La politica estera di Obama

Barack Obama ha tenuto il suo primo discorso all’ONU cercando di portare sulla scena delle nazioni unite il suo credo diplomatico , la sua teoria del mondo come visione globale. Tale politica è una sorta di novità rispetto alle concezioni di chi lo ha preceduto, come ad esempio i due Bush, che vedevano gli USA posizionati all’interno dell’assemblea dell’ONU come una sorta di “primus inter pares”, un membro sostanzialmente di maggiore importanza e maggior peso nelle decisioni e nell’indirizzo della politica della massima organizzazione internazionale. Obama pare voglia contraddistinguersi per un profilo più basso e coinvolgere maggiormente sia l’ONU che gli altri paesi nella gestione dei problemi e conflitti internazionali, è chiaro che questa nuova rotta è dovuta non solo all’esclusiva visione di Obama ma anche alla situazione interna contingente degli USA. Il presidente americano infatti, nonostante i successi ottenuti con la riforma della sanità ed il rispetto del rimpatrio dei primi contingenti dall’Iraq, deve combattere con una accanita opposizione interna che non permette una sostanziosa distrazione delle forze verso scenari internazionali. Obama usa anche argomenti pesanti per coinvolgere maggiormente gli altri paesi nell’azione comune, in special modo l’Unione Europea, sostenendo che la risoluzione del problema afgano, proprio per la contiguità territoriale è un problema più importante per il vecchio continente che per otlreoceano.  Con le altre superpotenze l’amministazione americana ha intrapreso un politica di dialogo che rinnega lo scontro: con la Russia sono stati intrapresi rapporti più distesi ed anche con la Cina, malgrado le differenze in materia economica si vanno cercando intese sempre più proficue. Resta il nodo Iran, anche alla luce dell’atteggiamento di Turchia e Brasile, storici alleati USA, che non hanno condannato il regime di Teheran, anche in virtù di intensi accordi commerciali che intercorrono tra questi paesi. Comunque la politica americana pare ora tendere alla ricerca di una pacificazione condivisa tra i componenti del mondo, certo affermarlo non basta ma è già un grosso passo avanti.

Al Qaeda versus Francia (ed Europa)

Il rapimento del personale francese della società AREVA, che gestisce le miniere di uranio del Niger, è un colpo strategico non solo all’economia di Parigi, ma anche agli altri paesi europei a cui la Francia vende l’energia elettrica (Italia,  Spagna, Inghilterra e Germania). Questo atto terroristico appare avere come scopo minacciare il cuore economico dell’Unione Europea attraverso il principale produttore di energia nucleare, il fatto ha anche valenza simbolica si cerca di colpire un produttore di energia nucleare come l’occidente che, di fatto concorre, all’impedimento per fare partire l’Iran con i reattori nucleari. La situazione della scelta dell’obiettivo deve fare riflettere, Al Qaeda non ha colpito a caso: in questo momento la Francia appare debole nel teatro internazionale per i fatti delle espulsioni dei rom, ed una ulteriore esposizione sulla scena mondiale ne fa un soggetto debole in un momento dove occorrerebbe un basso profilo e non essere al centro della scena. Nonostante il riserbo mantenuto filtrano notizie su di una azione militare condotta da forze francesi d’elite  su suolo straniero, l’intervento, peraltro autorizzato per la prima volta in 25 anni, dal Niger, mette la Francia in una sovraesposizione mediatica in questo momento non opportuna. Intanto sul territorio nazionale la nazione transalpina vive una in uno stato di psicosi da attacco terroristico, le minacce di Al Qaeda sono ritenute reali e tutti i dispositivi di controllo sono allertati al massimo grado dopo gli avvertimenti seguiti al fallito attacco compiuto con la Mauritania contro la base qaeddista in Mali. E’ comunque chiaro che la Francia, pur essendo l’obiettivo principale, non è il solo, l’uranio scarseggia e le miniere del Niger che riforniscono i reattori francesi sono spesso oggetto di attacchi da parte della guerriglia quindi  tendono, in ultima analisi a creare problemi ad uno dei motori dell’economia europea. Questo fatto segna un cambio strategico delle azioni terroristiche alzando il livello degli obiettivi e le conseguenze delle azioni, per ora i tentati sabotaggi sono ancora marginali ma non è da escludere un’escalation verso obiettivi più ambiziosi come gli oleodotti che numerosi attraversano zone che possono finire sotto il controllo o comunque permettere l’azione dei qaeddisti.

