La Cina alle corde per il Nobel

L’irritazione della Cina continua a salire per il caso del Nobel per la pace. Dichiarazioni ufficiali di Pechino, provenienti dal portavoce del ministero degli esteri, parlano della difficoltà oggettiva di mantenere rapporti amichevoli con la Norvegia, proprio per l’attribuzione del prestigioso, e mediatico, premio al dissidente Liu Xiaobo, attualmente condannato ad undici anni di prigione. Inoltre sono stati sospesi i negoziati per il libero scambio tra i due paesi, ufficialmente per consultazioni interne in seno al governo cinese. La Norvegia tira dritto per la sua strada, malgrado l’assenza certa di Lui Xiaobo, il comitato per l’assegnazione del premio Nobel ha confermato la premiazione per la data prevista: il 10 dicembre. I casi del genere nella storia del premio sono stati pochi, anche perchè in assenza del premiato c’era chi ne ha fatto le veci. Per la Cina la cassa di risonanza mediatica con ripercussioni negative sarà impressionante, Pechino si aspetta di essere sulla bocca di tutti i paesi più importanti e  delle organizzazioni internazionali, che daranno sicuramente la loro condanna al comportamento cinese. Non sarà un buon biglietto da visita per le aspirazioni cinesi di superpotenza accettata al tavolo delle nazioni che contano; la politica cinese si muove a fatica sul terreno dei diritti umani ed un ostacolo del calibro del premio Nobel non è un inciampo da poco. D’altra parte il fronte interno è di altrettanto difficile gestione, la sindacalizzazione e la  presa di coscenza dei lavoratori giunta alle pressioni sui diritti umani proveniente dal ceto intellettuale, pongono i governanti cinesi a mosse ben ponderate; allentare la stretta con concessioni ai lavoratori sulle condizioni di lavoro  è cosa ben diversa dal concedere la libertà, anche a tempo, ad un dissidente per ritirare il premio Nobel, su questo Pechino non può cedere. Ma minacciare la rottura diplomatica con un paese per il solo fatto di consegnare un premio, sia pure il Nobel, è segnale di grande disagio, di non riuscire a gestire la situazione, in questo caso, per il versante diplomatico il gigante mostra piedi d’argilla.

La Cina, il Vaticano ed i diritti nella Repubblica Popolare

L’ordinazione di un nuovo vescovo da parte della “Associazione patriottica cattolica cinese”, la chiesa cattolica riconosciuta dal governo di Pechino ma non da Roma, ha provocato le proteste del Vaticano. In Cina esistono due organizzazioni cattoliche, la già citata “Associazione patriottica cattolica cinese”, dipendente direttamente dallo stato e non riconosciuta dalla chiesa cattolica romana e la cosidetta chiesa cattolica sotterranea,  osteggiata dallo stato ma riconosciuta dal Papa. Secondo dati non ufficiali la chiesa sotterranea sarebbe composta da 16 milioni di fedeli mentre la prima è accreditata di 5 milioni di componenti, tuttavia molti fedeli seguono entrambe le confessioni, questo dato sarebbe giustificato dai continui contatti, chiaramente non ufficiali che sono continuati ad intercorrere tra le due chiese. Il Vaticano è uno dei 25 stati che non riconosce la Repubblica Popolare Cinese come stato legittimo ed ha più volte attaccato il regime di Pechino sul tema dei diritti umani; nei giorni scorsi l’ordinazione del vescovo da parte della chiesa ufficiale cinese ha scatenato le proteste del Vaticano che sente sempre più invasa la sua sfera d’interesse. La risposta del governo cinese è stata singolare: il Vaticano è stato accusato di restringere la libertà religiosa della chiesa cattolica ufficiale cinese. Al di là delle ovvie obiezioni a questa risposta quello che appare chiaro è la difficoltà delle istituzioni cinesi ad affrontare l’argomento; la risposta fornita alle critiche vaticane pare un’autogol di portata internazionale. Ma il tema va inquadrato in una visione più ampia: alla Cina non basta più la potenza economica per accrescere il proprio prestigio internazionale ed assurgere a potenza globale, le condizioni dei diritti umani e della libertà politica e religiosa, sono fonte continua di critica dell’opinione pubblica internazionale e degli enti sovranazionali e solo la grande capacità produttiva ed economica, hanno risparmiato a Pechino sanzioni e restrizioni commerciali. Il rispetto dei diritti non è solo una questione morale ma anche economica, Pechino basa la sua forza economica sulla quantità, quantità di merci prodotte, quantità di forza lavoro da impiegare e questo immenso numero di braccia è impiegato in una situazione normativa dove i diritti dei lavoratori sono praticamente inesistenti; ciò crea uno sbilanciamento concorrenziale con le altre nazioni sia dal punto di vista dei costi organizzativi e burocratici sia dal punto di vista retributivo. La Cina è sensibile a questi argomenti ed è conscia che il progressivo affermarsi dei diritti sia ineluttabile (la pressione non è solo internazionale, anche nell’interno del paese si stanno piano piano affermando associazioni dei diritti, ci sono scipoeri ed agitazioni)  tuttavia cerca di rallentare questo processo pur cercando di accreditare le piccole novità in materia introdotte come grandi innovazioni. In quest’ottica anche la promozione di un’organizzazione cattolica, seppur inquadrata nello stato, può essere veicolo di pubblicità ed è per questo che la critica vaticana, proveniente da un microfono sempre amplificato, ha colpito così tanto i dirigenti cinesi.

