USA e Cina verso la nuova guerra fredda

Dunque il destino del mondo è quello di vivere una nuova guerra fredda, che rischia di protrarsi molti anni. Però le analogie con il conflitto a distanza tra USA ed URSS sono molto poche, a parte il confronto tra una democrazia ed un regime non democratico. Dal punto di vista economico tra la Pechino attuale e la Mosca degli anni che vanno dal secondo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino, non ci sono similitudini. Ora la Cina sta giocando un ruolo praticamente paritario con gli USA sulla scena economica, ed anzi questa competizione è ritenuta la vera causa del confronto a distanza. Certamente esistono i problemi legati alla svolta sempre più autoritaria di Pechino, con l’intensificazione della repressione dei musulmani, la sempre maggiore negazione dei diritti civili ed umanitari e la lotta con il dissenso ingaggiata ad Hong Kong, effettuata, tra l’altro, con il mancato rispetto di un trattato internazionale. Ma se la controparte è rappresentata da Trump e dalla sua politica di supremazia americana, soprattutto in economia, questi argomenti, seppure validi e condivisibili, paiono una sorta di pretesto per inasprire il rapporto con Pechino. Sicuramente il comportamento cinese è deprecabile, fatto di provocazioni, di un uso sempre più consistente dello spionaggio industriale, di comportamenti equivoci, come nel caso della pandemia partita proprio dai territori della Cina. Washington ha sfruttato tutto questo contesto, non agendo da prima potenza mondiale, cercando di coinvolgere gli alleati sul piano politico per un contrasto efficace, basato su programmi e principi, ma ha dato l’impressione di volere tutelare la sua supremazia economica per esclusivi vantaggi nazionali. Trump invidia al presidente cinese la grande autonomia e la capacità decisionale praticamente illimitata e questo non ne fa il campione degli interessi del campo occidentale, anche perché predilige i risultati economici rispetto a quelli politici, come il rispetto dei diritti, proprio come succede a Pechino. Questa è anche la ragione del timido atteggiamento degli europei verso l’attuale amministrazione della Casa Bianca, che, inoltre, sono lontani in senso geografico, dalle dispute che hanno maggiormente coinvolto paesi del campo occidentale, come Giappone, Australia o anche l’India nei confronti di Pechino. Al contrario nelle popolazioni di USA e Cina esiste un dato comune molto sconfortante: in entrambi i popoli ed in maniera simmetrica vi è una avversione verso l’altro paese (66% degli americani hanno una opinione sfavorevole sulla Cina, bilanciata dal 62% dei cinesi che hanno la medesima opinione verso gli USA), che rappresenta un elemento che non può essere tenuto in considerazione ed anche sfruttato dalle rispettive amministrazioni. Una prova è che il concorrente di Trump alle prossime elezioni presidenziali americane, Joe Biden, ha già espresso tutta la sua contrarietà alla politica cinese; l’unica speranza è che sposti l’attenzione dall’economia a temi politici di più ampio respiro. Tuttavia il problema contingente è che le due economie sono fortemente interconnesse, infatti da entrambe le parti vi è bisogno di materie prime e prodotti lavorati che sono prodotte dal paese avversario; Trump ha adottato la strategia dei dazi commerciali (peraltro imposti anche agli alleati) per ridurre il divario della bilancia commerciale con la Cina, una strategia miope, che non ha tenuto conto della bilancia commerciale globale degli Stati Uniti e che ha innescato analoghe contromisure cinesi. Procedere su questa strada non conviene a nessuno dei due contendenti, ma restano le incognite militari legate agli aspetti geopolitici, che sono in stretta relazione con le vie di comunicazioni marittime delle merci nei mari del Pacifico e del confronto sulla crescita degli armamenti. La situazione attuale, pur con un livello di pericolosità elevato, non sembra potere trasformarsi in un conflitto armato, anche se le occasioni potenziali di scontri non mancano, quanto assestarsi su di un conflitto non tradizionale basato sull’uso delle tecnologie per influenzare le rispettive opinioni pubbliche, un incremento dello spionaggio ed, eventualmente, lo sfruttamento di conflitti locali a bassa intensità. Se questo può sembrare un buon segnale per la pace mondiale, ma non per tutti, è anche vero che è la situazione migliore per mantenere alto il livello di una guerra che si può definire fredda, con tutti i rischi del caso: dal ritorno dell’equilibrio del terrore e della proliferazione nucleare, fino a pesanti ripercussioni mondiali sull’economia, con aumento dei prezzi e limitazione della circolazione di prodotti e servizi e quindi ritorno di fenomeni come quello dell’inflazione.  Non è facile dirimere questa situazione, soprattutto pensando alla costante mancanza di diritti nel paese cinese e nella volontà di Pechino di esportare il proprio modello, un pericolo dal quale l’Europa deve assolutamente preservarsi.

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