La sinistra che scompare

La debacle del partito socialdemocratico svedese è l’ennesima spia della difficoltà dei partiti laburisti e di sinistra nell’arena politica europea. La sconfitta in Svezia è solo la punta dell’iceberg, ma molto significativa essendo maturata nella patria del modello svedese quello della socialdemocrazia per antonomasia. Il dato è comune nell’area europea, infatti solo sei paesi su ventisette sono governati da partiti o coalizioni di sinistra, quali sono le cause comuni che hanno caratterizzato questo trend continentale? La politica economica delle coalizioni di centro sinistra è stata caratterizzata dall’antitesi delle teorie redistributive del reddito prediligendo vie a metà tra il vantaggio dei grandi gruppi finanziario-industriali e le privatizzazioni spinte, generando ulteriore diseguaglianza sociale anzichè esercitare una azione mitigatrice sulla forbice dei redditi. Tali effetti sono stati amplificati da una delle più grosse crisi economiche avvenute negli ultimi decenni. Lapercezione degli elettori di sinistra (o centrosinistra) è stata un misto di delusione per aspettative non rispettate, l’imperizia dei governanti che in alcuni casi  hanno rasentato il dilettantismo e per l’evidente tradimento dei programmi elettorali. Anche la situazione sociale non è stata governata a sufficienza, non sono stati cioè capiti quei problemi e quelle istanze legate all’immigrazione, talvolta clandestina, e con la connessa criminalità che ha infestato l’Europa, si è preferito proseguire una politica quasi permissiva senza risolvere con il giusto rigore e con una azione politica univoca il crescente disagio della cittadinanza indigena. Con questi presupposti per le coalizioni avversarie è stato facile inserirsi nelle maglie dell’elettorato deluso e spostare a destra la barra dell’Europa,  con conseguenze non troppo positive anche per l’Unione, giacchè le posizioni dei partiti di centrodestra, sopratutto dei nuovi membri, non sono mai state tradizionalmente europeiste.

La lotta alla povertà dell'ONU

L’ONU si riunisce per ridurre la povertà mondiale, obiettivo ambizioso ed istituzionale per le nazioni unite. Il progetto, in realtà, coinvolge più obiettivi, dato che la povertà nel suo complesso è una somma di più fattori. Molto passa dalla riduzione della fame nel mondo attraverso la quale si combattono diverse malattie che flagellano le parti più povere del pianeta. Altre aree d’intervento riguardano la riduzione della malaria, dell’AIDS e della mortalità infantile. Ma a lato di queste emergenze, di natura medica, per sconfiggere la povertà mondiale occorre agire sugli ostacoli sociali che frenano lo sviluppo: la parità dei sessi, la mancanza endemica di scolarizzazione e la scarsità di infrastrutture che consentano uno sviluppo economico tale da consentire una qualche forma di autosufficienza e di ingresso nel mercato mondiale delle merci e della produzione in modo degno e non subalterno. E’ chiaro che gli obiettivi sono ambiziosi, ancorchè doverosi, e necessitano di finanziamenti cospicui, si parla di mille miliardi di dollari, è impensabile che in tempi di crisi economica, come l’attuale fase storica, il budget sia sostenuto soltanto dai paesi ricchi, per questo il segretatio generale dell’ONU, Ban Ki-Moon ed i suoi funzionari pensano a modi di finanziamento innovativi capaci di innescare un circolo virtuoso. I mezzi individuati sono lo sviluppo delle reti di comunicazioni, con internet e la telefonia mobile in modo di incrementare le comunicazioni anche in funzione commerciale, la tassazione dei trasporti e lo sviluppo di flussi turistici verso nuove mete sconosciute presenti nei paesi in via di sviluppo. La sfida è ambiziosa, l’augurio è che si arrivi a risultati tangibili anche in un’ottica di pacificazione mondiale da ottenere attraverso lo sviluppo economico.