Il fronte coreano pericolo per il mondo

L’episodio bellico tra le due Coree scopre i nervi nella zona del sud est asiatico. Washington teme che si apra un nuovo fronte che sarebbe difficile da gestire sia sul piano militare che diplomatico, gli USA ritengono la Corea del Sud alleato strategico nello scacchiere regionale per la vicinanza con la Corea del Nord,  stato da tenere sotto controllo per lo sviluppo dell’atomica, quindi il coinvolgimento diretto sarebbe pressoche automatico. Nelle basi americane sul territorio di Seul staziona già un contingente consistente delle truppe americane pronto all’impiego immediato, ma una nuova guerra avrebbe un impatto fortemente negativo sull’opinione pubblica americana nel momento appena successivo alla sconfitta elettorale democratica.  Tuttavia Obama non intende passare sopra all’attacco missilistico di Pyongyang, tanto è vero che da domenica 28 novembre la marina militare americana inizierà manovre congiunte con Seul proprio di fronte alle coste nord coreane; mostrando i muscoli gli USA tentano di dissuadere   il regime nord coreano ad un uso ulteriore della forza. Nel frattempo la UE mette in campo la propria diplomazia per scongiurare il conflitto, i paesi europei già impegnati negli scenari iraqeno e afghano non potrebbero permettersi economicamente nuove prove militari che sarebbero sicuramente richieste dagli USA. Il pericolo di un coinvolgimento a catena indesiderato viene vissuto con più che apprensione dal mondo occidentale, già concentrato sull’atteggiamento iraniano  e sugli sviluppi dell’atomica della repubblica islamica. Gli sforzi diplomatici convergono sulla Cina, sulla cui azione era già focalizzata l’attenzione in funzione di dissuasione dell’atomica nordcoreana, ora l’atteggiamento cinese risulta ancora più determinante con l’aggravarsi della situazione; Pechino non desidera imbarcarsi, non solo in un conflitto, ma nemmeno in una schermaglia diplomatica con USA e UE, dopo le difficoltà e le trattative incontrate sulle battaglie per la svalutazione della propria moneta, la concentrazione della Cina è pressoche totale sull’economia tuttavia Pyongyang è un alleato prezioso per la propria posizione fisica nella regione e Pechino ha più di un argomento per ridurlo alla ragione. Resta il Giappone, come ultimo attore sulla scena, Tokio ha più volte manifestato preoccupazione per l’atomica nord coreana e per le ricadute sulla propria economia causate da un vicino così turbolento; le cannonate sull’isola sud coreana hanno inasprito la condizione giapponese  ed hanno determinato la richiesta di sanzioni internazionali pesanti, per Pyongyang non si annunciano tempi facili.

