre i rischi strategici connessi con le congiunture internazionali. D’altro canto la Cina ha margini di miglioramento enorme su questo versante, sia per la grande entità del suo mercato interno, che per il basso grado di incidenza attuale della domanda interna. Da questo punto di vista l’attuale contingenza dettata dalla pandemia rappresenta un ottimo test per questi programmi: il prodotto interno lordo cinese è cresciuto lo stesso nonostante la presenza del covid-19, al contrario della maggiore parte delle economie mondiali, proprio grazie alla spinta della domanda interna, favorita anche da politiche fiscali apposite. L’intento della crescita interna non prevede certo l’abbandono delle esportazioni, tuttavia la tendenza appare già in atto, dato che la quota del commercio estero del prodotto interno lordo è passata dal 50% del 2008 alla quota attuale del 30%. Su questa contrazione ha pesato anche la diminuzione della manodopera a basso costo della Cina, che anche per le produzioni a marchio cinese ha iniziato ad utilizzare lavoratori di altri paesi. Ma, nonostante una maggiore specializzazione tra i lavoratori cinesi ed anche una produzione di maggiore valore aggiunto, la situazione delle zone rurali, caratterizzate da un arretramento ancora preoccupante e con un incremento di povertà, e quindi di disuguaglianza, dovuto alla pandemia, rispetto alle città, rappresenta un freno per gli obiettivi del Partito Comunista. La quota di commercio interno che contribuisce al prodotto interno lordo è ancora troppo insufficiente, essendo del 38,8% rispetto al 68% degli USA. Un semplice aumento delle retribuzioni provocherebbe inflazione e limiterebbe la spinta delle esportazioni; piuttosto viene individuata la leva fiscale per ridurre le diseguaglianze e permettere una redistribuzione adeguata della ricchezza in grado di permettere l’innalzamento della domanda interna, anche tramite un più facile accesso all’istruzione, alla sanità ed a politiche abitative adeguate. Queste politiche potranno incontrare la resistenza dei ceti conservatori della società cinese, tuttavia la necessità di una crescita più omogenea del popolo cinese è la condizione essenziale per abbattere quelle differenze che non permettono l’adeguato innalzamento della domanda interna e, di conseguenza della crescita del paese. Sarà, però interessante vedere se con una crescita economica più diffusa per il popolo cinese non cresceranno quei bisogni legati ad una maggiore diffusione dei diritti sociali, che hanno finora provocato le manifestazioni contro il potere.

La Cina spera nella sconfitta di Trump, ma i rapporti bilaterali potranno avere poche variazioni

Nel paese cinese è in corso un dibattito su come saranno i risultati delle elezioni presidenziali statunitensi. Gli analisti politici e la pubblica opinione della Cina sembrano concordi nel preferire non tanto la vittoria di Biden, quanto la sconfitta di Trump; se le due cose sono intimamente legate, ed una è la conseguenza dell’altra, per i cinesi sembra essenziale che Trump non venga rieletto e poco importa che la vittoria vada allo sfidante del partito democratico, perché ritengono qualsiasi alternativa migliore dell’attuale inquilino della Casa Bianca. In realtà, come si vedrà più avanti, le cose per la Cina, sostanzialmente cambieranno poco. Pechino ritiene Trump un politico troppo imprevedibile, difficilmente gestibile nella consuetudine dei normali rapporti internazionali. Trump, che, peraltro, ha un’ottima impressione del presidente cinese, non possiede un ragionamento politico lineare, si lascia troppo guidare dai sentimenti del momento ed è circondato da consiglieri inesperti e troppo inclini a non contraddirlo. Certamente la sua visione internazionale ha provocato nel paese americano, un odio verso la Cina, che, però, è stato facile sviluppare grazie alla precedente politica di Obama. Il predecessore di Trump, pur con modi differenti, ha messo al primo posto la questione della supremazia delle vie di comunicazioni marine, fondamentali per il trasporto delle merci, presenti nei mari cinesi, che Pechino ritiene facenti parte della sua zona di influenza esclusiva. Inoltre la questione della crescente volontà cinese di competere, non solo più a livello economico, ma anche geopolitico e quindi militare, con gli USA, per diventare la prima potenza mondiale, ha provocato una reazione trasversale negativa in entrambi gli schieramenti politici. L’azione, certo dissestata, di Trump si può collocare nella continuità della politica inaugurata da Obama. Certamente i modi di Trump non hanno certo facilitato il dialogo tra i due paesi, che, anzi si sono allontanati come non mai. Un cambio alla Casa Bianca è ritenuto preferibile, almeno per quanto riguarda le possibilità e le modalità di un dialogo che appare comunque difficile per i presupposti contingenti presenti. Quello che la Cina può aspettarsi da una vittoria di Biden è soltanto un atteggiamento più diplomatico nelle relazioni bilaterali, ma sui temi generali di discussione i margini per delle convergenze sono pochi. Sicuramente si potranno trovare delle intese sul cambiamento climatico ed anche sulla questione del nucleare iraniano, ciò potrà favorire una distensione, ma oltre sarà praticamente impossibile andare. C’è un indizio molto indicativo di come il partito democratico intende affrontare la Cina, infatti dal suo programma elettorale è scomparso il principio di una sola Cina: ne consegue che l’appoggio a Taiwan, peraltro fondamentale per gli USA dal punto di vista strategico, continuerà; così come quello ad Hong Kong, la cui opposizione è stata praticamente cancellata dalla legge liberticida. Avere un antagonista appartenente al Partito Democratico, anzi, potrebbe essere peggiore di fronteggiare Trump sulla questione dei diritti civili negati dal governo cinese; l’attuale presidente non si è mai mostrato troppo sensibile a questo tema al quale gran parte della sua formazione politica non pare interessata, viceversa la base elettorale di Biden potrebbe esigere una posizione ferma dal suo candidato nel caso venisse eletto. Una impressione è che Biden possa sembrare ai cinesi più arrendevole, ma questa impressione, sempre che sia vera, appare totalmente errata, perché la via dei rapporti tra USA e Cina nell’immediato futuro non potrà cambiare dagli standard attuali. Se ci sono margini per riprendere i negoziati sull’Accordo di cooperazione economica trans-pacifica e l’Associazione transatlantica per il commercio e gli investimenti, questo non vuole dire che Biden, se eletto, potrà transigere sul tema dei diritti, che, anzi, potrebbe diventare centrale nel rapporto con la Cina. Soprattutto la questione delle vie marittime e dell’appoggio agli alleati americani dell’area non potrà essere negoziabile e questo aspetto promette di continuare ad essere un grande ostacolo nei rapporti bilaterali, un ostacolo che resterà di tipo sostanziale nonostante la previsione di un possibile miglioramento dei rapporti formali.   