Al Qaeda proclama

Al di là dei proclami di Al Zawahiri, che proclama come imminente la vittoria in Afghanistan, è chiaro che dal pantano dove si sono infilate le forze NATO sarà sempre più difficile uscire. La fase militare attuale è caratterizzata dalla situazione di stallo dovuta ai combattimenti che hanno come scenario il “cul de sac” delle valli più interne, dove il nemico è costituito dalle tribù più vicine agli integralisti di Al Qaeda, sono gli stessi avversari che hanno messo alle corde l’armata rossa; psicologicamente sono forti della padronanza del territorio e godono dell’appoggio della popolazione guadagnato in parte con il rispetto, in parte con la minaccia. Anche il Generale Petraeus, capo delle forze NATO, è scettico sull’ipotesi di un ritiro entro il 2011, come già programmato, il suo atteggiamento è più pragmatico ed è volto a ridurre le perdite civili, ben comprendendo che l’eventuale vittoria non può passare solo dall’azione militare ma anche dalla conquista della popolazione civile. Proprio su questo campo si apre la nuova offensiva di Al Qaeda che rivendica come determinante l’azione di aiuto portata ai fratelli islamici pakistani durante le recenti alluvioni, incolpando il governo centrale di furto relativamente agli aiuti internazionali. Diventa sempre più chiaro che l’investimento sempre maggiore dovrà riguardare non solo lo sforzo militare ma il corollario civile che permetta di guadagnare il sostegno della popolazione, e la sua costante difesa, oltre ai cannoni la parte essenziale deve riguardare sempre più le scuole, gli ospedali,  le infrastrutture in generale e la loro pubblicizzazione nel tessuto sociale afgano.

Diplomazia dilettante?

Uno spettro di diplomazia si aggira per l’Unione Europea, il trattamento della questione dei rimpatri dei rom, per il quale in questa sede non si vuole dare un giudizio di merito, con le discussioni aspre ed il dibattito non certo diplomatico che ne è seguito sparge sale sulle ferite aperte del gestione dei rapporti tra gli stati membri e tra gli stessi stati e le istituzioni internazionali. Per prima cosa lo spettacolo è stato indecoroso, non è ammissibile un metodo tale della gestione della controversia, non è possibile che manchi una forma istituzionale che permetta di dirimere la questione nel rispetto dei modi e delle forme che dovrebbero caratterizzare i rapporti internazionali, non solo, tali forme dovrebbere essere un dato di fatto certo tra paesi di una stessa organizzazione internazionale e tra di essi e le proprie figure istituzionali. Viene il dubbio di essere davanti ad una mancanza di conoscenza conclamata, non solo delle forme ma anche del protocollo che deve essere seguito in tali occasioni.  Ne consegue un sospetto atroce: a chi è in mano la diplomazia comuntaria per i rapporti al proprio interno? Siamo davanti ad una accozzaglia di dilettanti incapaci di mantenere su di una via consueta i rapporti diplomatici? Il sospetto è legittimo, ma esiste anche un’altra possibilità si vuole seguire una tattica di rottura che implichi scenari futuri? Una tattica politica che voglia delegittimare le istituzioni europee per carpirne le competenze e favorire determinate spinte contrarie al centralismo? La questione è di fondamentale importanza per la funzione politica dell’Unione, è chiaro che i paesi membri sono 27 e le risultanze elettorali dei singoli paesi sono diverse e non è stata ancora metabolizzata nelle nazioni la spinta europeista che dovrebbe accelerare il processo di unione, ma è ora di fare chiarezza sul dove si vuole andare, cioè su quale ruolo e funzione deve assumere l’Europa di fronte agli scenari mondiali ed alla velocità di cambiamento che contraddistingue la fase storica attuale; rapportarsi in questi modi, seppure di fronte ad una questione come quella dei rom che implica diritti fondamentali del cittadino europeo e che dunque,  giustifica battaglie di principio (vale per entrambe le parti), non è un segnale incoraggiante.