Iran: la pagina web nazista

Qual’è il senso di aprire una pagina web nazista (irannazi.ir)? Non si sta parlando di skinheads ma della Repubblica Islamica Iraniana; Ahmadineyad ha più volte ribadito, suscitando sdegno più che giustificato, che l’olocausto è una finzione storica a beneficio di quella che definisce “l’entità sionista”. Nella strategia anti ebraica l’atto della pagina nazista è un salto di qualità, innazitutto perchè prima è stata vietata e poi permessa dalle autorità, che, è quasi superfluo dirlo, monitorano costantemente ed attivamente lo spazio web, poi perchè pare sancire pubblicamente la giustificazione dello sterminio di massa attuato dalla Germani nazista. L speranza è che sia solo una provocazione per addensare ancora di più i paesi e le organizzazioni che spingono contro Israele, fatto comunque di per se già grave; peggio se l’atto venisse integrato in una strategia globale di comunicazione propedeutica ad un eventuale paventato attacco missilistico cerso Israele, come più volte minacciato. Quella a cui stiamo assistendo è l’ennesima provocazione di Teheran, atti che sfiorano la bizzarria, ma che non sono certo fatti a caso o frutto di improvvisazione, siamo davanti ad atti consapevoli e voluti. Una spiegazione possibile è attirare l’attenzione internazionale per distoglierla dal fronte interno gravato dai grossi problemi con l’opposizione ed anche distogliere, almeno in parte, l’attenzione focalizzata dal programma nucleare; programma nucleare che sembra avere subito l’ennesimo stop per intrusione di virus informatici nel software che governa il sistema per l’arricchimento dell’uranio. Questi sabotaggi, peraltro mai riconosciuti come tali dall’Iran, non sono mai stati rivendicati pubblicamente, ma il maggiore indiziato è lo stato israeliano, che pare manovrare dietro le quinte l’interdizione del programma atomico islamico. In ogni siamo di fronte a movimenti che non vanno certo verso la distensione.

Il fronte atomico nordcoreano

Non c’è solo l’atomica iraniana a preoccupare il pianeta, anche nella Corea del Nord procedono gli esperimenti per la costruzione del reattore nucleare. Recentemente il programma per la costruzione di un’impianto per l’arricchimento dell’uranio desta  viva preoccupazione nel paese del sol levante, che cerca di coinvolgere, con la via diplomatica, i paesi della limitrofi: Cina e Corea del Sud e gli alleati di sempre, gli USA. La tensione che si sta creando nella regione rischia di aprire un nuovo fronte, perlomeno diplomatico, per gli USA già impegnati su più palcoscenici. Il Giappone sembra essere il paese in preda a maggiore apprensione, tanto da cercare di coinvolgere contro la Corea del Nord, i cinesi con i quali i rapporti diplomatici ultimamente non sono dei migliori. La Cina appare attualmente l’unico paese in grado di fare recedere o quantomeno di esercitare pressioni sul regime nordcoreano, grazie agli aiuti fondamentali che fornisce alla dittatura di Pyongyang, l’atteggiamento di Pechino sarà un banco di prova per il ruolo di nuova potenza sulla ribalta delle relazioni internazionali, la condotta cinese su questa partita sarà oggetto di studio degli analisti per capire gli intendimenti della Repubblica Popolare sulla proliferazione nucleare del pianeta. La Cina guarda con interesse alla Corea del Nord perchè contraria alla riunificazione delle due Coree che gli consente una maggiore influenza sulla penisola e che permette di fare da contrappeso all’alleanza tra la Corea del Sud e USA (tra l’altro presenti con un contingente militare su suolo di Seul). Per questi motivi l’azione diplomatica cinese sulla questione nucleare è attesa dalla comunità internazionale con una dissuasione sul programma nucleare nordcoreano.