Gli USA inviano il Segretario della sanità a Taiwan

Dal 1979 gli Stati Uniti non inviano un funzionario di rango elevato a Taiwan, con cui non intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali, ma la decisione di Trump di inviare il Segretario alla salute degli USA, crea un nuovo punto di attrito nel già difficile rapporto con la Cina. L’atteggiamento ufficiale americano è molto cauto con Taiwan, tuttavia esistono sull’isola uffici di istituzioni americane che operano formalmente come vere e proprie rappresentanze diplomatiche. Per ora la volontà di Washington, che è stata una costante nelle varie amministrazioni succedute, anche di segno politico diverso, è stata improntata alla cautela per non urtare la Cina, con la quale si voleva comunque intrattenere un rapporto cordiale. La svolta nazionalista della Cina e la volontà di affermarsi come potenza mondiale, ma soprattutto avendo come obiettivo la riunificazione territoriale per esercitare la sua influenza nelle vie marittime, sta cambiando forzatamente le intenzioni statunitensi. Al programma americano di supremazia economica e commerciale, che ha anche portato alle sanzioni verso Pechino, si aggiungono le esigenze elettorali di Trump, in questo momento dato sfavorito dai sondaggi. Per l’inquilino della Casa Bianca è importante mettere Biden in una sorta di posizione di debolezza nei confronti della Cina, come fattore pericoloso per gli USA in caso di vittoria del candidato democratico. Risulta anche vero che dopo l’atteggiamento cinese verso Hong Kong, le minacce già fatte verso Taiwan, assumono una valenza particolare. Ad una eventuale invasione militare cinese dell’isola di Formosa gli Stati Uniti non potrebbero restare inerti; tenendo presente questa riflessione l’invio di un membro di alto rango del governo americano, rientrerebbe in una azione diplomatica preventiva: una sorta di avvertimento alla Cina ed alle sue eventuali intenzioni circa azioni militari. Un’altra causa della decisione americana, certamente non in contrasto con le precedenti, è quella di sottolineare l’atteggiamento di Taiwan e le differenze con la Cina riguardo alla pandemia, così da sotto intendere la cattiva gestione, ed anche oltre, della diffusione del virus. Questo aspetto è funzionale a Trump per cercare di allontanare la sua cattiva gestione della pandemia negli Stati Uniti, facendo ricadere sulla Cina la responsabilità iniziale della crisi medica. Ora la pessima gestione del presidente americano sulla diffusione del virus è più che un dato di fatto a prescindere da dove è venuto il virus e pur essendo presenti molti dubbi sui silenzi cinesi all’inizio della pandemia. Una volontà di tutelare Taiwan è certamente condivisibile, sia per il mantenimento dei diritti democratici, soprattutto dopo che sono cancellati da Hong Kong, sia per limitare l’azione cinese in campo internazionale e sia per preservare la possibilità della percorrenza delle vie marittime commerciali, però sono i tempi di questa azione ad essere sospetti, perché coincidono con uno dei momenti di massima difficoltà di Trump in patria: sia dal punto dell’immagine interna, sia per le difficoltà elettorali. Quanto all’obiezione di una possibile debolezza di Biden nei confronti della Cina, questa non sembra possibile perché la strada dei rapporti con la Cina sembra segnata a prescindere da quale sarà il prossimo presidente americano ed a quale partito apparterrà. Certamente potranno esserci modalità differenti circa il rapporto con la Cina, ma ormai la contrapposizione è troppo elevata e gli interessi troppo contrastanti per arrivare, almeno nel medio periodo, a rapporti più distesi. Per altro i rapporti distesi sono rimasti tali finché la Cina non ha espresso la volontà di aumentare le proprie ambizioni da grande potenza, quindi la possibilità di un atteggiamento differente da parte degli USA, semplicemente non può essere contemplata. Una delle riflessioni che si impone ancora una volta su questa vicenda è la conferma della inadeguatezza di Trump a ricoprire la carica politica più importante del mondo, perché la sua visione è troppo limitata agli interessi interni americani, senza contemplare i benefici indiretti di una corretta gestione della diplomazia della prima potenza mondiale, ma non solo, oltre ad una visione politica così limitata c’è anche un chiaro elemento di interesse personale che sembra essere in grado di essere messo in primo piano rispetto alla sua stessa politica governativa: una pessima qualità per chi è il presidente degli Stati Uniti.