Il solco tra le due sponde del Mediterraneo

Nel Mediterraneo il solco religioso, e quindi politico si fa più profondo. La sponda sud si sta caratterizzando per una crescente islamizzazione a scapito della laicità degli stati, anche in paesi tradizionalmente meno propensi ad un coinvolgimento religioso nelle sfere sociali e politiche si stanno affermando spinte integraliste tese ad influenzare la vita istituzionale. I casi sono diversi, tralasciando l’Algeria dove da tempo si si combatte con un’integralismo sempre più radicato, l’avanzata islamica prende campo in Egitto, paese tradizionalmente laicista, Libia, dove il fenomeno pare incanalato ad uso e consumo del dittatore Gheddafi, ma è comunque una spia del processo in atto e sopratutto Turchia dove in una elezione democratica ha vinto un partito che seppur democratico è dichiaratamente filo islamico. La progressiva avanzata nel campo istituzionale della visione islamica non fa che radicalizzare i rapporti tra gli stati del mediterraneo del nord e di conseguenza dell’Europa, tale ottica infatti non può non contrastare con gli standard sociali consolidati nei paesi dell’Unione. In realtà il problema è duplice, se da un lato complica le relazione tra gli stati, dall’altro la crescente immigrazione nei paesi europei da parte di popolazione di fede islamica pone, nel migliore dei casi il legislatore di fronte alla regolamentazione di situazioni nuove, passando attraverso alle questioni pratiche di ordine pubblico legate ad esempio alla mancanza di luoghi di culto, fino al controllo di elementi terroristici infiltrati in associazioni religiose. La visione più laicista e comunque di differente religione e cultura, anche se con gli opportuni e necessari distinguo che caratterizza i paesi occidentali non può non portare a tensioni sempre crescenti per tali motivi ed anzi la situazione è già su di una china piuttosto scivolosa; urge quindi una politica efficace e coordinata che prevenga una ulteriore degenerazione in un’ottica di accordo sia interno che esterno anche in relazione ai numerosi contratti commerciali che intercorrono tra le due sponde del Mediterraneo. Quello che pare necessario è un intervento diretto dell’Unione Europea che governi direttamente questi processi, ma ciò passa per forza da una politica estera dell’Unione sempre più centralizzata con la ovvia rinuncia allo spezzatino delle ventisette politiche estere ora in azione.

La direzione della Turchia

La vittoria dei SI nel referendum turco pone la questione all’ordine del giorno per l’Europa e per la scena internazionale. Le modifiche che verranno introdotte sono in gran parte in linea con i principi del diritto occidentale ed è buona cosa l’affrancarsi da una sempre incombente “tutela” di tipo militare, tuttavia esiste l’introduzione di una norma che porta sotto il controllo dell’esecutivo il potere giudiziario, tale norma, denuncia l’opposizione, potrebbe indirizzare le sentenze verso direzioni obbligate e con un partito islamico al potere la laicità del paese sarebbe in pericolo. A questo punto è lecito domandarsi se la Turchia è veramente più vicina all’Europa o se, se ne sia allontanata ulteriormente. E’ chiaro che il paese sarà ancora di più sotto la lente della UE ed i prossimi atti saranno determinanti per l’ingresso nell’unione. Ma intanto la Turchia, in campo economico si muove in modo vivace verso oriente, si è  infatti creata una sorta di economia ottomana, come è stata chiamata, che vede larghe intese commerciali di Ankara con Iran, Iraq e Siria, gli scambi coinvolgono ogni sorta di merce ed hanno dato alla Turchia un forte impulso alla propria crescita. Per l’europa potrebbe trattarsi di una porta su territori non ancora troppo battuti ma caratterizzati da una buona fase di sviluppo; ma tutto è in mano alla politica ed alla società turca, se manterranno una forte connotazione laica potranno ambire ad essere membri di quell’europa  che tanto desiderano.