NATO: exit strategy per l'Afghanistan

Il progetto di exit strategy della NATO dall’Afghanistan fa un passo ulteriore verso l’attuazione. Dal 2011 al 2014 lo stato di Karzai, pur supportato dalla presenza di truppe seppure ridotta, dovrà essere in grado da solo di badare alla propria sicurezza. Sarà un ritiro graduale attuato progressivamente controllando distretto per distretto  l’attuazione della misure di sicurezza, della preparazione e del controllo del territorio dei militari afgani. La NATO e gli USA cercano così di dare efficacia alla concretizzazione della tanto agognata exit strategy, richiesta a gran voce oltre che dall’opione pubblica anche dalle esigenze di bilancio ed organizzative della nuova struttura dell’alleanza atlantica. Il ritiro sarà attuato con una doppia azione: militare e diplomatica. L’azione militare dovrà intensificare sopratutto la repressione nelle zone al confine con il Pakistan, dove si annidano e rifugiano le parti più estremiste dei talebani, ma si dovrà anche incrementare l’autosufficienza delle forze armate afgane, verificando anche le possibili di infiltrazioni di elementi avversi e la loro neutralizzazione. Sul fronte diplomatico l’azione dovrà muovere in più di una direzione: verso l’esterno, promuovendo il contatto con le parti più radicali per cercare una qualche forma di collaborazione ed irregimentazione nell’alveo dello stato afgano e verso l’interno coinvolgendo la società afgana ad una maggiore collaborazione con lo stato centrale. Giustamente non sono obiettivi di facile portata  e per questo è stata prevista una scadenza a medio lungo termine, l’obiettivo del 2014 è comunque ambizioso e di difficile realizzazione compiuta, si tratterà di decidere al momento della scadenza se la data sarà inderogabile oppure no. Comunque è già previsto un numero di truppe che continueranno a prestare assistenza allo stato afgano, si dovrà verificare, in base all’avanzamento del progetto, se questa previsione sarà sufficiente o se sarà necessario l’incremento della forza militare. Fondamentale sarà la risposta dei primi distretti che saranno lasciati interamente alle forze locali, se la metodologia della strategia d’uscita sarà positiva si potrà continuare su quei binari viceversa saranno necessari aggiustamenti alla strategia applicata. In ogni caso la ricerca di un uscita è da considerarsi positiva sopratutto se inquadrata nella nuova organizzazione NATO che prevede un maggiore uso della diplomazia per la risoluzione dei conflitti, su questo campo siamo certi che non ci sarà l’exit strategy.