Il problema curdo

Prima o poi il problema Kurdo riprenderà l’importanza che gli compete sulla scena internazionale, lo stato Curdo per ora non esiste anche se è rivendicato da tempo da una popolazione, che è a tutti gli effetti una nazione senza stato, che lotta anche con metodi non pacifici. Turchia, Siria, Iran ed Iraq, le nazioni che si dividono il territorio che potrebbe diventare il Kurdistan e sul quale vivono almeno 25 milioni di curdi difficilmente cederanno ai tentativi di vedere nascere un nuovo stato alle loro frontiere cedendo parte delle loro sovranità. Tuttavia con la fine del regime di Saddam, la regione curda iraqena ha guadagnato sempre più autonomia forte di una ricchezza derivante dal petrolio, la visione di questi curdi non è massimalista, sono consci delle difficoltà di creare uno stato totalmente indipendente e quindi optano per un’azione a medio-lungo raggio, anche perchè le carenze interne relative alla gestione el potere sono chiaramente un’ostacolo. Si tratta di una società ancora legata ad una gestione del potere di tipo feudale, basata sui clan e sul clientelismo, inoltre praticamente non esiste un tessuto industriale ed anche le infrastrutture sono carenti. Dati questi punti di partenza quello che si cerca è di aumentare il benessere della popolazione provata da anni di persecuzioni e di eleborare un nuovo proccio al potere cercando di scalfire l’arretrato sistema vigente. Per fare ciò l’intendimento è di organizzare una conferenza internazionale ad Erbil, capitale della zona iraqena, dove con i rappresentanti dei curdi degli altri stati venga presentata un’istanza alla comunità internazionale per la crezione pacifica di uno stato curdo. Quello che potenzialmente potrebbe nascere sarebe uno stato crocevia di importanza mondiale sopratutto per lo snodo energetico, sia produttivo che per il trasporto del greggio, ed in ottica di stabilizzazione politica della regione uno stato su cui puntare da parte delle Nazioni Unite che con proprie basi avrebbero accesso a veloce a potenziali focolai pericolosi per la pace. Questo a parte le legittime aspirazioni del popolo curdo, che dopo deceni di sofferenza, ambiscono legittimamente all’indipendenza sopratutto nella visione dell’autodeterminazione dei popoli. Sarebbe opportuno un’impegno immediato della diplomazia mondiale e delle organizzazioni internazionali per una preventiva soluzione del problema per evitare innanzitutto un nuovo scenario difficile che senza una soluzione perlomeno intravista potrebbe generare un problema in più alla già difficile situazione della regione.

Il problema interno degli USA

Gli Stati Uniti, che da sempre ambiscono ad essere il gendarme del mondo, sono la più grande superpotenza ad esporsi nello scenario mondiale, con quali risultati è sotto gli ochi di tutti, ma quello che ora preme rilevare  è la loro situazione interna ed ancora di più il proprio background democratico. Il caso del pastore di una chiesa praticamente inesistente che mette sotto scacco oltre che l’intera nazione, ma anche i suoi concittadini impegnati in missioni pericolose nel mondo è emblematico ma anche la punta di un iceberg che non deve fare restare tranquilli. E’ vero che ci sono strumenti all’interno dell’ordinamento USA che possono fare da anticorpi, ma talvolta ciò non basta. Negli USA è sancito il diritto a manifestare qualunque opinione e di fatti esiste un partito nazista regolarmente registrato ed accettato; la domanda quindi è può un paese di tale potenza ma che al suo interno contiene pulsioni di ogni genere essere affidabile per essere il poliziotto del pianeta? L’America profonda che non ha la sensibilità delle sue metropoli ma costituisce sacche molto grandi di arretratezza non rischia per troppa ed incompresa libertà di mettere a repentaglio tutto il lavorio diplomatico e militare che parte da Washington? Come si può volere esportare democrazia senza quella autoanalisi che apparentemente manca agli USA, senza cioè un lavoro di introspezione politica che analizzi e curi le cause dei pochi o tanti che ora vogliono bruciare il corano e domani inventeranno qualcosa d’altro che con pochi mezzi riesca a danneggiare un lavoro enorme e complesso? Obama pare bravo sul piano internazionale, le sue dichiarazioni sono sempre precise ed appropriate, ma sul piano interno trova difficoltà a rinnovare la sua supremazia politica e le elezioni di medio termine paiono non volgere a suo vantaggio.  Ma Obama pur importante è pur sempre un attore passeggero, quello che resta ma non sempre appare, è la vera condizione Statunitense: una superpotenza che mantiene al suo interno tanta parte di popolazione arretrata, di un arretratezza non lontana dall’arretratezza dei popoli dove gli USA vogliono esportare democrazia.