Operazioni militari per l'Iran

Teheran alle grandi manovre; quelle inaugurate in questi giorni sono operazioni militari in grande stile per testare al massimo le capacità della difesa aerea iraniana. In particolare gli “esami” riguardano i missili a corta, media e lunga gittata nel quadro del nuovo sistema di difesa dei cieli di Teheran. Queste operazioni appaiono sempre più un tentativo di mostrare i muscoli, politica già intrapresa dal capo di stato iraniano con dichiarazioni più o meno esplicite,  come risposta alle minacce riguardanti la questione della costruzione dell’atomica nel regime degli ayatollah. Inoltre queste manovre sono evidentemente la risposta all’incremento dei depositi degli armamenti americani di stanza sul territorio israeliano. Quella che è in corso è sempre più una guerra di nervi, un logoramento continuo sotto la minaccia di un conflitto in una regione chiave del pianeta  che ha davanti possibili  scenari di portata terribile. Si sta camminando sulla lama di un rasoio, il tira e molla sulla questione atomica rischia, pur essendo fonte reale di preoccupazione per tutti, di essere una porta sull’abisso, le legittime preoccupazioni israeliane rischiano di contribuire allo spezzare la corda della pace. Certamente è comprensibile temere un’escalation da parte iraniana verso il paese della stella di David, il problema adesso è chi farà per primo un qualsiasi sbaglio di portata tale da provocare la reazione dell’altro, innescando così l’irrevocabile. Quale soluzione è possibile? Il deterrente delle armi si basa su di un mini equlibrio del terrore, per ora circoscritto ai confini della regione, una riedizione riveduta e corretta della situazione di stallo degli anni 70-80, ma senza quelle garanzie assicurate da diplomazie efficienti e preparate, peggio ora si è davanti a diplomazie che non si parlano se non attraverso le minacce. E’ urgente coinvolgere maggiormente le nazioni unite nel controllo delle operazioni atomiche iraniane, magari concedendo qualcosa, nel caso siano presenti i presupposti, per le applicazioni pacifiche relative all’energia. Nel contempo è necessario che il processo di pace israelo-palestinese proceda a tappe forzate verso una soluzione condivisa ed accettabile per entrambe le parti, eliminando una delle principali fonti alle quale Ahmadinejad più spesso si appella per attaccare verbalmente Israele.

Gli Stati più pericolosi del pianeta

La società inglese Maplecroft, specializzata nella valutazione del rischio terroristico, ha stilato una classifica dei paesi in cui il rischio di attentati è massimo. Somalia, Pakistan, Iraq ed Afghanistan, Palestina e Yemen stanno in cima a questa speciale classifica. Ci troviamo di fronte a stati fortemente destabilizzati con governi privi di autorità su grandi parti del territorio statale, coinvolti in guerre endemiche difficile da risolvere. In questi stati il terrorismo è in perenne stato di coltura, con il ricambio continuo assicurato grazie ad una azione incessante del proselitismo in ragione della forte penetrazione tra la popolazione dell’islamismo più estremo, che funziona da aggregatore sociale in un ambiente dove è quasi sempre l’unica organizzazione sociale presente. Siamo in stati dove la condizione sociale ed economica generale, anche in presenza di risorse rilevanti, sfiora la povertà quasi assoluta, con governi che sopravvivono grazie agli aiuti internazionali  e che sono spesso corrotti ed inefficaci, incapaci di intraprendere una politica che tenti almeno un qualche tipo di soluzione per risolvere problemi ormai endemici. Una caratteristica comune di questi paesi è la divisione estrema, spesso di matrice tribale, che contraddistingue la difficoltà di risolvere la questione interna di ogni singolo paese; spesso ci si trova di fronte a rivalità ormai incacrenite dallo scorrere della storia, acuite sempre di più da fattori di origine sia interna che esterna. La condizione di vita è di perenne tensione, le popolazioni sono fiaccate da continui atti di guerriglia, spesso urbana, che si concreta con attentati che sovente hanno le dimensioni della strage. Questi stati sono un pericolo oltre che per se stessi ed i loro abitanti anche per la comunità internazionale, non è un caso che sono scenario di guerre che assorbono ingenti costi umani ed economici. Quello che manca è l’azione più pressante delle organizzazioni internazionali sia in fase di intervento che di coordinamento dei processi di pace, ci si basa ancora sulla politica del gendarme planetario, gli USA, che ormai faticano ad assolvere questo compito per svariate ragioni, è ora che l’ONU si doti di mezzi sia militari che diplomatici efficaci per assolvere il suo ruolo.

La Russia torna in Afghanistan

Il ritorno della Russia in Afghanistan è sempre più vicino e stavolta di fianco alla NATO. La notizia è clamorosa ma è già preceduta da accordi per forniture all’alleanza di Bruxelles di elicotteri; quindi il dialogo è iniziato, per Obama un’alleato in più che potrebbe essere decisivo  militarmente nella lotta contro i Talebani, tuttavia questi ultimi potrebbe sfruttare a loro favore con la popolazione il cattivo ricordo lasciato dall’Armata Rossa, peraltro già sconfitta una volta. I Russi con questa manovra ammettono di temere ancora una volta, il pericolo talebano e la minaccia dell’invasione dell’islamismo estremo. Mosca teme che un progressivo sganciamento della NATO e degli USA, congiunto anche ai recenti sviluppi di politica interna (coinvolgimento dei talebani nel processo di pace) e internazionale (accordi Afghanistan  con l’Iran) porti alle sue frontiere pericolosi focolai di tensione capaci di  influenzare i paesi islamici al suo confine in funzione anti russa. La minaccia è concreta, il peso dei Talebani non accenna a diminuire grazie anche all’abilità giocata su più fronti: militare, sociale, politico e strategico. Un’altro fattore che ha deciso la discesa in campo della Russia è la volontà di bloccare il traffico di eroina che affluisce attraverso l’Afghanistan sul suo territorio e che costituisce un grosso canale di finanziamento per la parte talebana. La NATO acquisisce maggiore libertà di movimento per le sue truppe, che possono ora sfruttare le vie russe per aggirare i ribelli, questo fattore può, in parte bilanciare, la capacità di manovra che i Talebani detengono grazie alla disponibilità del territorio pakistano al confine con l’Afghanistan, territorio, che salvo in pochi casi sporadici, non è mai stato toccato dall’alleanza atlantica per non violare la sovranità di Islamabad. L’ingresso della Russia segna un punto di svolta nel conflitto afghano, il ritorno di Mosca può essere di buon auspicio per le relazioni con il patto atlantico, viceversa si possono incrinare quelle con i paesi islamici per i quali la Russia poteva fungere da cuscinetto per duri contrasti con l’occidente, in ogni caso è meglio che Mosca sia dalla parte occidentale.

L'audace politica estera Iraniana

L’ammisione di Karzai di ricevere fondi dall’Iran rivela, se ce ne fosse stato bisogno, la profonda instabilità politica, più ancora che militare della regione. La facilità con la quale è stato praticato questo “doppiogiochismo” la dice lunga sulla probabilità di un esito veloce del conflitto. Negli USA e nella NATO le impressioni sono di sconcerto, intanto nel teatro bellico-diplomatico più difficile al momento nel mondo, irrompe l’Iran, che con i suoi finanziamenti in moneta sonante, continua a tessere la sua tela di contatti internazionali tesa ad accreditarsi in quei paesi potenzialmente avversi all’azione americana. Ma questo fino ad ora, intrecciare relazioni diplomatiche con l’Afghanistan, seppure comprate, fa registrare un salto di qualità  nell’azione diplomatica di Teheran, significa sfidare apertamente, anche se non in campo militare, la superpotenza americana su di un terreno molto più accidentato e molto più ricco di sfumature ed implicazioni. La mossa è stata talmente inaspettata che si attendono ancora reazioni degne di questo nome da Washington. L’Afghanistan diventa così l’unico paese al mondo alleato sia degli USA che dell’Iran ed è difficile capire come saranno i comportamenti futuri della diplomazia di Karzai, infatti lo stato afghano non può ancora non dipendere dagli USA sia per la parte militare che per quella economica, ma pare anche, nel contempo, cercare nuove possibilità future, anche in ottica di pacificazione nazionale con la parte dei talebani i quali ricevono la gran parte dei finanziamenti proprio dall’Iran. E’ innegabile che la mossa di Ahmadinejad spariglia le carte sul tavolo del teatro afghano, ed è altrettanto innegabile l’acume e la bravura di chi l’ha pensata e messa in atto, adesso si attendono le contromisure americane, anche perchè intanto il regime teocratico ha ufficialmente caricato di uranio il reattore nucleare che dovrebbe essere messo in funzione nel 2011, agendo senza mostrare di temere le sanzioni più volte minacciate da USA ed UE.